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Detroit


Regia:Bigelow Kathryn

Cast e credits:
Sceneggiatura: Mark Boal; fotografia: Barry Ackroyd; musiche: James Newton Howard; montaggio: William Goldenberg; scenografia: Jeremy Hindle; arredamento: Dennis Colvin, Kathy Lucas; costumi: Francine Jamison-Tanchuck; effetti: Dan Cayer, Randy Goux, Joao Sita, Image Engine Design, Zero VFX; interpreti: John Boyega (Dismukes), Will Poulter (Krauss), Anthony Mackie (Greene), Hannah Murray (Julie Hysell), Jack Reynor (Demens), Ben O'Toole (Flynn), Algee Smith (Larry), Jason Mitchell (Carl), John Krasinski (avvocato Auerbach), Jacob Latimore (Fred), Kaitlyn Dever (Karen), Laz Alonso (Conyers), Malcolm David Kelley (Michael), Jeremy Strong (Avvocato Lang), Tyler James Williams (Leon), Nathan Davis Jr. (Aubrey), Peyton 'Alex' Smith (Lee), Joseph David-Jones (Morris), Ephraim Sykes (Jimmy), Leon G. Thomas III (Darryl), Gbenga Akinnagbe (Aubrey Pollard Sr.), Chris Chalk (Agente Frank), Austin Hébert (Agente Roberts), Miguel Pimentel (Malcolm), Samira Wiley (Vanessa), Mason Alban (Sergente di Polizia James), Tokunbo Joshua Olumide (Dave), Benz Veal (Nate Conyers), Dennis Staroselsky (Detective Jones), Zurin Villanueva (Martha), W Morgan Taylor (Linda Tucker), Kris Sidberry (Roberta Pollard), Lizan Mitchell (Ma Pollard), Chris Coy (Detective Thomas), Ato Blankson-Wood (Eddie), Glenn Fitzgerald (Detective Anderson), Frank Wood (Giudice Demascio); produzione: Megan Ellison, Kathryn Bigelow, Matthew Budman, Mark Boal, Colin Wilson per Harpers Ferry, Page 1 Production; distribuzione: Eagle Pictures; origine: Usa, 2017; durata: 142'.

Trama:La storia è ispirata alle sanguinose rivolte che sconvolsero Detroit nel 1967. Tra le strade della città si consumò un vero e proprio massacro ad opera della polizia, in cui persero la vita tre afroamericani e centinaia di persone restarono gravemente ferite. La rivolta successiva portò a disordini senza precedenti, costringendo così a una presa di coscienza su quanto accaduto durante quell'ignobile giorno di cinquant'anni fa.

