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Amore tossico -

Regia:Claudio Caligari
Vietato:14
Video:General Video, Vivivideo
DVD:DNC
Genere:Drammatico
Tipologia:Disagio giovanile
Eta' consigliata:Scuole medie superiori
Soggetto:Guido Blumir, Claudio Caligari
Sceneggiatura:Guido Blumir, Claudio Caligari
Fotografia:Dario di Palma
Musiche:Detto Mariano
Montaggio:Enzo Miniconi
Scenografia:
Costumi:
Effetti:
Interpreti:Mario Afeltra, Fernando Arcangeli, Enzo Di Benedetto, Loredana Ferrara, Cesare Ferretti, Mario Gaiazzi, Clara Memtoria, Michela Mioni, Gianni Schettini, Silvia Srarita, Roberto Stani, Dario Trombetta
Produzione:Iter International
Distribuzione:Non reperibile in pellicola
Origine:Italia
Anno:1983
Durata:

96'

Trama:

Siamo ad Ostia, dove seguiamo le vicende di un gruppo di tossicodipendenti impegnato, nell'arco di tutta la giornata, un giorno dopo l'altro, a procurarsi la droga con tutti i mezzi possibili. Accattonaggi, furti piccoli e grandi, rapine, prostituzione. In questo vortice, Cesare e Michela, due ragazzi del gruppo, riescono ad avvertire la profondità del baratro nel quale sono caduti, e decidono - ma non è la prima volta che lo fanno - di uscire dal "giro", definitivamente, dopo l'ennesima giornata inutile al termine della quale Cesare era stato sul punto di uccidere con una pistola la ragazza e di togliersi a sua volta la vita. Ma l'ultima "dose" che decidono di farsi prima di smettere li porta alla tragedia: Michela si sente male, e Cesare, disperato, la porta in ospedale in condizioni gravissime; quindi, sentendosi responsabile dello stato della ragazza, torna sul posto dove Michela aveva avuto la crisi, e a sua volta si inietta una dose massiccia di droga. Resiste alla droga, ma mentre torna di corsa verso l'ospedale, viene ucciso da due poliziotti in borghese che avevano cercato di fermarlo.

Critica 1:Ambientato a Ostia e dintorni, è, in chiave di cinema-verità, una fiction di cui sono interpreti veri giovani drogati (proletari, sottoproletari e piccoli borghesi) con le braccia trafitte di buchi e di lividi, le fantasie e pulsioni di morte, i comportamenti e le liturgie, il ribaldo vitellonismo, la pena e il disordine del vivere, la tetra allegria. Fu definito un film "tagliato", come si dice dell'eroina (o del vino), fatto di "roba" buona (efficace) e di "roba" meno buona, persino cattiva, come nel finale retorico e melodrammatico. Film postpasoliniano per l'ambientazione, l'onesto atteggiamento frontale, il linguaggio disadorno e lucido che nasce dal rispetto e suscita pena.
Autore critica:
Fonte criticaIl Morandini - Dizionario dei film, Zanichelli
Data critica:



