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Piccola ladra (La) - Petite voleuse (La)

Regia:Claude Miller
Vietato:No
Video:General Video, San Paolo Audiovisivi, Cecchi Gori Home Video, laserdisc: Rcs Films & Tv, Philips Video Classics
DVD:
Genere:Drammatico
Tipologia:Diventare grandi
Eta' consigliata:Scuole medie inferiori; Scuole medie superiori
Soggetto:Claude De Givray, François Truffaut
Sceneggiatura:Luc Beraud, Claude De Givray, Annie Miller, Claude Miller, François Truffaut
Fotografia:Dominique Chapuis
Musiche:Alain Jomy
Montaggio:Albert Jurgenson
Scenografia:
Costumi:
Effetti:
Interpreti:Chantal Banlier (Zia Lea), Didier Bezace (Michel Davenne), Raoul Billerey (André Rouleau), Nathalie Cardone (Marinette), Clotilde De Bayser (Severine Longuet), Simon De La Brosse (Raoul), Charlotte Gainsbourg (Janine Castang)
Produzione:Orly Films Renn Productions, Cine Cinq, Les Films du Carrosse, Sedif
Distribuzione:Bim
Origine:Francia
Anno:1988
Durata:

110'

Trama:

Abbandonata dai genitori fin da piccola, Janine è cresciuta ospite degli zii a contatto quotidiano con la miseria e il degrado. La ragazza tenta di rifarsi delle umiliazioni subite rubacchiando a scuola e nei negozi. Dopo una notte passata in prigione per un furtarello Janine è persuasa dallo zio a lasciare la scuola e a mettersi al servizio di una famiglia facoltosa della città. Una sera, conosce Raoul, un giovane sbandato e dopo qualche tempo fugge con lui in moto per vedere il mare ma sorpresa dalla polizia viene rinchiusa in riformatorio. Fugge in cerca del giovane ma apprende che, intanto, egli è partito volontario per l'Indocina.

Critica 1:Abbandonata dalla madre nubile, Janine vive con gli zii. E ruba. Entra nel mondo degli adulti affamata di affetto e si butta via con generosità. Da una sceneggiatura di François Truffaut, ambientata negli anni '60. Dopo una prima parte convenzionale e impacciata, diventa più incisivo e, man mano che procede, acquista grinta, spessore e dolore (...).
Autore critica:
Fonte criticaIl Morandini - Dizionario dei film, Zanichelli
Data critica:



