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Maledetti vi amerò -

Regia:Marco Tullio Giordana
Vietato:14
Video:Mondadori Video
DVD:
Genere:Drammatico
Tipologia:I giovani e la politica
Eta' consigliata:Scuole medie superiori
Soggetto:Vincenzo Caretti, Marco Tullio Giordana
Sceneggiatura:Vincenzo Caretti, Marco Tullio Giordana
Fotografia:Pino Pinori
Musiche:Franco Bormi
Montaggio:Sergio Nuti
Scenografia:
Costumi:
Effetti:
Interpreti:Flavio Bucci (Riccardo), Agnes De Nobecourt (Guya), Stefano Manca (Carlino), Anna Miserocchi (la madre), Alfredo Pea (Vincenzo), Biagio Pelligra (il commissario), Micaela Pignatelli Cendali (Letizia), David Riondino (Beniamino)
Produzione:Soc. Coop. Jean Vigo R.L. - Film Alpha S.P.A./Raidue
Distribuzione:Cineteca Nazionale - Cineteca Lucana
Origine:Italia.
Anno:1980
Durata:

84'

Trama:

Riccardo, detto "Svitol", nel '68 era un ventenne e fervente "compagno". Nel 72, però, era esulato nell'America Latina alla ricerca di idee e di futuro. Tornato in Italia a Milano, cinque anni dopo, non possedeva più né denaro né passaporto. Alla mamma che gli chiedeva: "allora, com'è questo Sud America?", non riusciva a rispondere. Un commissario di polizia, del quale diverrà in certo qual modo amico, gli dichiara: "Non sta più in piedi nemmeno una delle tue fottutissime opinioni". Riccardo allora si mette a vagare attraverso la metropoli lombarda, alla ricerca degli amici e compagni, nonché alla scoperta dell'Italia nuova. Ma gli amici sono irriconoscibili: uno muore per droga, un altro è divenuto milionario grazie a fortunate operazioni in Borsa, altri vivacchiano mediante piccoli commerci. L'Italia postsessantottesca è in piena dissoluzione: i giovani rivoluzionari hanno spianato la strada all'eversione e alla criminalità politica; si trovano sulla coscienza i cadaveri scomodi di Moro e di Pasolini anzi, quasi ogni giorno, debbono contare su di una vittima più o meno illustre del brigatismo di vario colore. Lo scoraggiamento è nell'animo di tutti e pare avere coinvolto persino le cose. Un altro amico, redattore di "'Lotta continua", gli dichiara: "dei compagni ne uccide di più la depressione che la repressione": Svitol non riconosce più nulla e non ritrova se stesso. Del tutto abbattuto moralmente, denuncia all'amico commissario un attentato presso i Santi Giovanni e Paolo di Roma e, dopo una peregrinazione a luoghi deputati (via Caetani, piazza del Gesù e via Botteghe Oscure), si fa trovare all'alba nella piazza deserta ove, con premeditata messa in scena, si fa uccidere dal commissario.

