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Lulù - Il vaso di Pandora - Buchse der Pandora (Die)

Regia:Georg Wilhelm Pabst
Vietato:No
Video:Mondadori Video
DVD:Ermitage
Genere:Drammatico
Tipologia:Storia del cinema
Eta' consigliata:Scuole medie superiori
Soggetto:Frank Wedekind
Sceneggiatura:Joseph R. Fliesler, Ladislao Vajda
Fotografia:Gunther Krampf
Musiche:
Montaggio:
Scenografia:Hesch Gottlieb
Costumi:
Effetti:
Interpreti:Siegfried Arno Il regista, Louise Brooks Lulu, Daisy D'ora Fidanzata di schon, Gustav Diessl Jack, Carl Goetz Schigolch, Fritz Kortner Schon, Francis Lederer Alea, Kraft Raschig Rodrigo, Alice Roberts Contessa Geschwitz, Michael Von Newlinsky Casti-Piani
Produzione:Nero-Film Ag Berlino
Distribuzione:Cineteca Nazionale - Cineteca di Bologna
Origine:Germania
Anno:1928
Durata:

106'

Trama:

Da Lo spirito della terra (1895) e Il vaso di Pandora (1904) di Franz Wedekind. Lulu, fioraia ambulante e presunta figlia di un mendicante (C. Goetz), ha una relazione col ricco e cinico Peter Schon (F. Kortner), manda al cimitero due mariti (il nobile Goll per infarto, il pittore Schwarz per suicidio), diventa ballerina, si fa sposare da Schon che, dopo aver scoperto che suo figlio Alva (F. Lederer) ne è l'amante, la spinge a uccidersi, ma ne viene ucciso. Processata e assolta, Lulu fugge prima a Parigi, poi a Londra dove, ridotta a prostituirsi per la strada, è uccisa da Jack lo Squartatore (G. Diessl).

Critica 1:Una delle punte alte del cinema di Pabst (1885-1967) che diede il meglio di sé fino al '32, questo film muto fu oggetto di molte approfondite analisi e di disparate interpretazioni (Lotte Esiner, Ado Kyrou, Borde-Courtade-Buache, ecc.) per il complesso equilibrio tra realismo critico, stilizzazione che evita le trappole del formalismo, immoralismo eversivo, esaltazione della sensualità, sostrato di pietà per i personaggi. Non c'è dubbio, però, che la sua forza nasca dall'incontro del talento di G.W. Pabst con la presenza magica di L. Brooks, ex ballerina americana: "Nel tetro e vischioso magma pabstiano, la mobilità 'fisica' di Lulu fa lampeggiare agguati, trasalimenti, scocchi. Tutto il film ne riceve come una sollecitazione dinamica, una vibrazione contagiosa" (Francesco Savio). Il miracolo si ripeté l'anno dopo con Il diario di una donna perduta. Ai due drammi di Wedekind sono ispirati un film (1919) di Arzn Crerepy con Asta Nielsen, Lulu (1962) di Thiele con Nadja Tiller e quello (1980) di Borowczyk. Alban Berg ne trasse un'opera incompiuta di cui fu data un'esecuzione in concerto nel 1937 a Zurigo e la prima rappresentazione scenica alla Biennale di Venezia del 1949.
Autore critica:
Fonte criticaIl Morandini - Dizionario dei film, Zanichelli
Data critica:



