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Crocevia della morte - Miller’s Crossing


Regia:Coen Ethan, Coen Joel

Cast e credits:
Sceneggiatura
: Joel e Ethan Coen; fotografia: Barry Sonnenfeld; montaggio: Michael Miller; musica: Carter Burwell; scenografia: Dennis Gassner; costumi: Richard Hornung; interpreti: Gabriel Byrne (Tom Reagan), Albert Finney (Leo), John Turturro (Bernie Bernbaum), Marcia Gay Harden (Verna), Jon Polito (Johnny Caspar), The Dane Eddie (J. E. Freeman), Sam Raimi (uomo armato che ghigna), Mike Starr (Frankie), Al Mancini (Tic-Tac), Richard Woods (magg. Dale Levander), Thomas Toner (O’Doole), Steve Buscemi (Mink), Mario Todisco (Clarence “Drop Johnson), Olex Krupa (Tad), Michael Jeter (Adolph), Lanny Flaherty (Terry), Jenette Kontomitras (signora Caspar); produzione: Ethan Coen per la 20th Century Fox - CDI; origine: USA, 1990; durata: 110'.

Trama:Un cappello nero vola nel vento sotto i titoli di testa. Siamo in una non identificata città dell’Est degli Stati Uniti verso la fine degli anni ’20. Una città governata da un boss irlandese, Leo, e in seconda battuta da Tom Reagan, la sua eminenza grigia. Un delinquente italiano in ascesa, Johnny Caspar, va da Leo perché tolga la sua protezione a Bernie Bernstein, un bookmaker ebreo che gli rovina le scommesse sui suoi incontri truccati. Leo rifiuta, un po’ perché non vuole piegarsi all’obeso Caspar e un po’ perché la sorella di Bernie, Verna, è la sua attuale amante. Ton Reagan, giocando a carte, perde perfino il cappello. Per riconquistarlo bussa alla porta di Verna, la quale non trova del tutto sconveniente portarselo a letto. Il cappello torna al suo legittimo proprietario, ma le cose si complicano anche perché Leo aveva fatto seguire Verna da Nat e Nat non si trova più. Lo troviamo subito dopo cadavere in un vicolo. Ma le cose si complicano anche perché comincia la guerra tra Leo e Johnny con la polizia (pagata da Leo) che fa irruzione in uno dei locali di Johnny poco prima che Tom venga massacrato di botte. La risposta è un tentativo diretto di far fuori Leo a casa sua con una sequenza montata splendidamente, un giornale che prende fuoco troppo in fretta e una reazione da Superman da parte di Leo che mette in fuga a colpi di mitra i killer. Il giorno dopo è giorno di vendetta per Leo, nonostante il sindaco e il capo della polizia si facciano negare (sono già arrivati alla corte di Johnny). Tom, per convincere Leo ad abbandonare Bernie e Verna, gli confessa di avere una relazione con lei. Il risultato è che Leo non cambia parere, ma lo spedisce a calci fuori dalla casa. A questo punto parte la missione undercover di Tom che contatta Johnny, finge di passare dalla sua parte e come prova di buona fede gli rivela il nascondiglio di Bernie. Quel che non immagina è che Johnny pretenderà anche che sia lui a far fuori Bernie nel bosco di Miller’s Crossing. La sequenza è lunga, tutta in steady ed è meravigliosamente interpretata da Turturro. A quel punto Tom, forse perché ha altri piani in mente, forse perché si è convinto che Turturro è un grande attore e non lo si può ammazzare a metà film, spara in aria e lo lascia scappare. Le cose sembrano mettersi male per Leo che non ha più l’appoggio della polizia, né quello dell’unico uomo di cui si fidi che è Tom. Ma il nostro stratega è già al lavoro per cercare di convincere Johnny che Dane, il suo braccio destro, è un traditore. Dane non sta con le mani in mano, prima va a cercare Verna per intimidirla, poi riprende Tom per una nuova passeggiata a Miller’s Crossing con l’intento di trovare un cadavere che non dovrebbe esserci. E invece c’è perché nel frattempo Bernie ha fatto fuori Mink, l’amico di Dane, e l’ha messo al suo posto. Anche Bernie si dà da fare, fa visita a Tom per ricattarlo del fatto di averlo lasciato vivo e poi tenta di approfittare di un incontro truccato usando un pugile suonato per piazzare la scommessa. La prima resa dei conti avviene a casa di Johnny dove con un colpo di scena Dane muore con una palettata in faccia. La seconda è all’albergo di Bernie dove Johnny viene fatto fuori da Bernie. Quando arriva Tom sembra che tutto sia a posto, ma Tom ha già previsto tutto: saranno due i cadaveri, reciprocamente colpevoli d’omicidio. E questa volta spara a Bernie. Il finale dovrebbe essere uno scioglimento e non lo è. Al funerale di Bernie, Leo rivela a Tom che Verna gli ha chiesto di sposarlo e gli propone di tornare a lavorare assieme. Sarà per colpa di Verna, sarà perché Leo è proprio scemo ma Tom risponde di no. Il cappello di Tom è ben calcato sulla testa e non c’è rischio che il vento se lo porti via.