Critica 1:Si parlerà di '68 in questa scheda e allora, per evitare equivoci, varrà la pena che chi scrive chiarisca brevemente che cosa intende con questo numero cabalistico. Intanto il '68 non è un anno ma quasi un decennio; non è una festa primaverile troppo prolungata ma l'avvio di un momento di riflessione sui vari ruoli e sui rapporti che tra essi intercorrono; non è una rivoluzione (fallita) ma l'avvio di un processo di mutamento che nonostante le apparenze - continua e che - nonostante le reazioni - potrebbe anche essere considerato inarrestabile; non è il folklore dei pochi che subito dimenticano e si volgono ad altri folklori ma l'inizio di una serie di lacerazioni dolorose quanto benefiche e drammatiche quanto vitali; non è la partecipazione ad atti ed eventi emblematici ma la conseguenza che quegli atti e quegli eventi hanno provocato proprio fra i non partecipanti (individui o strati) o fra i partecipanti marginali; non è ciò che oggi è facile negare ma ciò che da sempre ogni sussulto incide nella coscienza e nella memoria collettiva. Intorno, come sempre, sta il coro rabbioso dei detentori dei potere: ammutoliti per un istante, capaci subito di tornare a ringhiare, pronti a cogliere a loro favore ogni minimo sbandamento, soprattutto disposti a balzare sulla preda quando il banchetto non sia più contrastato e la normalità - questa sì, sanguinosa - sia tornata a regnare, infine abilissimi nel levare il loro latrato quando il pericolo sia svanito e l'avversario si sia disperso da solo.
Riflessioni banali ma forse non dei tutto inutili, specie se nascono - oltre che in relazione a una situazione generale - in rapporto a un momento particolare, quello appunto rappresentato dall'esistenza di un film come Maledetti vi amerò, dalla sua genesi e dalla sua sostanza, dall'accoglienza di critica e di pubblico a esso riservata, dalla ripresa (ora gaglioffa, ora pavida, ora sinceramente autocritica e propositiva) di un discorso sul '68. Quest'ultimo, seppellito frettolosamente e maldestramente un paio d'anni fa - e con un cinismo e uno spirito mercantilistico che fecero meditare - da alcuni dei suoi stessi promotori e interpreti, torna a galla, o meglio conosce una nuova fase di analisi e di ripensamento, proprio grazie all'opera prima di Marco Tullio Giordana.
Il rapporto è diretto (ma non, per fortuna, nel senso in cui l'intende Luigi Comencini con il suo Voltati Eugenio), il modo esplicito (in termini impliciti esiste il felicissimo, quanto arduo da decrittare, precedente di Chiedo asilo), le radici profonde (a differenza di quanto si verificava nel più settantasette Ecce Bombo di Nanni Moretti), anche se si potrebbe altrettanto ragionevolmente sostenere che Maledetti vi amerò è più un film sulla memoria della giovinezza e sulla transizione d giovinezza alla “maturità” che non un film sul '68 tout court. Ancora un'affermazione. Assieme a Immacolata e Concetta (non a caso laureato a Locarno nel 1979 come Maledetti vi amerò lo è stato quest'anno dopo essere transitato da Cannes) il film di Giordana costituisce l'unico esordio del biennio che assuma rilevanza e autenticità. Se ne sono accorti un po' tutti, ciascuno a suo modo, come dire che non è molto, ogni senso. Non è molto perché i risultati sono perfettibili, esitazioni ancora tante, le difficoltà - alcune derivanti da problemi di produzione e/o distribuzione - palesi. Non è molto anche perché i film che piacciono e convincono in più direzioni, che godono al tempo stesso di una sorta di elasticità e capacità di assorbire gli urti, o recano in sé in germe il baco del prodotto “furbo” o fanno di certa loro gracilità l'arma più forte per ottenere la tenerezza del consenso (e questo è capitato - a un livello secondo e inferiore - anche al Maurizio Nichetti di Ratataplan). Ma veniamo ai fatti. (...)
