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Partigiano Johnny (Il) -

Regia:Guido Chiesa
Vietato:No
Video:Fandango
DVD:DNC
Genere:Drammatico
Tipologia:La memoria del XX secolo, Letteratura italiana - 900
Eta' consigliata:Scuole medie superiori
Soggetto:dal romanzo di Beppe Fenoglio
Sceneggiatura:Guido Chiesa, Antonio Leotti
Fotografia:Gherardo Gossi
Musiche:Alexander Balanescu
Montaggio:Luca Gasparini
Scenografia:Davide Bassan
Costumi:
Effetti:
Interpreti:Stefano Dionisi (Johnny), Michele Melega (ufficiale fascista), Massimo Mirani (Blister), Maximilian Nisi (Alessandro), Cesare Peracchio (prete officiante), Claudio Amendola (Nord), Felice Andreasi (mugnaio), Lina Bernardi (madre di Johnny),Toni Bertorelli (padre di Johnny), Marilena Biestro (Rina)
Produzione:Domenico Procacci Per Fandango; coproduzione Tele+
Distribuzione:Fandango
Origine:Italia
Anno:2000
Durata:

135'

Trama:

Dal romanzo "Il partigiano Johnny" di Beppe Fenoglio. Johnny, studente di letteratura inglese, ritorna ad Alba all'indomani dell'8 settembre. Ha deciso di combattere il regime antifascista ma non vuole entrare nelle bande comuniste. Parte solitario per le colline delle Langhe dove si unisce casualmente alla prima brigata che incontra, la brigata Garibaldi. La vita del partigiano e completamente diversa dall'avventura poetica che si era immaginato nei suoi sogni di letterato. Dopo un attacco tedesco la sua formazione e costretta a sbandare e Johnny si unisce ad una formazione azzurra, il cui capo Nord lo affida al presidio di Mango.

Critica 1:Visti i tempi che corrono, un film intitolato “L’ultima raffica di Salò” avrebbe forse maggiori possibilità di far parlare di sé rispetto a Il partigiano Johnny . Pubblicato postumo nel ’78, il romanzo di Beppe Fenoglio (1922-1963) è diventato un fenomeno di culto: e nella sua frammentarietà è insieme un diario e un laboratorio linguistico, con frequenti snobistici intermezzi in lingua inglese. Da questo testo canonico, inseguendo il protagonista in armi (ma con in tasca “The Pilgrim’s progress” di John Bunyah) sulle balze piemontesi dall’ottobre ’43 al febbraio ’45, Guido Chiesa ha tratto un film più attento alla verosimiglianza che agli aspetti spettacolari. Non siamo di fronte a una ricostruzione agghiacciante in stile Platoon di Oliver Stone o Kippur di Amos Gitai. Qui il regista si è limitato a ricavare dal testo la freschezza della testimonianza, immergendola in una scrupolosa ambientazione resa ancor più suggestiva dal ricorso a una sorta di decolorazione dell’immagine nella bella fotografia di Gherardo Rossi. Della guerriglia partigiana si rispecchiano le interne tensioni, da una parte i comunisti e dall’altra i badogliani, ma senza l’assillo di emettere verdetti di merito a favore degli uni o degli altri; e lasciando invece emergere la fatica, la paura, il freddo, la fame e i lutti. Rammenta un personaggio: “La guerra è solo casi estremi”. Stefano Dionisi rivive l’odissea di Johnny con serena determinazione, ben accompagnato soprattutto da Andrea Prodan e Fabrizio Gifuni; e il disegno dei personaggi ne esce limpido, privo di enfasi, più sul versante del referto che dell’interpretazione. Si pensa a Paisà (ci pensò anche Fenoglio, replicandone quasi alla lettera la didascalia finale: “Due mesi dopo, la guerra era finita”) in un film che offre i dati di un’esperienza storica con un'onestà mai prevaricatrice. Le conclusioni, sembra suggerire il regista, tiratevele da soli, una volta tornati a casa. Per il mio gusto in questa ricostruzione avrei eliminato la voce fuoricampo, tagliato un bel po’ di minuti a beneficio di un’intensità senza cedimenti e amministrato con maggiore parsimonia la pur interessante colonna di Alexander Balanescu: che c’entra la musica quando si racconta la verità? L’anacronismo sarebbe un peccato veniale, ma mi sembra improbabile che nell’autunno ’44 fosse pervenuto fra i partigiani piemontesi un disco di “Moonlight serenade” di Glenn Miller sul quale ballare in un raro momento di distensione. Forse il limite di un film così è anche il suo pregio: chiamiamola austerità, chiamiamolo pudore di fronte alla mozione degli affetti. Chiesa avrebbe potuto fare uno spettacolo più coinvolgente, ma in Il partigiano Johnny si avverte una nota di serietà del tutto insolita nel cinema non soltanto italiano.
Autore critica:Tullio Kezich
Fonte criticaCorriere della Sera
Data critica:

18/11/2000

Critica 2:Era parecchio tempo che Guido Chiesa progettava di portare sullo schermo il romanzo semiautobiografico di Beppe Fenoglio, pubblicato postumo nel 1978. Quando la possibilità si è concretizzata, il quarantenne regista/sceneggiatore ha dovuto porsi una domanda difficile: come raccontare la Resistenza oggi, in un clima culturale in cui le idee, la Storia, la moralità paiono diventati oggetti d'antiquariato? Chiesa ha trovato la risposta giusta. Dal punto di vista della scrittura drammaturgica, Il partigiano Johnny adotta uno stile laconico e privo di enfasi; vi corrispondono immagini quasi scabre, colorate con una tavolozza neutra e omogenea. La volontà antideclamatoria è tanto più lodevole perché quella di Johnny è una storia tutta impastata di dolore. Dolore delle scelte difficili: all'indomani dell'8 settembre uno studente di letteratura inglese diserta, si nasconde nelle colline intorno alla sua Alba, poi prende la via delle Langhe e si unisce a un gruppo di partigiani comunisti. Dolore di una guerra combattuta tra freddo, pioggia e stenti, dove si attacca e si è attaccati di sorpresa, bisogna fuggire e nascondersi, si conquista una città sapendo di perderla subito dopo. Chiunque può essere un amico o un traditore: e dall'alternativa dipende la vita del partigiano. Tra l'autunno '43 e il febbraio '45, scandito per capitolistagioni, il film di Chiesa intende soprattutto mettere in scena questa sofferenza, la quotidianità di una guerra sporca e cattiva come ogni guerra, ma ancor più precaria e confusa, in cui i cadaveri restano abbandonati nei campi o nelle strade dei villaggi e ogni azione può scatenare una rappresaglia sanguinosa sulla popolazione civile. Passato a una formazione di ex militari che sarà decimata, Johnny si ritrova solo, a cercare di sopravvivere tra fame e gelo al durissimo inverno del '44. Proprio quando potrebbe cadere preda della disperazione e sentir vacillare di più la propria motivazione ideale, vissuta finora con la titubanza dell'intellettuale, il giovane ritrova più forte la ragione della scelta fatta, rinuncia alla rinuncia, giunge a negarsi ogni residuo istinto di autoconservazione. Per misurare la coerenza antiretorica di Chiesa basterebbe paragonare il suo film con La tregua, l'adattamento del romanzo di Primo Levi diretto tre anni fa da Francesco Rosi. I modelli del regista torinese sono altri: il cinema neorealista, e in particolare l'ultimo episodio di Paisà, da un lato, dall'altro La sottile linea rossa di Terrence Malick. L'unica cosa che stona, in tutto ciò, è a carico della colonna sonora, con la musica invadente di Alexander Balanescu e la voce overscreen che narra o commenta in inglese. Invece le scene di guerra risultano assolutamente convincenti, proprio per l'assenza di epicità e l'inesorabile ripetitività con cui sono rappresentate. L'ambientazione “on location” sui luoghi dell'azione è ineccepibile. Ottima l'interpretazione di Stefano Dionisi, adeguato e ben diretto tutto il cast.
Autore critica:Roberto Nepoti
Fonte critica: la Repubblica
Data critica:

18/11/2000

Critica 3:
Autore critica:
Fonte critica:
Data critica:



Libro da cui e' stato tratto il film
Titolo libro:Partigiano Johnny (Il)
Autore libro:Fenoglio Beppe

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