Critica (1):La questione razziale americana è stato davvero il Vietnam degli anni della presidenza Obama. Così come la guerra in Iraq lo fu dei due mandati di George W. Bush. Non c’è stato un altro tema altrettanto sintomatico o significativo con cui approcciare la crisi del modello sociale americano degli ultimi anni. Come se l’omicidio di Trayvon Martin o il movimento Black Lives Matter avessero esposto non soltanto i limiti della Presidenza Obama, ma anche una sempre più ampia divaricazione tra le rappresentazioni simboliche – come l’elezione del primo presidente afro-americano – e la materialità di un drammatico dato di realtà: che la stragrande maggioranza delle povertà e delle marginalità negli Stati Uniti riguardi tuttora persone che hanno la pelle scura. In modo ancora più intollerabile oggi di quanto già non lo fosse nei decenni precedenti. Segno che il colore della pelle, nonostante tutto, faccia ancora differenza soprattutto perché inestricabilmente intrecciato a un’enorme questione sociale.
Al cinema se ne sono occupati in tanti (chi con più chi con meno efficacia): da Berry Jenkins ad Ava DuVernay, dallo Steve McQueens di 12 anni schiavo al Raoul Peck di I’m Not Your Negro, da Get Out a Birth of a Nation. Così come nella letteratura l’ha fatto Ta-Nehisi Coates o nella musica Kendrick Lamar, D’Angelo o Solange. Ma se i processi di razzializzazione sono stati il terreno su cui si è misurata la sensibilità politica dell’America contemporanea, nelle forme della rappresentazione il come conta molto più del cosa.
Kathryn Bigelow con Detroit decide di raccontare uno degli episodi più importanti di quel grande decennio di politicizzazione black che sono stati gli anni Sessanta. Siamo in un periodo in cui dopo la vittoria del Voting Rights Act Martin Luther King inizia ad abbracciare posizioni sempre più apertamente di tipo socialista, dove le problematiche razziali cominciano a essere viste nel loro intreccio con la questione sociale e di classe. Detroit – dove Malcom X tenne due dei suoi discorsi più importanti: “Message to the Grass Roots” e “The Ballot or the Bullet” – anche per via della vicinanza alle più importanti fabbriche automobilistiche della nazione è in questo senso un laboratorio di un processo di radicalizzazione dei movimenti black che sta avvenendo in tutta la nazione. Nel 1967 una fortissima presenza organizzata (lo Shrine of the Black Madonna, gli amici dello Student Nonviolent Coordinating Committee, l’Afro-American Youth Movement, la Republic of New Afrika e mille altri) prepara una vera e propria insurrezione, che avverrà in modo simile negli stessi mesi anche a Newark, Chicago, Baltimore, così come era già accaduto a Watts a Los Angeles.
Kathryn Bigelow – nonostante un breve prologo di contesto, per altro pieno di inesattezze – decide invece di dare una forma alla sua rappresentazione di segno opposto, tutta giocata sull’incertezza e la contingenza dell’evento visto dall’interno. Il film inizia con una retata della polizia nella festa di un locale semiclandestino popolato da soli neri, che contravvenendo alla proibizione della vendita di alcolici viene chiuso in fretta e furia. L’arresto di massa che ne consegue finisce, quasi per caso, per provocare la reazione violenta dei presenti che si intensifica fino a diventare un vero e proprio riot e poi una sommossa generalizzata a tutta la città. Tuttavia è soprattutto la forma dell’immagine a colpire: un’instabile e frenetica camera a mano piena di movimenti irregolari, e un insieme confuso di molte voci a volte difficili da isolare l’una dall’altra.
In Detroit insomma regna un sentimento di caos e disorientamento. Ma è soprattutto il fraintendimento a farla da padrone, dato che è da un insieme di leggerezze, pressapochismo e ignoranza dei confini giuridici del proprio ruolo che nasce uno dei primi omicidi a opera di un giovane poliziotto impulsivo, così come è da una pistola giocattolo che viene sparata contro la Guardia Civile dalla finestra di una pensione, l’Algiers Motel, che prende corpo quella che è a tutti gli effetti la scena madre del film.
Detroit si sviluppa infatti lungo tre atti, ma è l’atto centrale quello attorno a cui ruota il film (dura quasi un’ora). “Credendo” che gli stiano sparando addosso da una stanza d’albergo un gruppo di militari e poliziotti entra per compiere una retata in una pensione dove si sta tenendo una piccola festa (da un gruppo di neri e da due ragazze bianche che si trovano per caso e per la prima volta insieme). Tuttavia è proprio in conseguenza del fatto che l’arma che viene ricercata non esista, che si assiste a un’escalation di violenza e sadismo sempre più estrema.
In uno scenario che ricorda il The Brig del Living Theater, assistiamo per quasi un’ora a dei veri e propri atti di tortura e sevizie dove si mischiano razzismo e inesperienza, violenza e paura, egoismo e ricatti, e in cui soprattutto ogni errore di valutazione soggettivo può essere corretto solo da un errore più grande fino a che la situazione non precipita irrimediabilmente. Bigelow insomma pare disinteressarsi alla big picture di Detroit ’67 e alle questioni politiche e razziali americane (degli anni Sessanta così come di quelle di oggi), e sembra voler basare il film solo su un dispositivo di creazione dell’angoscia di grandissima efficacia. Non vi è niente in questo film della strutturalità del razzismo americano, così come dell’intelligenza sovversiva dei movimenti black. Tutto è ridotto al sadismo dei poliziotti bianchi così come a quell’orgy of pillage, quell’orgia del saccheggio, ampiamente documentata dal film ma che secondo molti apparteneva più a un sistema dei media preso dal panico che alla realtà.
Tuttavia in un film in cui la rappresentazione ideologica non manca d’ambiguità vi sono diversi motivi d’interesse, soprattutto di ordine formale. Innanzitutto l’idea di incentrare tutto il racconto sull’evento, per nulla rappresentativo, dell’Algiers Motel, è come se venisse “raddoppiato” dalla decisione della regista di stare appiccicata ai volti e ai corpi sfigurati dal terrore dei protagonisti. Così come è un dettaglio marginale quello che vediamo di Detroit ’67, così sarà fatta solo di “dettagli” la percezione della realtà circostante, come se la confusività della forma diventasse il modo attraverso cui il nostro accesso alla questione razziale venisse costantemente decentrato.
E in effetti il terzo atto del film – una sorta di epilogo processuale che racconta dell’impunità della polizia bianca di Detroit – è tutto basato sull’opacità della percezione dei dettagli, questa volta intesi come singoli punti di vista dei diretti interessati. Nelle deposizioni dei testimoni, ancora traumatizzati per l’inaudito atto di violenza a cui sono stati sottoposti, vi sono contraddizioni, imprecisioni e soprattutto vi è una percezione dell’evento che è mediata dalla limitatezza del proprio punto di vista e dal surplus di emotività per essere stati troppo dentro l’immagine.
L’assoluta evidenza della violenza fine a sé stessa che lo spettatore pare sentire persino dentro alla propria pelle viene ribaltata nell’opacità del racconto. Come se quel reale che sembrava confuso proprio perché visto “troppo da vicino” finisse per perdere i contorni e farsi silenzio. Il vero trauma d’altra parte non è solo un evento d’intensità inaudita che rimane chiuso nel proprio passato, ma anche l’influenza che questo ha nella capacità di poterne fare parola. E così il problema della violenza razziale raggiunge la sua forma cinematografica più adatta: quella di non potersi mai fare immagine di sé stessa. E in questo sì, Detroit, è davvero un film politico.
Pietro Bianchi, cineforum.it, 23/11/2017

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(Progetto editoriale a cura di); (Progetto editoriale a cura di) Redazione Internet; Redazione Internet (Contenuti a cura di); (Contenuti a cura di) Ufficio Cinema; Ufficio Cinema
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