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Sacrificio - Offret

Regia:Andrej Tarkovskij
Vietato:No
Video:Video Club Luce, San Paolo Audiovisivi
DVD:
Genere:Drammatico
Tipologia:Storia del cinema
Eta' consigliata:Scuole medie superiori
Soggetto:Andrej Tarkovskij
Sceneggiatura:Andrej Tarkovskij
Fotografia:Sven Nykvist
Musiche:Da Matthaeus-Passion "Erbarme Dich" di Johann Sebastian Bach, musica strumentale giapponese (flauto di Watazumido Doso Roshi), canti di pastori di Dalecarlie e Haerjdalen
Montaggio:Andrej Tarkovskij, Michal Leszczylowski, Henri Colpi
Scenografia:Anna Asp
Costumi:Inger Pehersson
Effetti:Lars Hoeglund, Lars Palmqvist
Interpreti:Erland Josephson (Aleksander), Susan Fleetwood (Adelaide), Allan Edwall (Otto), Gudrun Gisladottir (Maria), Sven Wollter (Viktor), Valerie Mairesse (Julia), Filippa Franzen (Marta)
Produzione:The Swedish Film Institute (Stockholm)
Distribuzione:Istituto Luce
Origine:Francia - Gran Bretagna - Svezia
Anno:1986
Durata:

143’

Trama:

La cinepresa scorre sopra l'"Adorazione dei Magi" di Leonardo da Vinci, partendo dal Bambino per arrivare alla scura chioma dell'albero. Sulla riva del mare ci sono Aleksander e suo figlio, il piccolo Ometto: stanno piantando un albero secco, riprendendo l'antica leggenda giapponese secondo la quale uno analogo, annaffiato scrupolosamente per tre anni, alla fine rifiorì. Aleksander è un ex attore di teatro che ora si è ritirato in una splendida e isolata villa, dedicandosi all'insegnamento e alla ricerca. Questo è il giorno del suo compleanno: prima Otto, il postino della zona, poi Adelaide, la moglie del protagonista, assieme a Viktor, il medico di famiglia, raggiungono i due e fanno gli auguri ad Aleksander. Costui s'attarda in compagnia del figlio: è il solo a parlare, giacché Ometto ha appena subito un'operazione alla gola. Aleksander è pessimista nei confronti del futuro dell'umanità: "L'uomo ha costantemente violentato la natura". Inavvertitamente, Aleksander colpisce Ometto al volto: perde i sensi ed ha una visione catastrofica. In casa, dopo aver ammirato il libro d'icone regalatogli dal dottore, Aleksander discorre con questi, con la figlia Marta e la moglie. Arriva Otto: il suo regalo è una splendida carta geografica della fine del Seicento. Ma il regalo più sconvolgente Aleksander lo scopre all'esterno: una perfetta miniaturizzazione della sua villa; la serva Maria gli spiega che quello è un regalo di Ometto, costruito assieme ad Otto. La casa trema, si odono degli aerei sfrecciare in cielo. La televisione trasmette il comunicato di un ministro: si rischia una guerra atomica. Adelaide ha una crisi, Aleksander sale al piano di sopra e, dopo aver recitato il Padre Nostro, promette a Dio che, se la sua famiglia verrà risparmiata, egli gli offrirà tutto ciò che ha di più caro. Addormentatosi, sogna. Il postino lo sveglia, e gli comunica che c'è una possibilità che tutto ritorni come prima: Aleksander dovrà recarsi a casa di Maria, e fare l'amore con lei. Quella è una strega dotata di poteri straordinari. Dopo l'iniziale incredulità, il protagonista accetta e, non visto dai suoi cari, raggiunge la serva. Dopo averle confessato un caro ricordo, le chiede il suo amore. Maria lo abbraccia, e i due lievitano. E' mattina. Aleksander si sveglia: è nel suo studio, al piano di sopra, e tutto pare tornato alla normalità. I suoi familiari, riuniti all'esterno per il pranzo, leggono un biglietto del protagonista, che li invita a fare una passeggiata. Una volta lontani, Aleksander adempie alla promessa e dà fuoco alla casa. Giunta un'ambulanza, egli, dopo un'iniziale resistenza, vi entra spontaneamente. L'automobile si allontana, passando accanto all'albero secco in riva al mare: Ometto, come se nulla fosse successo, lo sta innaffiando diligentemente. Sdraiatosi ai piedi dell'albero, il bambino pronuncia le sue prime parole: "'In principio era il Verbo'. Perché, papà?". La cinepresa s'innalza, ad inquadrare i rami secchi contro la scintillante superficie del mare. Compare la scritta con cui il regista dedica il film al proprio figlio, "con speranza e fiducia".