Critica 2:“Quando avevo tredici anni, ero impaziente di diventare adulto per poter commettere impunemente ogni sorta di cattive azioni. Mi sembrava che la vita di un ragazzo fosse costellata di misfatti e quella di un adulto di incidenti. Scendevo per strada per gettare nella spazzatura i pezzi di un piatto che avevo rotto lavandolo; e la sera stessa sentivo gli amici dei miei genitori che si divertivano a raccontare come avevano fracassato la macchina contro un albero. Nonostante gli anni non ho cambiato idea su questo punto, e quando sento un adulto rimpiangere i tempi della sua infanzia, tendo a credere che abbia una pessima memoria” (François Truffaut, Il piacere degli occhi, Marsilio, Venezia, 1988).
Chiunque abbia frequentato anche distrattamente il cinema di Truffaut saprà che in esso gioca un grande peso quella sorta di autobiografia in progress di uno stesso personaggio (Antoine Doinel-Jean Pierre Leaud) che, iniziata con I 400 colpi nel '59,si è conclusa dopo tre film ed un episodio esattamente vent'anni dopo con L'amore fugge. Ma Antoine Doinel non nacque solo; la sua storia doveva intrecciarsi con quella di Jeanine che avrebbe dovuto incontrare alla fine del film. Da I 400 colpi Jeanine venne esclusa per abbondanza di sceneggiatura, destinata per molto tempo a rimanere in un soggetto che lo stesso Truffaut, nei suoi ultimi anni prima di morire, pensava sempre più insistentemente di realizzare. Quando si rese conto che non avrebbe più avuto la possibilità e il tempo di farlo pregò Claude Berri di realizzarlo per lui. Berri, impegnato con la saga di Jean de Florette non poteva occuparsene: “Trova tu un regista allora”, gli disse Truffaut. Claude Miller, nella famiglia cinematografica di Truffaut nato e cresciuto, ne ereditò il progetto. Come affrontarlo? Fare un film da un soggetto di Truffaut, su un personaggio al quale Truffaut sembrava disperatamente essersi attaccato negli ultimi anni, è un'eredità ingombrante che avrebbe terrorizzato chiunque. Come si fa a rifare Truffaut? E altrimenti perché tradirlo nell'esecuzione di un'idea di film così radicata nel corpo del suo cinema?
Antoine aveva 14 anni, Jeanine ne ha 16, una differenza di non poco conto. “Pare che stiate cercando un tipo strafottente, per questo sono venuto”, disse il giovane Leaud presentandosi ai provini per I 400 colpi. “Jean Pierre, contrariamente a Doinel, scrive ancora a Truffaut... avrebbe più volentieri rubato dei dischi di Ray Charles che non dei libri della Pléiade”: come non pensare che in queste righe non si riferisse proprio a Jeanine, visto che nel soggetto dì La piccola ladra (come del resto conservato nel film)Truffaut scrisse: “In una grande libreria della città, Jeanine ruba un libro della Pléiade...”. E per affidare al suo frontespizio un messaggio straordinariamente significativo, di quelli di cui il regista francese avrebbe permesso solo alla voce fuori campo di placare la scandalosa emozione: “Non sono più v... (ergine, n.d.r.). Non c'è più motivo di aspettare. Sono impaziente di incontrarti”.
Jeanine ha gambe flessuose ed un muso ancora animalesco che non ha abbandonato i tratti da cucciolo. Corpo anfìbio, metà donna, metà bambina, con il giovane Doinel divide forse uno stupore selvaggio e l'insopprimibile bisogno di sguinzagliarsi in giro per il mondo, la certezza selvaggia di dover dare ragione al proprio istinto e non alle lamentele e agli avvertimenti terrorizzanti degli adulti. Rifare Truffaut può incutere terrore, ma riceverne la straordinaria energia tra le mani è un dono che non si può sprecare. Miller, a mio avviso, non l'ha fatto, conducendo in porto un'operazione esemplare di libero rifacimento e personale esecuzione; il regista di Guardato a vista conosce bene gli strumenti e il lavoro, lo spirito e le passioni che sono dietro la partitura, ma non si illude che essa non vada letta per essere semplicemente restaurata in stile.
Jeanine è figlia di nessuno, scappa dai parenti che le fanno controvoglia da genitori dopo essere stata pescata in flagrante a rubare le offerte dalla sagrestia. Sotto il suo letto ha un mare di refurtiva, dalle stecche di Lucky Strike alle giarrettiere, per la piccola provincia francese degli anni'50, è davvero troppo. Ma anche quando trova un surrogato di famiglia presso un appartamento altoborghese dove serve da cameriera, la disposizione al misfatto è latente e ineluttabile. Conosce un quarantenne in un cinema dopo che si è addormentata sulla sua spalla: è sposato ma non è possibile resistere alle lusinghe di Jeanine: “Se ci vediamo cinque volte, la quinta volta me lo chiederai. Perché non me lo domandi addirittura adesso?”