Critica 2:Tendenzialmente, rifuggiamo da film come Amore tossico che puntano a colpire il pubblico (e a ingabbiare il critico) con la virulenza e la drammaticità dell'argomento, più che con precise virtù stilistiche. Ma, come succede in ogni campo, bisogna sempre essere preparati a fare dei distinguo. Amore tossico è un film che non si rigira su se stesso, non ostenta la propria “attualità”, non rinuncia a raccontare una storia là dove sia necessario per carpire l'attenzione dei pubblico. Per cui, spese le giuste parole per raccomandarne lo spessore problematico, lo esamineremo nel modo (dal nostro punto di vista) più gratificante per gli autori, il regista Claudio Caligari e il sociologo Guido Blumir, che ha collaborato alla sceneggiatura e ha prestato la propria consulenza tecnica. Lo esamineremo, cioè, come un film, senza paura di segnalarne pregi e difetti.
Sostenuto da un nome illustre come quello di Marco Ferreri, Amore tossico ha suscitato interesse alla scorsa mostra di Venezia, per poi essere presentato con esiti lusinghieri nella sezione “Nuevos Realizadores” del festival di San Sebastiano. Interpretato esclusivamente da attori non professionisti, giovani tossicodipendenti della periferia romana che “recitano” nel ruolo di se stessi, il film esplora un terreno praticamente vergine (sono ben pochi i precedenti seri, a parte qualche documentario e il vecchio Non contate su di noi di Nuti, che però ebbe poca risonanza), ma si crea immediatamente i propri predecessori. Il primo, naturalmente, è Pasolini, richiamato da mille cose: l'ambientazione nelle borgate romane, il dialetto, l'uso di non-attori, e naturalmente il monumento che a Ostia ricorda la sua tragica fine e sotto il quale Cesare e Michela vanno a morire.
Il riferimento a Pasolini, però, rischia di risultare fuorviante. Il sottoproletariato, per Pasolini, non era il mondo disperato e plagiato descritto da Caligari, ma anzi l'ultimo baluardo di vitalità contrapposto alle meschinità borghesi, l'estremo avamposto della natura nel cuore della civiltà. Per i proletari di Pasolini le azioni più truci posseggono, proprio per il loro carattere primigenio, una profonda sacralità (si pensa naturalmente alle miserie di Accattone commentate dalla musica di Bach, alla crocifissione della comparsa in La ricotta, alla resurrezione di Assurdina-Silvana Mangano in La terra vista dalla luna).
Nel mondo descritto da Caligari, invece, non c'è posto né per il sacro né per il sogno. La cosa fondamentale, a nostro parere, è che il mondo dei drogati non ha né un passato, né un'unità antropologica: non è quindi una classe, o una cultura, ma semplicemente un'accolita di anime perse che non possono identificarsi in nulla, non hanno nulla dietro di sè. Il sottoproletariato pasliniano era, più che una classe, una “razza” che si identificava sia con dei miti culturali (recuperati dall'autore, certo, ma pur sempre tali: Boccaccio, Chaucer, la mitologia araba, l'antichità greca di Edipo e di Medea), sia con delle regole interne (la principale: una pulsione erotica che si trasformava consequenzialmente in un desiderio di morte).
Anche quello dei tossicodipendenti è un microcosmo basato su regole, ma in esso non esiste la solidarietà, neanche all'interno della coppia (il film si apre con un litigio tra Cesare e Michela, perché lei ha trovato la droga senza avvisare lui e gli altri amici; ma Michela, a sua volta, è stata ingannata da un'altra ragazza del “giro”). E, soprattutto, è un microcosmo che riproduce al proprio interno le stratificazioni di classe: al livello più basso ci sono le ragazze che per procurarsi la droga si prostituiscono, come Teresa, o che rischiano di finire sulla strada, come Loredana. Appena sopra, di sono i tossicodipendenti non ancora giunti al capolinea, ancora in grado di procurarsi i soldi con inghippi vari, non esclusa la rapina. A un livello più alto, naturalmente, gli spacciatori, e magari anche le loro madri, che preparano le dosi sul tavolo di cucina e nascondono l'eroina nel barattolo dello zucchero. E ancora al di sopra tutto l'enorme giro di interessi, di cui Caligari non parla, ma che lo spettatore non ignora.
Quindi, primo dato: i tossicodipendenti non sono un “gruppo” omologo, compatto. Al proprio interno, essi riproducono quello stesso vortice di ingiustizie di cui un giudizio corrente li vorrebbe vittime unilaterali. Questa visione dialettica dei microcosmo della droga è forse il pregio maggiore dei film, che però, nel finale, scivola verso interpretazioni di segno diverso. Proprio nel momento in cui cita Pasolini in maniera più esplicita, Caligari ne riprende un certo misticismo, ma senza il medesimo spessore e, soprattutto, nel momento meno opportuno. La fine di Cesare, che si offre ai poliziotti come una vittima sacrificale, è fuori tono, mentre il precedente flash-back in cui Cesare e Michela rievocano la propria iniziazione alle droghe pesanti è, senza mezzi termini, un grave errore stilistico.
Ma, come spesso capita, gli errori di stile derivano da un'impostazione generale della struttura dei film. Caligari parte con toni documentaristici, e riesce a dare un ottimo ritmo alla prima parte; ma nel finale punta al dramma, si concentra eccessivamente su due personaggi (tralasciando gli altri, ed è un peccato) e il film gli sfugge di mano, cadendo nel melodrammatico.
In generale, va detto che i punti in cui Caligari tenta di dare eccessivo spessore drammatico alla vicenda sono i più deboli dei film. La materia non necessitava di esasperazioni di sorta, e certe uscite tra il lirico e il macabro (il quadro dipinto con le siringhe) appaiono decisamente forzate. Caligari, invece, dimostra un linguaggio già sciolto quando lascia parlare i fatti senza tentare di finalizzarli a un surplus di espressività. Anche l'uso dei paesaggio, pur non inedito
(Ostia, le borgate), è efficace finchè si mantiene in questa chiave.
È quasi inevitabile che gli attori siano assai più veri quando non sono costretti a “recitare” eccessivamente. La sceneggiatura (che, stando alle dichiarazioni di Caligari, ha conosciuto diverse versioni, e molti rimpasti) non sempre li aiuta; bisogna però ammettere che i testi, pur essendo stati sempre scritti, raggiungono spesso quell'illusione di realtà che nel cinema italiano è merce così rara. Anche il doppiaggio, che in certe sequenze è stato imposto dalla cattiva riuscita dei sonoro in presa diretta, è quasi inavvertibile. La riuscita tecnica dei film è globalmente apprezzabile; certi inciampi narrativi erano probabilmente inevitabili, a conferma che molti mali del giovane cinema italiano derivano da difficoltà in fase di sceneggiatura. Ma Caligari ha già superato uno degli scogli più difficili, la scrittura di un copione narrativo che sapesse fondersi con la realtà, ritornando alle origini stesse dei racconto, al grado zero di illusione. Non sempre l'esito è perfetto, ma Caligari va atteso con fiducia a una prossima prova.
Autore critica:Alberto Crespi
Fonte critica:Cineforum n. 231
Data critica:

1-2/1984

Critica 3:
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Data critica:



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