Critica 1:Una parabola sull'assenza di spiritualità della nostra epoca e sul tema dell'uccisione simbolica del padre. Un film austero, di grande forza espressiva, cui giova la fotografia di Sven Nykvist.
Autore critica:
Fonte criticaLa Rivista del Cinematografo
Data critica:



Critica 2:Nella sua casa su un'isola svedese l'anziano intellettuale Alexander festeggia con i familiari il suo compleanno quando arriva per televisione l'annuncio di una catastrofe misteriosa. Ritrovando le parole del Pater Noster, Alexander lo invoca, offrendogli tutto quel che ha pur che tutto ritorni come prima. Dà fuoco alla sua casa, rinuncia al figlioletto, si vota al silenzio, accetta di essere scambiato per un folle. Caso più unico che raro di film in forma di preghiera, è una parabola mistica sull'assenza di spiritualità nella nostra cultura occidentale, fondata sull'avere più che sull'essere, e un apologo metafisico sulla paura e la disperazione rimossa dell'apocalisse nucleare. E anche una variazione sul tema dell'uccisione del Padre, ossia della figura che di generazione in generazione dev'essere venerata e, insieme, sacrificata, come suggerisce l'immagine finale del bambino, figlio amatissimo di Alexander, sdraiato sotto un albero spoglio. Questo film sul silenzio ha un fascino sonoro pari, se non superiore, a quello visivo, affidato al cromatismo depurato di Svan Nykvist, operatore prediletto di Ingmar Bergman. Lento e austero come una cantata di Bach, l'ultimo di A. Tarkovskij (1932-86) è uno dei suoi film più limpidi, fondato su una drammaturgia semplice, persino didascalica, sebbene non vi manchino i nodi enigmatici né i personaggi misteriosi (la moglie Adelaide; il postino che cita Nietzsche; l'umile serva islandese Marie dai poteri benefici; il medico di famiglia), ciascuno dei quali è una porta attraverso la quale, a sua scelta, lo spettatore può entrare nel film e dargli la sua interpretazione.
Autore critica:
Fonte critica:Il Morandini – Dizionario dei film, Zanichelli
Data critica:



Critica 3:Sacrificio dice tutto ciò che non riescono a dire i telegiornali, gli opinion maker, i talk show, restituendo al cinema una visibilità dell'immaginario e del reale sul grande schermo perlopiù impossibile anche nella contemporaneità assoluta del piccolo. L'ultimo film di Tarkovskij è una simbolica di precisione del contesto, dell'esterno, un sontuoso allestimento metaforico in cui il contemporaneo è sottratto alla dispersione, all'opacità infinitesimale del quotidiano, concentrato in formazioni percettive prive di fuga o riscatto. Eppure è forse il suo film più narrativo, più esplicito, più vulnerabile per l'immediatezza della comunicazione dei suoi significati. Era forse dai tempi del Rublev che Tarkovskij non ammetteva sulla scena psicologie ordinarie, la scansione di un vero intreccio - per quanto fantastico, sovrannaturale - senza lacune di indecidibilità metafisica e con i tratti compiuti di una fabula. Stalker e Solaris, pur ascrivibili ad una collocazione fantascientifica, per quanto problematica, terminavano in visioni enigmatiche. Nostalghia, in una allegoria figurativa assolutamente simbolica. In Sacrificio invece tutto è assai più chiaro. I ralenti in bianco e nero sono premonizioni della catastrofe, il sogno una profezia del sacrificio e la sua attuazione, il risveglio la testimonianza del suo esito. Forse non ci sono momenti di più immediato naturalismo nel cinema di Tarkovskiy, come quelli del monologo del protagonista, fragile, scomposto, disperato. E le sue reazioni di fronte al realizzarsi della sua invocazione, sono di plausibile incredulità, incertezza, disorientamento. Alexander non crede più di quanto possa credervi lo spettatore alla possibilità reale del sacrificio, fino all'ultimo.
In questo senso Tarkovskij accetta pienamente per la prima volta un contesto fantastico tradizionale e canonico: un individuo ordinario alle prese con circostanze straordinarie. Quella che, insomma, appare per urgenza discorsiva come una delle sue opere più importanti, è in realtà, nella sua testualizzazione regolata da una moderazione costante. Sin dall'inizio i piani sequenza sono appena articolati, lo svuotamento di colore è più nel paesaggio che nella fotografia, l'astrazione dei comportamenti è attenuata in una diffusa predisposizione verso lo sguardo assorto, il soliloquio, l'incomprensione minima del dialogo. Sembra di trovarsi di fronte ad un Bergman che sospende e fluidifica i conflitti, le nevrosi, i risentimenti invece di portarli a maturazione. Vige una silenziosa immobilità di presenze distribuite in spazi di ampi intervalli. I corpi dei personaggi negli interni, le strutture dell'arredamento, i fusti degli alberi negli esterni. Tutto ciò che è
possibile e reale su quella scena sembra esaurito dagli scambi innocui del dialogo, dalle effusioni cortesi, dal tenue riverbero di sentimenti nascosti (Adelaide e Victor) o palesi (Alexander e il Piccolo), comunque sempre al massimo e minimo della loro frequenza. Nulla è così forte da preannunciare uno sviluppo che non possa apparire immotivato (Alexander geloso di Adelaide? Marta, la figlia, innamorata di Victor?).
In questo senso, in sottotesto, Tarkowskij lascia appena aperti, vaghissimi ma accennati, i segni di un intreccio possibile per poi scioglierlo rapidamente sotto gli occhi di Alexander e dello spettatore poco prima che il protagonista porti a termine il suo sacrificio nell'ultima inquadratura. II sarcasmo di Adelaide che diventa odio, l'indifferenza di Marta che diventa disprezzo, lo scetticismo di Victor egoismo. La rarefazione narrativa e psicologica dell'inizio si contrae violentemente in una oscillazione che rende il sacrificio di Alexander infinitamente drammatico e senza salvezza. Da una parte l'esistente, assurdo, irredimibile, odioso, dall'altra l'orrore della sua definitiva cancellazione. Il sacrificio di Alexander non sarebbe comprensibile se non si celebrasse nello spazio invivibile di questa opposizione.