Critica 2:Profondamente innovatore non solo per tecnica e linguaggio ma per originale ripensamento del dittico wedekindiano, il film sfugge fin dalle prime inquadrature alla trappola convenzionale dell'adattamento teatrale.
Immediatamente è di scena Lulù, capricciosa e infantile, istinto calcolato e tenerezza filiale. Louise Brooks pare non faccia nulla per dare voce, corpo, credibilità a un personaggio tanto complesso e contraddittorio da sfiorate l'astrazione del simbolo. Si limita ad essere. È questa l'assoluta sconcertante novità del film. In questo consiste l'apporto fondamentale della regia. Pabst ha ripensato la disperata dialettica di Wedekind (autore i cui dialoghi non hanno mai la funzione di collegare un personaggio all'altro ma di eludere perfidamente qualsiasi possibilità di comunione reciproca) in termini implicitamente esistenziali ed ha con ciò liberato il film muto da qualunque arbitrario condizionamento negativo nei confronti dell'opera letteraria.
Anziché essere una banale testimonianza visiva, incolore registrazione in immagini di un capolavoro di palcoscenico, il film ambisce a realizzarsi come oggetto separato: mirabile lettura, insieme univoca e polivalente, delle molteplici chiavi sollecitate da un testo che vuole restaurare nel ventesimo secolo la Tragedia e ci riesce proprio perché, a differenza dei moduli classici, non addita soluzioni né reclama vendette. La terna dei dati che presiedono alla sanguinosa conclusione (l'occasione che collega la vittima al carnefice) non serve più a identificare uno stereotipo negativo ma ad eliminare l'intero ordine sociale adombrato da quelle sinistre figurine.
Lulù entra nel film con l’impeto di una folata d'aria pura: il suo approccio a Schigolch è quanto di meno morboso si possa immaginare. I due si rincorrono come in un girotondo infantile. È la “figlia” ad allontanarsi per lasciar libero il “padre” di frugarle nella borsetta alla ricerca del denaro. È lei a portargli la bottiglia del liquore preferito. È lei infine a rivelarlo a Schön quando, dopo l'intervento del cagnolino che continua ad abbaiare all'indirizzo del vecchio, decide di uscire sul balcone causando la sorpresa dell'uno e la sdegnosa irritazione dell'altro.
Non una donna-vittima e neppure un'ambigua donna-bambina fuori stagione: la Lulù di Pabst è semplicemente la donna allo stato puro, che si crede libera da qualunque condizionamento sociale. Al momento cruciale della fuga, prima di lasciare Berlino in treno, fa una rapida sosta nell'appartamento ed entra nella stanza. dove è stato ucciso Schön. Ad Alwa che le chiede, dolorosamente stupito, come abbia trovato il coraggio per ritornare, la Lulù di Louise Brooks non può che obiettare “Dove dovrei andare se non a casa mia?”. Eva moderna e insieme epitome involontaria della mitica figurazione biblica incerta tra la mela e il serpente, tra la seduzione che ne libera la soggettività e l'inclinazione verso un caos originario che minaccia di perderla, Lulù non può rassegnarsi a un generico ossequio alle leggi del microcosmo sociale. Per lei è naturalissimo rispondere a Schön con una battuta che, su ogni labbro ad eccezione del suo, suonerebbe espressione di spietato cinismo (“per sbarazzarti di me” gli mormora alle prime inquadrature quando l'uomo le annuncia l'intenzione di sposarsi e troncare la relazione - “dovrai uccidermi” e la didascalia conferma il breve, crudo muoversi delle labbra).
Per lei il sesso non è un mezzo ma un fine: concedersi significa essere amata ed essere amata esige come prova tangibile il luccichio del denaro. Sono due concetti inscindibili nell'universo fantastico del bambino (che continua a esigere doni) e dell'adulto che il gioco incessante della ripulsa e dell'offerta fa pericolosamente inclinare verso la ripetizione di quel cliché psicologico che sembra connaturato all'infanzia. Dopo che Schön irritato lascia l'appartamento, Lulù non manifesta la minima inquietudine. Accetta, felice, che Schigolch chiami con un cenno Rodrigo che sta in vigile attesa sull'altro lato del marciapiede. Anche la presentazione e il primo timido accenno a quello che, in altre condizioni e con una protagonista caratterizzata in senso realistico, diverrebbe il nucleo di una futura associazione a delinquere, acquista sotto l'obiettivo “radente” di Pabst valenza di gioco.
Lo stile adottato è significativo: a) l'apertura a iride introduce un piano americano di Lulù appoggiata al muro in attesa; b) Schigolch apre la porta per far passare l'amico e i due, insieme, attraversano l'immagine a destra per raggiungere Lulù; c) un raccordo sul movimento permette di inquadrare, ancora in piano americano, tutti i presenti. La cellula della miserabile “ familia humana ” degli esclusi si richiude su se stessa. Ora Lulù, dopo la proposta di Schigolch di tornare a danzare (formando con Quast la coppia che dovrebbe unire la prestanza fisica dell'atleta alla pudica grazia elusiva della languida fanciulla-fiore), può appendersi al braccio di Rodrigo, tastarne i muscoli e stupirsi della loro consistenza. In questa breve sequenza, mantenuta su un impeccabile ritmo giocato tra la commedia borghese e il vaudeville, è già contenuta in nuce la forma dell'oggetto-film, del “progetto Lulù” secondo Pabst.
Eterna animatrice di situazioni che fanno sempre pensare all'infanzia (perché di quella hanno conservato la meccanica spontaneità di riflessi) Lulù appare vittima di se stessa persino in quello che dovrebbe configurarsi - all'occhio dello spettatore, ancora ignaro dell'esito della storia - come un solidale rapporto tra emarginati, tutti provenienti dallo stesso milieu, tutti agitati da analoghe rivendicazioni, tutti pronti a respingere il ruolo subalterno di complici del Grande Capitale, tutti in frenetica attesa di una promozione che li innalzi al rango di consumatori. Ma Lulù non è, nonostante le apparenze, un film realistico e la cellula non esige di essere interpretata a senso unico come la sede primitiva di una alleanza intesa a rovesciare il patto sociale.
I due miserabili relitti della cui compagnia Lulù si compiace desiderano solo spendere (e non “accumulare”). Mentre, per quanto riguarda lei, di una sola cosa Lulù è consapevole: l'andare incessantemente alla ricerca di un piacere che ha lo stesso volto di un gioco (sia pur debitamente aggiornato sui canoni di un individuo adulto che ormai agisce il sesso senza alcuna mediazione). Non il cinismo ma un ironico sadismo sembra la nota dominante della sua psicologia. (…)
Autore critica:Enrico Groppali
Fonte critica:Georg W. Pabst
Data critica:



Critica 3:
Autore critica:
Fonte critica:
Data critica:



Libro da cui e' stato tratto il film
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