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Eredita' (L') - Arven

Regia:Per Fly
Vietato:No
Video:Cecchi Gori
DVD:
Genere:Drammatico
Tipologia:Il lavoro
Eta' consigliata:Scuole medie superiori
Soggetto:Per Fly, Kim Leona, Dorte Hogh, Morgens Rukov
Sceneggiatura:Per Fly, Kim Leona, Dorte Hogh, Morgens Rukov
Fotografia:Harald Gunnar Paalgard
Musiche:Halfdan E.
Montaggio:Morten Giese
Scenografia:Soren Gam
Costumi:Stine Gudmundsen-Holmgreen, Margrethe Rasmussen, Lotte Trolle
Effetti:Peter Hjorth
Interpreti:Ulrich Thomsen (Christoffer), Lisa Werlinder (Maria), Ghita Norby (Annelise), Karina Skands (Benedicte), Lars Brygmann (Ulrich), Lucy Andoraison Hansen (Mira), Diana Axelsen (Annida), Carsten Bjornlund (Henrik), Thorbjorn Lindstrom (Jonas), Ulf Pilgaard (Aksel)
Produzione:Zentropa Entertainments
Distribuzione:Teodora Film
Origine:Danimarca - Svezia
Anno:2003
Durata:

107’

Trama:

Dopo la morte del padre, Christoffer cede alle richieste della madre e si mette alla guida delle acciaierie Borch Moller, proprietà della sua famiglia, a Copenaghen. In realtà lui non se ne è mai interessato e fino a quel momento ha vissuto a Stoccolma con la moglie Marie, attrice svedese, gestendo un ristorante. Una volta a capo dell'azienda, Christoffer è costretto a prendere decisioni drastiche che lo metteranno a confronto non solo con la sua coscienza, ma anche con la sua famiglia...

Critica 1:A differenza del protagonista del film francese Risorse umane di Laurent Cantet, dove il giovane dirigente tagliatore di posti di lavoro era figlio "degenere" di un operaio della stessa fabbrica, il Christoffer del film nato da casa Zentropa (entourage Lars von Trier) è il primogenito di un magnate della siderurgia. Che si toglie la vita al culmine di una crisi depressiva e lascia la patata bollente delle acciaierie in crisi a questo figlio che aveva girato le spalle alla famiglia, costruendosi lontano da casa una vita felice di ristoratore e di marito della luminosa Maria. Il regista Per Fly e il suo protagonista Ulrich Thomsen disegnano con delicata sensibilità, con ricchezza di sfumature molto scandinave se così si può dire - molto è il "non detto" - il precipitare di questo giovane uomo nella perdita di sé e di ciò che più gli è caro per rispetto di un senso di responsabilità e del dovere che lo pone di fronte a un bivio inevitabile (viene in mente: che uomo era Gianni Agnelli prima di diventare l'Avvocato?). Il prezzo imposto, senza possibilità di compromesso o di conciliazione, è il sacrificio. Privilegiando questo aspetto il film lascia in ombra invece, libero di farlo ma anche noi di notarlo, la dimensione sociale, la crisi industriale, il dramma collettivo. E in virtù di una scelta narrativa che pone in primo piano il dilemma appena descritto, dimentichiamo che Christoffer mette pur sempre sul lastrico un sacco di famiglie.
Autore critica:Paolo D'Agostini
Fonte criticala Repubblica
Data critica:

27/3/2004

Critica 2:Famiglia e fabbrica sono i binari convergenti su cui viaggiò la vita di Ettore Schmitz alias Italo Svevo, che a causa dei relativi obblighi fu costretto per vent' anni a rinunciare alla letteratura. Il precedente esistenziale torna in mente di fronte al film L'eredità, dove Christoffer ha abdicato al ruolo di delfino di una grande acciaieria di Copenhagen sposando Maria giovane attrice del Dramaten e aprendo un ristorante a Stoccolma; ma la scomparsa del padre e la crisi della ditta, auspice la madre vedova Annalise, lo riporta all'ovile con le amare conseguenze del caso. Uno dei più bei film che si possono vedere in questi giorni sugli schermi non è americano, né appartenente alle cinematografie di abituale consumo. Targato Danimarca, L'eredità ha totalizzato in patria quasi 400mila spettatori e sta facendo il giro del mondo delle premiazioni festivaliere. L'ha importato la piccola società di Vieri Razzini, un critico divenuto distributore di pellicole solitamente ignorate dal mercato. Scritto e diretto dal 44enne Per Fly, questo dramma rivela il rigore e la crudeltà dei migliori ascendenti nordici a cominciare da Bergman. Si comincia con la visita del padre agli sposi di Stoccolma, tutti e tre palesemente a disagio soprattutto quando il discorso tocca il gran rifiuto di Christoffer. Poco dopo, a interrompere un duetto di amore coniugale, arriva la telefonata che annuncia il suicidio del genitore, incapace di affrontare la crisi della ditta e i connessi licenziamenti. A Copenhagen la madre impone al figliol prodigo di prendere in mano la situazione per tentare il salvataggio attraverso la fusione con un gruppo di Lyon. Ben presto Christoffer, obbligato a fronteggiare un cognato infido, capisce che oltre a rinunciare alla felicità personale dovrà anche assumere la spietatezza del capitalista; e non è detto (e qui sta l'ambigua finezza del film) che l'esercizio del potere gli dispiaccia. Tornando al paragone con il caso Svevo, nella tremenda Annalise di Ghita Nørby sembra di veder rivivere la matriarca Olga Veneziani che dominò il genero per tutta la vita. Ma anche gli altri interpreti, da Ulrich Thomsen a Lisa Werlinder, imprimono il loro segno. Il "kammerspiel" è efficacemente contrappuntato dalle scene di fabbrica: le assemblee degli operai inquieti per il loro destino, la lavorazione dell'acciaio, la visita dei potenziali soci francesi. Tutto palpitante e verosimile.
Autore critica:Tullio Kezich
Fonte critica:Corriere della Sera
Data critica:

27/3/2004

Critica 3:In Festen padre e figlio, due industriali, uno arrivato, spietato e incestuoso, l'altro rampante e indocile, vittima non consenziente da cucciolo della capitalistica "rapacità dinastica" su corpi e menti, si confrontavano a sangue. La macchina da presa, roteante fino alla nausea, di Dogma li circondava con abbracci pietosi, quasi tessendo un arabesque gelido, ad accomunarli in fondo in estetizzante, irritante, insopportabile, destino familiare e fatale... Quel padre e quel figlio, infatti, in questa sceneggiatura, L'eredità, in un certo senso si ritrovano. Anche questo film è scritto da Morgens Rukov, ed è prodotto da Lars Von Trier. E ha goduto in Scandinavia dello stesso successo di critica e di pubblico (altro che Dogville), trasformata com'è in film più quadrato, quasi "borghese" (e senza mal di mare) da un regista all'opera seconda, di origini teatrali e tv, Per Fly. Padre e figlio dunque si ritrovano qualche anno dopo. Christian si chiama adesso Christoffer, è scappato a Stoccolma dove ama Maria, una attrice dal sorriso radiante e accademico. Fa soldi - tutti suoi - nella ristorazione equa e solidale, "post-modern". Perfino l'attore protagonista è lo stesso di Festen, il biondo Ulrich Thomsen. Il padre lo va a trovare un'ultima volta. "Simpatico", lo trova Maria. Ma poi si impicca. Non per i sensi di colpa pedofili, ma perché i giochi finanziari alla Enron o alla Parmalat lo hanno ormai travolto. Licenziamenti, fusioni, scalate ostili, banche acide e tutto quello che vuol dire "neoliberismo" ovvero "morte" anche per i più incalliti neoliberisti... Christoffer potrebbe chiudere definitivamente la partita. Anzi l'annuncia. Poi le insidie shakespeariane della madre (Ghita Norby, già in The Kingdom) iniziano a ipnotizzarne la volontà. Ritrova i vecchi amici operai di un tempo (!?): deve salvargli il posto (!?). Eccolo trasfigurarsi come il dottor Jerryl in Buddy Love. Eccolo dentro l'incantesimo dell'eredità, della successione. È il padrone delle ferriere. Caccia il cognato che ruba. Va all'arrembaggio di banche e consigli d'amministrazione. Deve farlo. Ci sono cose più importanti della libertà e dell'amore. Il dovere. La dinastia. È la follia. Due cineprese indagano la schizofrenia del personaggio di Christoffen. Come in un horror il suo mostro interno ha preso possesso di lui. Saltano preconscio, infraconscio e subconscio. Il demone stupratore è ormai all'opera... Entriamo così in pieno "clima Dreyer". Il progetto dell'insuperato (e odiato in patria) decostruttotore del "marciume danese" viene ripreso da questo ultimo teddy boy delle immagini. Fly è il primo a mimare il maestro anche per compostezza formale, è irrequieto senza ricorrere a esibizionismi e gran casse. Forse non ce n'è più bisogno. Zentropa oggi è il cinema danese nella sua interessa. E anche questo paese è desideroso di rompere la corteccia protettiva di un benessere materiale e spirituale scandinavo che non esiste. Che è fasullo. Non si vedono molti capitalisti al lavoro nel cinema europeo. E non è un bello spettacolo, come sappiamo. Sono pochi quei magnifici industriali eccentrici, più a sinistra di Roosevelt, del progetto new deal. In Europa o dobbiamo diventare schiavi dell'"individualismo celibe" o dello spirito comunitario. Seguire la passione soggettiva o il dovere etnico. L'io sfenato o il sangue etico. La singolarità che dissipa o lo stato che stritola. Ho l'impressione che il cinema europeo (nella sua quasi totalità) resti invischiato comodamente, da decenni, in questa apparente dicotomia perché da entrambi le soluzioni - ben separate - il "genio e sregolatezza" o "il funzionario cui è permesso, compreso un alto tasso sadico", viene tutelato nella prosecuzione della specie "cineasti". Continente diventato crasso e obeso sullo sfruttamento plurisecolare degli altri continenti, che si vanta di aver compilato non un solo "libro nero", ma una Treccani intera di crimini efferati contro l'umanità, ecco che ha separato industrialmente del due vie, "d'autore" o "commerciale", basandosi proprio su questa falsa dicotomia, libertà assoluta di fraseggio o "rigidità di mercato". Dunque vedere su schermo grande i rovelli materiali e spirituali di un industriale dell'acciaio che vorrebbe essere un imprenditore no global non è un bello spettacolo. Ma L'eredità non vuole essere questo. Ma un altro sadico, vichingo "sacrificio umano". Alla scoperta dell'individualismo democratico.
Autore critica:Silvana Silvestri
Fonte critica:il Manifesto
Data critica:

31/3/2004

Libro da cui e' stato tratto il film
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