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Pianista (Il) - Pianist (The)

Regia:Roman Polanski
Vietato:No
Video:Universal
DVD:Universal
Genere:Drammatico
Tipologia:La memoria del XX secolo, Razzismo e antirazzismo
Eta' consigliata:Scuole medie inferiori; Scuole medie superiori
Soggetto:Tratto dal romanzo autobiografico "Das wunderbare Überleben" di Wladislaw Szpilman
Sceneggiatura:Ronald Harwood
Fotografia:Pawel Edelman
Musiche:Wojciech Kilar
Montaggio:Herve De Luze
Scenografia:Allan Starski
Costumi:Anna Sheppard
Effetti:
Interpreti:Adrien Brody (Wladyslaw Szpilman), Thomas Kretschman (Capitano Wilm Hosenfeld), Frank Finlay(Padre), Maureen Lipman (Madre), Emilia Fox (Dorota), Ed Stoppare (Henryk)
Produzione:Alain Sarde, Robert Benmussa, Gene Gutowski
Distribuzione:01 Distribution
Origine:Polonia - Olanda
Anno:2002
Durata:

148'

Trama:

Nel 1939, in seguito all’occupazione tedesca, il pianista Wladislaw Szpilman, ebreo, è costretto a lasciare il suo lavoro per cercare di sopravvivere, prima nel ghetto poi in tanti nascondigli che a costo di tanti sacrifici e tante sofferenze, gli permettono di evitare i campi di concentramento. La sua avventura, troverà fine sette anni più tardi, quando le truppe di liberazione sovietiche libereranno la Polonia. Potendo finalmente condurre una vita normale, il pianista potrà riprendere il concerto che stava suonando quando Varsavia fu assediata. La chicca Il film è stato premiato con la Palma d’Oro al Festival di Cannes 2002.

Critica 1:Sulla carta, Il pianista poteva suscitare parecchie riserve: una coproduzione europea a grosso budget, girata in inglese, di quelle dove sovente vanno perdute le connotazioni nazionali senza che si aderisca neppure alla logica hollywoodiana del megaspettacolo. Va detto subito che la pellicola evita di slancio le trappole di cui sopra, risultando di gran lunga la migliore dell’ultimo Polanski, cineasta che pareva ormai avviato ad una mesta quanto dignitosa decadenza. Egli aveva rifiutato, a suo tempo, la proposta di dirigere Schindler’s List fattagli da Spielberg: forse non desiderava lavorare per un regista anch’egli autore epperciò dotato d’una precisa visione delle cose, oppure non si sentiva pronto ad affrontare un argomento - quello delle deportazioni, della distruzione del ghetto e del bombardamento di Varsavia - dolorosamente nodale nel proprio percorso di individuo.
E’ stata una fortuna che, nel luglio del 1999, egli si sia imbattuto nel volume di memorie di Wladyslaw Szpilman, un valente musicista miracolosamente sopravvissuto a quegli orrori (morirà nel giugno dell’anno successivo, poco dopo aver incontrato Polanski): l’occasione di dislocare la propria drammatica esperienza in quella di un altro dev’esser parsa al Nostro ideale per elaborare fruttuosamente un lutto a lungo trascinato. Concepito secondo canoni classici, con la tragedia individuale che s’inscrive in quella collettiva e ne acuisce la terribilità, il film descrive nella prima parte - con spaventosa esattezza, con partecipata angoscia - come la comunità ebraica sprofondi dalla vita d’ogni giorno in un maelstrom segnato da continue umiliazioni, feroci pestaggi, infine esecuzioni casuali ed immotivate; dipoi, deprivato il giovane protagonista del proprio status di agiato borghese intellettuale, ne scandisce la discesa agli inferi attraverso gironi che si chiamano assuefazione al dolore proprio, indifferenza nei confronti dell’altrui, perdita di ogni dignità, predominio d’un animalesco istinto di sopravvivenza. Il tutto, pel tramite di immagini che restano incise nella memoria: lo Szpilman ridotto a nascondersi come un topo, aggrappato ad un vasetto di cetrioli, od isolato da un dolly che s’alza a mostrarlo fra le rovine d’una Varsavia devastata, sono pagine di cinema grande, da amare senza riserve.
L’unico limite, semmai, deriva da un eccessivo insistere - segnatamente nella seconda metà, affliggente nel metraggio anche per il più bendisposto degli spettatori - su concetti che appaiono limpidi da subito, dunque non necessitanti di soverchie sottolineature. Opera composta e tradizionale, Il pianista acclara quanto possa costare la vita al tempo del colera, piegando lo spettacolo alla rappresentazione della Storia: meglio che mai, lo fa nella sequenza in cui Wladyslaw può salvarsi solo uscendo dalla folla dei deportati a Treblinka. In silenzio, ignorando il destino dei propri familiari, non voltandosi indietro; mettendo a tacere il cuore, soprattutto senza correre.
Autore critica:Francesco Troiano
Fonte criticatempimoderni.com
Data critica:



Critica 2:Il pianista, opera n.16 di Roman Polanski, sei anni di vita sotto l'occupazione nazista del musicista polacco Wladyslaw Szpilman, dal settembre del 1939 al crollo del III Reich. Fu tra i pochi a festeggiarlo come la fine di un incubo. Era ebreo. Interrotto dai bombardamenti mentre suonava alla radio di stato in diretta il Nocturne en ut dièse mineur di Frederic Chopin, volle finire l'esecuzione nel 1945. Era sopravvissuto ai mostri. È il primo film di Polanski a mettere in scena direttamente, attraverso l'odissea assurda di questo Chopin redivivo, l'umiliazione, l'emarginazione, il pestaggio, l'uccisione dei singoli e poi il genocidio di tutti gli ebrei polacchi, dall'invasione hitleriana alla chiusura del ghetto di Varsavia. Attraversando i 44 giorni tra le leggi super-restrittive come l'imposizione della croce di David e la requisizione di ogni bene, e l'inizio delle scientifiche, «eichmaniane», deportazioni di massa. E poi la guerra, l'insurrezione del ghetto prima e la rivolta dei polacchi dopo, i bombardamenti alleati, l'arrivo dei russi nella metropoli sbriciolata e la liberazione, anche grazie ai comunisti, da questa dittatura unica ma ancora capace, in Europa, di metamorfosi inquietanti. È il primo film storico di Roman Polanski sul suo paese, in forma di requiem, di nocturne ma anche di ballata e halleluja, e non di digeribile sceneggiato plastificato da prime-time tv. Il musicista geniale sopravvive d'istinto e per fortuna, ma soprattutto perché lo aiutano in tanti, ebrei magnifici e carogne, violoncelliste gentili o polacchi alcoolizzati, russi dalla pessima mira; e perfino tedeschi brutali o nazisti angelici. Come erano «spirituali» i nazisti, no? I primi «europei uniti» a combattere contro il rozzo materialismo sovietico dei bolscevichi e l'avido materialismo hollywoodiano che tutt'oggi a molti fa tirar fuori la pistola dal fodero. Combatterono, unendosi a coorte imbevuti di spirito della razza contro: democrazia, giudaismo, americanismo e bolscevismo... Ricordate Furtwangler e il suo ignorantissimo inquisitore americano Harvey Keitel che osava fare il terzo grado a una mente così superiore e eterea nel film di Szabo? Goebbels dava però di questa spiritualità artistica una lettura che avrebbe messo in difficoltà proprio il sommo direttore d'orchestra, così immerso nell'800 romantico da accorgersi appena della cacofonica sinfonia hitleriana sul «sole ariano dell'avvenire». Polanski, una vita alla guida contromano, dalla Polonia comunista all'America puritana, ha metabolizzato un dolore e un urlo di rabbia profondi e particolari, il che non vuol dire che siano attutiti nel film. Tutt'altro. Anche perché il nazismo sterminò davvero la sua famiglia (di Cracovia) e ci vuole saggezza e maturità per comunicare emozioni serie, dunque a volte indecise e sfumate, quando lo spettacolo pretende invece solo risposte meccaniche a scosse psicofisiche ben assestate. Lui alla «macchina del nazismo» e dell'antinazismo retorico e irresponsabile che respirò da piccolo nell'era Bierut/Gomulka, infonde la vita, umorismo atroce compreso, proprio come il suo eroe Wladyslaw Szpilman che nel 1931 aveva composto la suite per piano premonitrice Zycle Maszyn, la vita delle macchine. E che salvò la vita facendo regredire «una macchina» teutonica inquadrata a puntino a essere umano gigantescamente singolare attraverso la magia delle sue sole mani. Esperienza insopportabile e scioccante, l'arte. Ricordate La vita è bella? O quell'altro film-rito alchemico di Schindler's List ? Le mani davanti agli occhi per coprirli dall'insostenibile visione si mettono non di fronte allo splatter horror, che scarica i nervi e l'eros, ma davanti agli splatter storici che non scaricano mai le coscienze... Quando i nazisti, nel film di Polanski, irrompono di notte nel ghetto, in un appartamento dello stabile, sollevano un vecchio paralitico e lo sbattono giù da un balcone del quinto piano perché non ha ubbidito all'ordine «in piedi!»; oppure scelgono d'istinto ariano dentro quali e quanti cervelli «giudei» scaricare le loro nevrotiche Luger o godono a far ballare storpi in stampella per irridere alle nenie yiddish di Molly Picon, è il bimbo palestinese ucciso nei tg della sera che si rivede. O il vietnamita freddato dal marine Usa con un solo colpo alla tempia. Non ci ricordava Agamben che i nazisti chiamavano «musulmani» quei corpi disumanizzati, irrisi, in balia di un superpotere e sventrati come bestia da mattatoio? L'autobiografia di Wladyslaw Szpilman, pianista virtuoso e compositore emerito della repubblica socialista di Polonia, fluidificata per il cinema da Ronald Hardwood (che ha scritto anche Il caso Furtwangler), a suo agio nel contrapporre gli anarchi della musica ai satrapi sanguinari dell'Occidente, è solo il materiale di partenza per un film che più sembra tradizionale più è visionario e più è follemente girato in inglese e più vuole smarcarsi da un solo genocidio per indicarceli tutti, e sono la maggior parte a responsabilità liberista. Girato tra Gb e studi Babelsberg, ex Ddr, prodotto dalla Francia (Studio Canal), creativamente fiancheggiato da artisti polacchi (Wojciech Kilar alle musiche) e interpretato da Adrien Brody (Il pane e le rose), attore statunitense che fa Szpilman e che usa l'intera tastiera emotiva in duetto con l'ex olimpionico di nuoto della Ddr Thomas Ketschmann. È lui nella parte del il capitano della Werchmacht che gli salverà la vita cogliendo nel suo Chopin più «spirito della razza» che in tutto il Mein Kempf, e finirà i suoi giorni dopo 7 anni di prigionia in Urss, forse per questo. A nulla varrà l'appassionata intercessione di Szpilman.
Autore critica:Roberto Silvestri
Fonte critica:il Manifesto
Data critica:

25/10/2002

Critica 3:Wladek Szpilman corre incontro ai militari sovietici che per lui rappresentano la salvezza. Da settimane vive come un animale, nascosto in una Varsavia ormai deserta, abbandonata anche dai nazisti. Non c'è più una sola casa in piedi, la neve dell'inverno del 1945 copre solo macerie. Dei 360.000 ebrei che erano stati rinchiusi nel ghetto, nel 1940, ne sopravvivono solo 20; ma Wladek non lo sa. Lui è vissuto alla macchia, solo come un cane, e ora quei militari dell'Armata Rossa sono il segnale che è finita, che si può tornare a vivere. Ma c'è un dettaglio al quale Wladek non pensa Lui indossa un cappotto della Wehrmacht. Gliel'ha regalato l'ufficiale tedesco che l'ha nascosto in soffitta, solo perché gli ha sentito eseguire un brano di Chopin - Wladek è un pianista, un grande pianista - ed è rimasto colpito dal suo talento. Appena i russi vedono Wladek, vestito così, gli sparano. Ma non lo centrano. E' l'ultimo colpo di fortuna, in un'incredibile serie di coincidenze che permetteranno a Wladek Szpilman, musicista, di essere uno di quei 20 suddetti sopravvissuti. Wladek grida «sono polacco, sono polacco». I russi lo circondano. Uno di loro gli chiede: «Perché hai addosso quella divisa?». La risposta di Wladek è straziante nella sua ovvietà: «Fa freddo». Fame, sete, freddo, sonno, istinto di sopravvivenza: sono le uniche necessità primarie con le quali il pianista ha fatto i conti da quando è rimasto solo nel ghetto. Tutto il resto si è azzerato. All'inferno non c'è posto per ragionamenti e ideologie - e quando la macchina da presa accompagna Wladek mentre scavalca il muro del ghetto e si avventura nella Varsavia distrutta e innovata, l'occhio di Polanski contempla veramente l'inferno. Però c'è posto per la musica. Quella si: è lei che salva Wladek, lei e un ufficiale tedesco (della Wehrmacht, non delle Ss!) che ama Beethoven e Chopin. Credeteci, non vi abbiamo fatto alcun torto raccontandovi l'ultima scena del Pianista, il film di Roman Polanski - Palma d'oro a Cannes 2002 - che esce venerdì nelle sale italiane. Avremmo comunque dovuto dirvi che il film si ispira al libro omonimo di Wladislaw Szpilman, pubblicato nel 1999 da Baldini & Castoldi, autobiografia per nulla romanzata di un superstite della Shoah. Quindi, che Wladek si salvi è cosa nota. Il pianista non è un thriller, anche se qua e là Polanski non può fare a meno di comporre delle sequenze in stile thriller è pur sempre il regista di Repulsion, di L'inquilino del terzo piano e di Frantic, uno dei pochi cineasti in grado di suscitare ansia e inquietudine con un semplice movimento di macchina. Ma Il pianista è soprattutto l'odissea di un uomo che attraversa l'orrore venendone travolto nel fisico ma non nello spirito. E' un grande inno alla sopravvivenza, quindi all'umanità. Ma è anche una precisa, chirurgica analisi del Caso. Come spesso capita nelle storie vere, sono semplicemente pazzesche le coincidenze fortuite grazie alle quali Wladek, unico di tutta la numerosa famiglia Szpilman, se la cava. Polanski le sottolinea con bravura, con uno stile che mescola miracolosamente la pietà e l'ironia: quest'ultima, tutta racchiusa nella considerazione stessa che Wladek Szpilman è stato, all'interno di una tragedia assoluta come la