. Ma Michel non vuole prendersi questa responsabilità di essere il primo, compito di cui è felice di pregiarsi un giovane artigiano che ne approfitta nel salotto dei signori (a seguire il soggetto qui c'è un bel taglio nella edizione italiana, anche se dettato, sembrerebbe, da uno zelo demenziale). Miller riesce a liberarsi dell'ipoteca della ricostruzione doviziosa, della messa in scena di un'epoca, del rifacimento di un'età, sapendo bene che questo avrebbe sviato lo sguardo dal soggetto e sapendo bene che il regista di Le due inglesi non gli avrebbe mai permesso i ricchi arredi di un Tavernier ad esempio, che non amava affatto. L'importante, nei film, è una sola cosa, Jeanine. Se Truffaut conosceva bene (per averlo amato, teorizzato, intenzionalmente appreso da Rossellini) come catturare qualcosa di peso dal reale senza ricorrere alla supremazia della finzione (montaggio, ravvicinamento dei piani, artifici del linguaggio d'altro genere), Miller sembra conoscerne il metodo. L'immagine è inspiegabilmente e con profonda semplicità contaminata dalla fisicità del personaggio, dalla sua feroce vulnerabilità, dalla sproporzione tra le sue risorse di seduzione e le sue capacità di amministrarle, dalla libera espressività dei suoi dettagli (capelli, labbra, l'incontrollata nudità degli occhi e delle gambe). E la sua storia non può non essere storia di passioni e incidenti scambiati per misfatti. Dalla storia con il quarantenne Michel, si passa a quella con il giovane Raoul, un ladruncolo insieme al quale Jeanine svuota borsette e borsellini degli invitati ad una cena dei padroni, la polizia finirà per acciuffare solo lei sulle dune della Bretagna. Impossibile non ravvisare le tracce roventi dell'autobiografia in tutta la parte del riformatorio penale. È l'inferno: forchettate sulle mani, segregazioni ma anche profonde amicizie. L'evasione, il ritorno al paese d'origine per abortire al costo di una macchina fotografica. Ma Jeanine, potrebbe fare diversamente?, preferisce riprendersi la macchina fotografica, rubandola, e scappare di nuovo tenendosi il bambino.
Miller ha cambiato poco del soggetto: la fisionomia dei genitori adottivi, la personalità del prete che la scopre in flagrante, l'episodio finale della macchina fotografica (che ha aggiunto lui). Per il resto l'abilità con cui riprende (che non vuoi dire nè rifare, nè violare, ma qualcosa che sta tra il prolungare e l'interpretare) il cinema di Truffaut è quasi sempre impressionante. Chi sarebbe capace di riprodurre (completare) Michelangelo o Van Gogh partendo da un bozzetto? Al cinema in cui il bozzetto può voler dire quasi tutto o quasi nulla, può accadere anche di questo.
La scelta della giovane Gainsbourg, che sembra appartenere a quel film per inclinazione naturale, è decisiva, ma la capacità di rendere erotico un dialogo, di trasformare una serie di opinioni in una storia, di sconfinare nella vita e nella finzione senza soluzione di continuità, sono tutte abilità che il regista sembra aver appreso dopo aver lavorato per una decina d'anni nella produzione dei film di Truffaut. Di suo ci mette la non morbidezza di uno scetticismo che approfitta delle pulsioni sanguigne, e smussa regolarmente e con continuità la leggerezza dell'azione che il regista di Baci rubati e Il ragazzo selvaggio si guadagnava naturalmente nella messa in scena. Ma è tutto più che sufficiente per ricordarci cos'è il cinema, per risarcirci di un cinema che sempre più non sa essere nè finzione nè vita, per ricordarci che esistono anche delle immagini che ci ricordano come siano fatte, come esistano le persone (al di là del logoramento dell'espressione, essa significa propriamente la capacità di suggerire il dramma e la bellezza di un corpo che esiste in uno spazio e in un mondo e non solo in una sceneggiatura, in un simulacro di genere o di storia, in un servizio del tg., nel salotto di un talk show, nell'opacità triste e oscura del mondo reale). Sono immagini che risvegliano un concetto, anch'esso logoro, ma che solo un film come cristo comanda può riattualizzare: l'innocenza, la violenza e l'ipocrisia infinita dell'espressione “diventare grandi”. Se il cinema dì Truffaut ha avuto un solo e unico personaggio, qualcuno che si espone inevitabilmente al tragico per restare fedele alle proprie emozioni più di quanto sia capace di esserlo alla propria vita, Jeanine, bravissima bugiarda, destinatario ideale di punizioni e sgridate, ne è uno stupendo embrione, proprio come Antoine. E si offre al nostro sguardo come un regalo, un dono.
Autore critica:Mario Sesti
Fonte critica:Cineforum n. 283
Data critica:

4/1989

Critica 3:Janine è una piccola ladra in senso anagrafico oppure per la lieve entità dei suoi furti? Lasciando a ciascuno la propria interpretazione, appare evidente come i reati compiuti dalla protagonista siano spesso molto minori delle manchevolezze di molti adulti che compaiono nel film, dal negoziante dell'inizio alla signora Busato che procura aborti clandestini.
I reati di Janine non sembrano veri gesti criminali, quanto il tentativo di sentirsi parte di un universo che a lei sembra precluso: quello degli adulti e degli innamorati. Il fatto stesso che le merci rubate siano custodite in camera sua e mai utilizzate al di fuori, né ricettate per guadagnare soldi, testimoniano l'ingenuità adolescenziale, ma anche la fretta di sentirsi una donna affascinante e desiderata. Ciò che non può vivere nella realtà, viene regolarmente proiettato sullo schermo di un cinema, luogo che per Janine va ben oltre il semplice passatempo. I film melodrammatici, le passioni che si sublimano, sono per lei l'occasione per partecipare emotivamente a sentimenti che sente suoi, anche senza averli sperimentati in prima persona. Non appare casuale che sia il cinema il luogo in cui incontra il primo amore importante.
Nel primo contatto con Michel, il regista sottolinea a più riprese che lei potrebbe esserne la figlia, molto meno l'amante. Ma in questa relazione la protagonista sperimenta per la prima volta l'intensità dell'amore, valore assoluto nelle sue aspettative adolescenziali. Il rapporto con Michel caratterizza una fase in cui Janine è sempre più sicura e intraprendente, rafforzata anche dal lavoro e dalla stima di Séverine, la giovane signora da cui è a servizio. La scoperta della letteratura, l'avvicinamento alla musica, la scuola di dattilografia, sono tutti elementi che testimoniano una nuova fase del personaggio, che non deve più rubare nulla per sentirsi realizzata.
Ma l'incontro con Raoul, fascinoso e spaccone, la riporta alla sua vera età, in bilico tra la volubilità e il gusto dell'avventura. Non a caso la copertura di un furto e la successiva rapina ai danni degli ospiti di Séverine segnano la regressione della protagonista. Tuttavia Raoul è più vicino a lei, non solo anagraficamente, ma anche caratterialmente. In questo senso, appare emblematico che tutte le relazioni intergenerazionali della protagonista siano spesso segnate dall'incomprensione e dalla difficoltà a trovare un terreno comune: dall'assenza della madre, alle liti con lo zio, che pur si ricompongono, al rapporto ambivalente con Michel.
La felice avventura con Raoul dura poco, ma segna un punto di non ritorno per Janine. Non solo per la delusione di scoprire la codardia dell'amato, né per la dolorosa parentesi del riformatorio, in cui emergono le sue parti più dure, necessarie a non soccombere in un luogo di continue sopraffazioni. Il ritrovarsi sola, costretta a tornare al paese da cui è partita, apparentemente sconfitta, segna il punto di snodo del suo percorso di crescita. Con meno illusioni dell'inizio, ma con la consapevolezza di poter contare sulla propria determinazione e con la prospettiva di poter guardare il mondo senza vergogna – ed è emblematico che sia una macchina fotografica l'oggetto valore che "ruba" per l'ultima volta, riappropriandosi in realtà di una parte di sé e scegliendo di non abortire – Janine sa di poter andare nel mondo con una nuova forza. Fiduciosa non solo per sé, ma anche per chi nascerà di lì a qualche mese.
Autore critica:Michele Marangi
Fonte critica:Aiace Torino
Data critica:



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