La vicenda dei film muove da una finzione metaforica (la lunga quanto improbabile “assenza” di un giovane sessantottino, Riccardo detto Svitòl, dal teatro degli avvenimenti politici, sociali e di costume dei nostro paese) e si sviluppa su tre piani alternati: il crudo impatto con la realtà del vecchio - nuovo potere e dei guasti un po' da tutti operati; la ricostruzione, ora con stupore ora con rabbia, di eventi non vissuti e delle conseguenze che a tali eventi si sono volute imporre; il percorso della memoria, sia per ritrovare le proprie radici sia per comprendere dove stia andando il mondo (e a esso offrire, sempre a livello di finzione metaforica, una disperata quanto provocatoria risposta). L'“assente” Svitòl non tarda a connotarsi come l'unico “presente”: profondamente solo, osservatore spesso disincantato, interlocutore silenzioso di ex amici o di ex nemici troppo colloquianti, animatore ironico e un tantino ingenuo di situazioni che lungi dal decantarsi si sono vieppiù intorpidite e immalinconite, spettatore di lugubri celebrazioni o di lerci ripiegamenti. Inesistente la famiglia (cui istintivamente ritorna ma che incruentemente subito abbandona), fragilissima la possibilità di allacciare o di riallacciare una relazione erotico-sentimentale (anche la donna è praticamente “assente” da tutto il contesto: v'è solo il bellissimo personaggio della bambina, testimone e tramite), restano i rapporti da una parte con i compagni, dall'altra con l'avversario di sempre.
Quest'ultimo, impersonato da un astratto commissario di polizia, compare sin dalla prima immagine, sotto il fascio di luce di una lampada dietro un anonimo tavolo di questura, riappare lungo tutto il percorso nelle circostanze più significative e nei luoghi più emblematici (una fabbrica abbandonata, una saletta di cineteca), ha in mano addirittura il finale: complice, esecutore e vittima di una macchinazione pur sempre metaforica ma che viene posta in scena sui luoghi dei reale (nella fattispecie quelli che videro la conclusione dell'affaire Moro). Il commissario, singolarmente (ma non si tratta di un ripiegamento: cerchiamo di dimenticare sia i film poliziotteschi sia i film politici falso-impegnati), scandisce i momenti determinanti della riflessione, assume quasi il ruolo di una coscienza critica: con il potere i conti bisogna pur farli e a nessuno come a chi rappresenta il potere è più agevole spiegare le proprie mosse, le proprie certezze e le proprie esitazioni (non ci si comprenderà, ma la logica che guida chi agisce, sui due fronti, è la medesima). E poi, quando la determinazione è quella dei perdente (che vuole vincere a ogni costo, persino a costo della propria autosoppressione), occorre innestare il meccanismo adeguato, e solo dai tardi riflessi dei potere è possibile ottenere udienza: specie se, momentaneamente accantonata la volta di classe, si può condurre il gioco unicamente in termini di “provocazione”, di un far-parlare-di-sè che sia al tempo tesso nemesi, sacrificio e innesco di una nuova agitazione.
Finalizzando tutto il film alla sua conclusione (che, del resto, è implicita sin dall'inizio), non solo ci si libera della supposta “equivocità” politica attribuita al rapporto Svitòl-commissario, non solo si sottende semmai una larvata “equivocità” interpersonale (che Giordana, da sue dichiarazioni, avrebbe in un primo momento persino voluto spingere sino al sospetto omosessuale), ma soprattutto si è in grado di comprendere quando il film medesimo costituisca un contributo al viaggio nella memoria collettiva di una generazione e dintorni e quanto esso acquisti e consenta di acquistare in termini di “autenticità” non-realistica. Allora il commissario è anche lo stimolo a comunque agire in una società dell'inazione, dell'indifferenza, della rinuncia; è il polo (non peggiore di altri) da cui si diparte lo scontro; proprio perché non peggiore di altri (ma sempre altro-da-sè) è colui che va coinvolto e rovinato. Che assassinio-suicidio finale significhi per il poliziotto un premio oppure una punizione, non conta: conta il caso di coscienza; che il giorno dopo la stampa possa parlare della soppressione di un pericoloso terrorista colto in flagrante o che invece debba parlare dell'ennesimo ed evitabile “incidente sul lavoro” della repressione, non conta: conta, comunque, il caso.
