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Mommy - Dolan Xavier


Regia:

Cast e credits:
Sceneggiatura: Xavier Dolan; fotografia: André Turpin; musiche: Noia; montaggio: Xavier Dolan;
scenografia: Colombe Raby; costumi: Xavier Dolan, François Barbeau; interpreti: Antoine-Olivier Pilon (Steve O'Connor Després), Anne Dorval (Diane "Die" Després), Suzanne Clément (Kyla), Patrick Huard (Paul Béliveau), Alexandre Goyette (Patrick), Michele Lituac (Preside), Viviane Pacal (Marthe), Nathalie Hamel-Roy (Natacha); produzione: Xavier Dolan, Nancy Grant Per Metafilms; distribuzione: Good Films; origine: Francia, 2014; durata: 139’.

Trama:Un'esuberante giovane vedova, madre di un ragazzo, si vede costretta a prendere in custodia a tempo pieno suo figlio, un turbolento quindicenne affetto dalla sindrome da deficit di attenzione. Mentre i due cercano di far quadrare i conti, scontrandosi e discutendo, Kyla, l'originale, nuova ragazza del quartiere, offre loro il suo aiuto. Assieme, troveranno un nuovo equilibrio, e tornerà la speranza.

Critica (1):Odiatelo, se vi pare, ma il talento non si discute. 25 anni e 5 film più un videclip. Come un sogno erotico della cinefilia più radicale, Xavier Dolan incarna un'idea di cinema splendidamente estremista, citazionista e personale, formalista e poetica, melodrammatica e ironicamente hip. Con una differenza macroscopica Dolan al cinema ci crede. E si vede. Sin dal suo primo lungometraggio, J'ai tué ma mère a soli 20 anni, scritto e diretto con un entusiasmo contagioso, un edipico e batailleiano rapporto di odio-amore-odio fra madre e figlio, incurante di tutte le analogie e similitudini che il pubblico avrebbe potuto trarre osservando la sua situazione biografica e familiare. Sfruttando tutte le tonalità dello stridulo e rude quebécqois, Dolan si tuffa senza remore in un brutale gioco al massacro da camera. Facile dire, poi, «esercizio di stile». Di vocazioni cinematografiche così evidenti non è che se ne siano poi viste tante nell'ultimo decennio. E comunque le eventuali debolezze di questo esordio presentato con tutti gli onori del caso alla Quinzaine, scompaiono già con il successivo Les amours imaginaires, svelato invece nell'ambito di “Un certain regard”. Solo un anno è trascorso. Eppure tale è la distanza – e la prossimità – fra i due film che si potrebbero misurare in anni luce. Il pantheon dei padri e numi tutelari s'amplia. Oltre a Cocteau, Bertolucci, Truffaut, Garrel, è convocato Wong Kar-wai del quale Dolan omaggia i pizzicato di In the Mood for Love e, addirittura, Leone per l'abilità calligrafica di calibrare un triello sentimentale di inusitata intensità. Niels Schneider, apparso brevemente nel film d'esordio, diventa l'oggetto del desiderio, indossando occhiali rossi come Sue Lyon. Nel finale, tocco di perversione fetish, Niels si rispecchia in Louis Garrel, come un doppio sogno che s'avvita su stesso vertiginosamente. Dolan gioca con il montaggio come se il film fosse un nastro magnetico da puntare con pezzi di cuore e
enti di retina.
Retto dai beat celibi di The Knife, Fever Ray e dallo sguardo della sublime Mona Cholai che divora con gli occhi il biondo Nicolas il quale rimanda al Björn Andrésen di Morte a Venezia, Les amours imaginaires è una folgorazione per tanti ma la base oltranzista dei diffidenti non trova altro che motivi di conferma per i propri sospetti. Eppure Dolan, con soli due film, è già un cineasta importante. Un talento puro.Come conferma il successivo e superbo Laurence Anyways, presentato ancora nel “Certain regard”. Film zeppo di trovate strabilianti dove Dolan crea ancora una volta un vero e proprio mondo. Al punto che si occupa dei costumi ma anche del montaggio, suono e produzione.
Un ossessivo compulsivo? Forse. Ma basta dare uno sguardo al film per comprendere come Xavier Dolan sia profondamente innamorato del processo di realizzazione del film per allontanare da lui e dal suo metodo di lavoro qualsiasi sospetto di sterile controllo anaffettivo kubrickiano. Con Mommy, dopo il detour hitchcockiano di Tom à la ferme, Dolan torna dalle parti del suo esordio. Mommy è un folgorante tour de force emotivo nel quale Dolan ha curato addirittura i sottotitoli inglesi che accompagnano la versione originale quebécqois.
La madre, ancora una volta, è l'epicentro erotico e drammatico del racconto. Lui, figlio difficile dal cuore d'oro, lei versione canadese e working class del white trash statunitense, vorrebbe tenerlo con sé e vivere la sua vita. Ma non è facile. E poi c'è lei, la vicina di casa, sulla quale il figlio può trasferire le attenzioni sessuali che vorrebbe invece dedicare alla madre. Nelle mani di qualunque altro regista una materia simile sarebbe stata destinata al fallimento certo. In quelle di Dolan, invece, tutto trova una magnifica evidenza folgorante, come quando l'1:1 si allarga a un vertiginoso 2:35.1 perché il 2 è diventato 3. La precisione con la quale Xavier Dolan permette a ogni articolazione del suo film di respirare e vivere davanti allo sguardo incantato dello spettatore, è magistrale. L'abilità con la quale il regista modula il forte e il fortissimo dei dialoghi, quasi tutti urlati da interpreti allo stremo delle forze, e la precisione della macchina da presa di Andrè Turpin, (…) fanno di Mommy un film che si può ritenere un punto di riferimento del melodramma contemporaneo sin da ora. (…)
Giona A. Nazzaro, il manifesto, 4/12/2014