Shoah, un uomo indiscutibilmente fortunato. In fondo Il pianista racconta una storia (vera) non diversissima da quella (immaginaria) raccontata da Benigni in La vita è bella. Ma per altri versi è l'esatto opposto: là dove Benigni e Cerami creavano una Sofisticata impalcatura drammaturgica (e concettuale: il mondo - il lager - interpretato come gioco, per consentire al bambino di non esserne travolto) per far sopravvivere il piccolo Giosuè, qui Polanski si abbandona consapevolmente all'assurdo fluire della vita e della storia per accompagnare il pianista alla salvezza. In questo fluire, però - ed è il bello del film-, Polanski mette tutto se stesso, le proprie memorie più dolorose. Polanski è a sua volta un superstite: era bambino a Cracovia, suo padre lo salvò facendolo scappare attraverso un buco nel muro che circondava il ghetto; il piccolo Roman se la cavò vivendo come un animaletto selvatico fino all'arrivo dei sovietici, più o meno come l'adulto Szpilman. Immaginatevi quanto dev'essere costato in temimi emotivi, al regista, girare la scena in cui Szpilman vede un bambino che tenta di rientrare nel ghetto attraverso un pertugio nel muro, ma viene trattenuto per le gambe da un tedesco che lo massacra di botte fino ad ucciderlo. Sono queste notazioni, assurde fino al grottesco, le cose più «polanskiane» del film: il bimbo che vende caramelle nella piazza dove gli ebrei attendono di essere deportati (e ripete "20 zloty, 20 zloty" come una macchietta), la mansalda dalla quale Wladek assiste, nascosto, all'insurrezione del ghetto (qui sembra veramente L'inquilino del terzo piano), e in generale tutta la vita quotidiana del ghetto che il regista ricostruisce in modo mirabile («Del ghetto di Cracovia ricordo soprattutto una cosa: la folla. Si viveva per le strade, tutti commerciavano, tutti vendevano qualcosa, e c'era gente dovunque»: idem a Varsavia, dove 360.000 persone furono concentrate in due quartieri minuscoli divisi da una strada «gentile» dove passava il tram). L'anima vera del film è nei dettagli, oltre che nel disegno globale nel quale il Caso è il vero Sceneggiatore. Per il resto Il pianista ha un unico difetto: di essere un film fin troppo classico, quasi hollywoodiano nella sua struttura. In originale tutti parlavano inglese, anche gli attori polacchi che per altro hanno ruoli assai marginali: e la cosa un po' strideva, anche se la performance di tutti gli interpreti, a cominciare dallo straordinario Adrien Brody, è al di là di ogni elogio. Paradossalmente il doppiaggio italiano (buono: Brody è doppiato da Massimiliano Manfredi) rende meno spiazzante, per noi, il fatto che a Varsavia nessuno parli polacco (i tedeschi, almeno, parlano tedesco: Polanski ha evitato l'assurdo effetto al quale Spielberg non aveva saputo sottrarsi in Schindler's List, dove in originale i nazisti erano interpretati da attori americani che parlavano inglese con accento tedesco, alla Sturmtruppen!). Diciamo che Il pianista è un film tradizionale che racconta una grande storia. In fondo, è il perfetto esempio di cinema popolare moderno. Averne, di film così.
Autore critica:Alberto Crespi
Fonte critica:l'Unità
Data critica:

23/10/2002

Libro da cui e' stato tratto il film
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