caso è ciò che aggrega anche i ritrovati quanto disparati compagni, l'incontro con i quali punteggia non più il percorso dinamico bensì il percorso statico dei film: una serie di stazioni, di “luoghi deputati”, di situazioni ormai stagnanti e semplicemente riproducenti se stesse. L'ultima Utopia (ma vi sono tracce anche di quella precedente: l'antifascismo resistenziale e i suoi miti) ha creato e ora stancamente perpetua una serie di strutture (il giornale extraparlamentare, la boutique alternativa), possiede i suoi monumenti (la fabbrica, certe strade, la Statale), conosce i suoi riti di accumulazione ludica e di collezionismo stravagante e irreverente, ha liberato - senza poi più riuscire a contenerne le conseguenze, anzi talora pagandole in prima persona - una serie di cose costrette (dalla coppia alla maternità, dal femminismo alla lotta violenta, dall'omosessualità alla droga). Svitòl le frequenta e vi si confronta, ma il panorama è ormai irrimediabilmente sconsolante, quando non tragico, quando non grottesco: la droga picchia pesantemente, i nuovi compagni picchiano indifferentemente, a cronaca picchia metodicamente; pare persino che la violenza esercitata da tutti e su tutti possa accomunare Moro e Pasolini, terroristi e magistrati, neri e rossi; tutti sono stanchi, anche i luoghi e gli oggetti. Il binomio delusione - illusione è tornato a essere il binomio illusione - delusione; le case - bene in cui non si era “invitati a merenda dai compagni di scuola” e dove, poi, “si è entrati nel '68 a scopare la sorella o a preparare occupazioni coi fratello minore” sono tornate a essere ostili o impenetrabili; gli “omologati” sono sempre più omologati e i “disadattati” sempre più disadattati. Non resta che il “gesto”, più o meno esemplare, dopo di che tutti - si presume i personaggi, si pensa agli spettatori - si ritroveranno più maturi, più vecchi, taluni più felici per aver rimosso il passato, talaltri ancor più disperati per averlo definitivamente perso.
E a proposito di pratiche narrative - forse è curioso - viene in mente Gide, il Gide profeta di certe correnti di pensiero antiautoritario e antirepressivo che Giordana si suppone abbia letto, per esempio quello de Le segrete del Vaticano. Sfogliandone una vecchia traduzione Rizzoli (1955), si colgono dalla prefazione di Oreste Del Buono alcune annotazioni che ben si attagliano anche a Maledetti vi amerò: l'una relativa al protagonista, che “avrebbe dovuto opporsi alle manie, cercare d'esser libero, di respingere lontana da sé l'imbecillità generale” mentre, “alla fine, non riesce a primeggiare sull'imbecillità degli altri e, in compenso, l'imbecillità degli altri non risulta così schematica, arida come ci si poteva aspettare”; l'altra relativa al testo che “non è scritto in un solo stile: satira, appendice poliziesca, romanzo effettivo, è un'arlecchinata di
stili. Ogni personaggio possiede il suo, come una sua musica, una sua fanfara particolare. Le frasi sono brevi o lunghe secondo i caratteri, secondo i caratteri ricorrono certe parole o altre, secondo i caratteri sono tentati certi accostamenti o altri, secondo i caratteri il tono cambia. La partecipazione dell'autore si modifica secondo i personaggi che egli tratta: la cauta neutralità si alterna al colore più acceso. E, tra uno stile e l'altro, egli ha instaurato accordi sottili, legami leggeri ma convincenti che basterebbero a provare la sua abilità. insomma, questa “farsa” possiede una complessità, una profondità ragguardevoli, e si capisce come l'autore abbia penato nella stesura, in questa ambiziosissima prova non meno d'abilità tecnica che di conoscenza e comprensione umana”. Ovviamente, troppa grazia Marco Tullio (l'abilità tecnica è di là da venire, anche se può venire; la conoscenza e la comprensione umana appaiono ancora acerbe), ma in quanto a pratiche narrative non vi sono dubbi e la “farsa” è farsa proprio in quella accezione.
Autore critica:Lorenzo Pellizzari
Fonte criticaCineforum n. 199
Data critica:

11/1980

Critica 2:Discusso e apprezzato a Cannes, premiato a Locarno, invitato a San Francisco, questo film dell'esordiente Giordana è destinato a suscitare curiosità e interesse all'estero per il suo approccio disperato (qua e là perfino piagnucoloso) a certi aspetti del "caso italiano". Da noi rischia di fare meno strada, viste le scarse simpatie di cui godono generalmente coloro che non si danno pace perchè non sono riusciti a fare la rivoluzione. (...) Nell'insieme un film generazionale"velleitario, d'ispirazione tetra, ma ben costruito: il giovane regista, insomma, ha le qualità per andare avanti e fare meglio. Nella guida degli attori, poi, rivela già molta sicurezza.
Autore critica:Paolo Fabrizi
Fonte critica:Il Settimanale
Data critica:



Critica 3:
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