Non c'è nessuna ragione di salvare quel mondo dalla catastrofe. L'atto di Alexander sarebbe patetico o quasi insopportabile (per una sorta di patriottismo planetario) se esso non lasciasse leggere in trasparenza l'emergenza di un pullulare di pulsioni più complesse. Quelle di una volontà di potenza (Nietzsche, citato all'inizio nella prima sequenza) che preferisce volere il nulla che il non volere; o, ancor di più, l'eroismo inspiegabile di una credenza senza fede, una ritualità senza mitologia, sapere senza potere. Per comprendere il valore del sacrificio bisogna collocare il soggetto, come fa Tarkowskij, nel suo costante crepuscolo, luce ridotta, riverberi sul parquet, perfetta lucidità senza senso. L'irruzione di un punto di vista di radicale alterità in questo contesto, l'oscillazione di invadenti epifanie, ha costantemente dominato il suo cinema come se il regime della visione in una costante sopravvalutazione percettiva (stasi contro mutamento, immobilità contro variazione prospettica, narrazione contro figurazione) potesse restituire al discorso l'enunciazione pura del tragico, la responsabilità soggettiva di una ambiguità profonda della realtà degli oggetti, l'unheimlich di uno sguardo non collegato ad un soggetto o ad un enunciatore e di una durata senza fine dilatata da quasi impercettibili tocchi di ralenti. La scena di una straordinaria rifrazione degli eventi. Un campo percorso dal vento, il secchio nel pozzo, acqua che cade dal soffitto, carboni che rotolano: segni minimi che si amplificano nell'inquadratura aspirando alla totalità del simbolico, ovvero la possibilità stessa degli oggetti a scoprirsi qualcos'altro da sé.
Non è la suggestione dell'onirico, e nemmeno la configurazione allegorica (che pure acquistano) a costituire l'investimento delle inquadrature di Tarkovskij, ma qualcos'altro, la rivelazione di una diversa dimensionalità dell'apparenza, il sospetto di una sofferenza inappagabile, quieta e ipnotica, come quella dello sguardo delle reminescenze infantili del protagonista di Nostalghia, lo stesso che il medesimo protagonista assume nell'inquadratura finale. Alienazione metafisica, funebre, anche se i frequenti sguardi in macchina di Sacrificio paiono invece dirette interpellazioni allo spettatore, uno sporgersi del narratore oltre lo schermo come mai era ancora avvenuto nel cinema di Tarkovskij.
In Sacrificio questo cinema reclama un'immediatezza di comunicazione come non aveva mai osato chiedere, mettendo interamente a servizio anche la sua inimitabile messa in scena. Fuori dal microcosmo della villa: dove folle e rivoli, masserizie, rovinano per le strade in lente e graduali panoramiche perpendicolari al terreno che chiudono sul riflesso della stessa scena su di una superficie. Dentro quel microcosmo: dove abita a sua volta un microcosmo del microcosmo, il modellino della villa su cui Alexander, all'inizio del sogno, ruota lo sguardo con lo stesso movimento compiuto dalla macchina nella sequenza di prima. Sopra le immagini la divinità è un canto infantile di una spensieratezza assurda, qualcosa di sinistro e inspiegabilmente gioioso, stridulo e spigoloso come la melodia giapponese con la quale si alterna. Più del boato degli aerei in volo, del rombo sotterraneo che spazza il ghiaccio sui carboni ardenti e sbatte le porte contro le facciate, del bricco di latte che rovina sul pavimento, l'apocalissi, la sua perfidia, è nella puerilità insensata di quel canto che si alza nel silenzio sin dalla prima premonizione. Vedere per Tarkowskij è sempre stato qualcosa di tremendo e cruciale, stavolta, come non mai, esso è il vedere e il sentire di un personaggio e di un epoca.
Ma se Sacrificio è il film più trasparente di Tarkovskij, è anche quello che contiene i suoi momenti più passionali. Dalla invocazione del sacrificio, alla scena d'amore con la domestica strega, impossibile grazia materna, alla sequenza finale in cui coinvolge direttamente il sapere dello spettatore con cui condivide esclusivamente il segreto della sua follia. Ultima figurazione della tragicità assoluta del sentire e vedere il mondo perdendo la protezione dei ruoli sociali, le garanzie della propria conoscenza, le difese dell'identità psicologica. Risultato di un rigore linguistico e morale in cui narcisismo e martirio, sofferenza e pietà, infelicità e salvezza, angoscia e bellezza si donano per l'ultima volta, disperatamente e senza riserve nel cinema. Al suo, Tarkowskij, non poteva rinunciare il quest'ultimo film. L'immancabile Bach (la Passione secondo Matteo), l'immancabile Leonardo (presente praticamente in tutti i film). Il bosco (più vicino a quello della casa dell'infanzia di Lo specchio che a quello di betulle di L'infanzia di Ivan), il fuoco (l'incendio finale, ma anche le vampe dei carboni sotto il ghiaccio, il cui ritorno di fiamma ha affascinato più di un inquadratura degli altri suoi film), l'alternanza di bianco e nero e colore. E naturalmente l'acqua. Più che nelle pozze e negli acquitrini, è concentrata in quell'oceano in lontananza che circonda l'isola, Gotland, terra di Dio così vicina alla Russia.
Autore critica:Mario Sesti
Fonte critica:Cineforum n. 265
Data critica:

6-7/1987

Libro da cui e' stato tratto il film
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