Critica (2):Il più allegro e impudico, il più disperato e colorato, il più imprevedibile e "palmabile" dei film visti quest'anno a Cannes (anche se poi si sarebbe "accontentato" del premio alla regia ex aequo con Godard) si intitola semplicemente Mommy: e trattandosi di una storia d'amore, anche se sui generis, giustamente arriva in sala per Natale.
Difficile etichettarlo, come vorrebbe la dittatura del marketing (buon segno). Diciamo che è una commedia post-Almodovar e post-Fassbinder (nera? rosa? arcobaleno?), diretta da un regista giovanissimo che ha anche guardato con attenzione i primi lavori di Jane Campion: Xavier Dolan, canadese francofono, 25 anni e già 5 film al suo attivo. Il primo subito premiato a Cannes nel 2009, l'ultimo prima di questo, Tom à la ferme, in concorso a Venezia nel 2013 (ma purtroppo mai uscito in Italia).
Una produttività fuori dal comune che è anche la cifra del suo cinema eccessivo, spiazzante, oltraggioso come i suoi personaggi. Ma anche molto consapevole e efficace, perché dietro i tipi e i comportamenti più stravaganti ci sono sempre sentimenti assoluti (dunque accessibili a chiunque: Mommy non è il solito film d'autore un po' scostante, al contrario). E molto difficili da gestire, come il terribilissimo Steve, adolescente iracondo e ipercinetico, dunque assai problematico anche se in fondo buono come il pane, ospite fisso di istituti per ragazzi disturbati.
Che la madre vedova, altro bel tipo molto sopra le righe, torna a prendersi in apertura per tentare una nuova convivenza. Senza immaginare a cosa va incontro, in un crescendo di comportamenti ingestibili che coinvolgerà poco a poco, in una specie di casto ma sfrenato menage à trois post-edipico, anche la sua nuova vicina. Una tipa bonaria, sposata e apparentemente tranquilla, insomma tutto il contrario di lei, che però sotto la balbuzie nasconde chissà quali traumi... (al di là di ogni elogio il terzetto dei protagonisti).
Scena madre, è proprio il caso di dire, l'esibizione di Steve che canta Bocelli in un karaoke bar provocando un accesso di ilarità e aggressività dei presenti. Attenti allo schermo quasi quadrato, da film muto, che ogni tanto si allarga a sorpresa in un formato panoramico. Anche se non è detto che ve ne accorgiate, tanto sono forti le emozioni che dovrebbe contenere.
Fabio Ferzetti, Il Messaggero, 4/12/2014

Critica (3):

Critica (4):
(Progetto editoriale a cura di); (Progetto editoriale a cura di) Redazione Internet; Redazione Internet (Contenuti a cura di); (Contenuti a cura di) Ufficio Cinema; Ufficio Cinema
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