Critica (1):Quando Tom racconta a Verna il sogno del cappello che vola via nel vento, Verna lo interrompe per dire: «and then you chased the hat and it changed to something else». No, risponde Tom: «It stayed a hat, and I didn’t chase it».
Da Aristotele a Tom Reagan, senza passare per Magritte, un cappello è un cappello, così come una pipa è una pipa e A non può essere non A. Eppure considerate quanta parte, fin dai titoli di testa, abbiano i cappelli nell’ultimo film dei fratelli Coen. Tom se lo gioca subito a carte in una sequenza che non vediamo, anche se vediamo subito dopo come faccia a riprenderselo e da chi. Così come vediamo con quanta ostinata casualità gli rimanga attaccato quando Leo viene a sapere della sua storia con Verna e prende a scaraventarlo giù dalle scale. È un cappello troppo piccolo l’indizio che tradisce Bernie nella casa del pugile suonato. Ed infine è un cappello caduto sulle scale la prima cosa che vediamo prima di scoprire il cadavere di Johnny.
Insomma che funzioni da epifania di un cadavere, da flagranza di un tradimento, da pegno galeotto, c’è da dubitare fortemente della sua semplice e banale «cappellitudine».
Ovvero le cose non sono così come appaiono. Come capita in ogni buona spy-story, la finta defezione è un’operazione da preparare con tutta la cura di una scena teatrale. Alec Leamas deve farsi degradare, mettersi a bere e perfino picchiare un droghiere prima di convincere i servizi sovietici di essere pronto al tradimento. Tom si fa un’intera scalinata sulle ginocchia a forza di calci, per suggerire a Johnny Caspar l’idea di accoglierlo nella sua banda. A questo punto il machiavello di Tom comincia a funzionare e a prendere inerzia. Bernie uccide Mink che è l’amante di Dane, Johnny si lascia convincere che Dane è un traditore e lo uccide (è la stessa cosa che capita a Fiedler nel romanzo di Le Carré), quindi Bernie uccide Johnny quasi senza volere e infine Tom liquida Bernie per chiudere il cerchio e non lasciare resti nell’intera operazione. Ma come in ogni buona spy-story il rischio per il finto traditore di essere scoperto s’accompagna al rischio di essere preso per un buon traditore. È per questo che ci vuole un principio di realtà, un margine anteriore che funzioni da garanzia, che sappia discernere la finzione dal vero.
Se l’operazione sta tutta nella testa dell’eroe (come nel nostro caso) o se il principio di realtà muore sotto una macchina (come nel caso di Newman/Mackintosh nel film di Huston), allora cominciamo a navigare nell’ambivalenza più assoluta. E il problema lo pone chiaramente Johnny Caspar quando dice «If you can’t trust a fix, what can you trust?». Se non puoi più fidarti di una finzione (un incontro di boxe truccato) di cosa ti puoi fidare? Normalmente, anche nelle migliori spy story, è la scena finale a rimettere in ordine le cose, discernere il bene dal male, il vero dal finto e il doppio dal triplo. Cosa che qui accade nel cimitero degli ebrei, luogo in cui tutti i trucchi devono sciogliersi, il reale tornare reale e i cappelli tornare ad essere cappelli. O almeno così dovrebbe essere.
Un buon trucco per fare un film è quello di costruire una situazione in cui il nostro eroe abbia almeno un paio di ragioni diverse per fare quel che sta facendo. Ad esempio un reporter che insegue un’ereditiera perché ne è innamorato, ma anche perché vuole fare un colpo giornalistico. È piuttosto naturale che prima o poi la ragazza venga colta da dubbi sulla di lui sincerità. Ma normalmente tutto si aggiusta nel finale col nostro eroe che si aggiudica sia la ragazza che lo scoop.
A voler fare i furbi si può lasciare sul vago lo scioglimento finale e tutto si può dire dei fratelli Coen, ma non che non siano furbi.
Insomma, se Miller’s Crossing non fosse altro che una contorta storia d’amore, camuffata da spy‑story, travestita da gangster-movie?
Certo sotto questo aspetto molte cose non si spiegano. Se uno vuole ottenere i favori di Verna, ammazzarle il fratello non è esattamente l’avance più indovinata. Salvare Leo, facendo fuori Johnny, inoltre non è il modo migliore per far fuori un rivale in amore. Eppure il movente amoroso è ineludibile e suggerisce quantomeno qualche crepa d’incertezza sulle azioni di Tom, sul tradimento simulato e sulla macchinazione preordinata. Senza contare che la casuale e tragica sostituzione di Trey Wilson con Albert Finney finisce per innescare una latente relazione padre-figlio. In ogni caso la famiglia non si ricompone e Tom Reagan rimane solo, appoggiato a un albero, calcandosi bene il cappello sugli occhi.
Qualcuno dirà che resta solo, per continuare la tradizione di Bogart «a quien releva en el arte de recibir bofetadas». Oppure perché disgustato dal mondo del crimine, ma sono le interpretazioni più ovvie. Un po’ meno ovvia è l’idea che tutto sommato voglia tirarsi fuori (non dall’illegalità), ma da quella guerra italo-ebreo-irlandese che è anche una buona parafrasi della nascita della nazione americana.
Leo è irlandese e si vede subito che da grande vorrebbe fare l’uomo d’affari. Per quanto rischi di mandare tutto all’aria per una donna, per quanto sia incapace di pensare (lo fa Tom al suo posto), Leo è il grande elettore, l’uomo rispettabile che garantisce la spartizione dei territori e l’equanime gestione dell’illegalità.
Johnny Caspar è italiano e non potrebbe passare per un uomo d’affari neppure se ci provasse. Il suo trucco è l’obesità, la sua logica impagabile, la sua ingenuità mostruosa. Il suo dramma etico, una volta preso in mezzo tra i filiformi Tom e Dane, è degno di Otello ed è altrettanto sfortunato.
Bernie Bernstein è ebreo, probabilmente è pazzo, comunque fa la parte del joker. È lui il movente dell’intera storia, la vittima designata e il colpevole. «He’s constantly on the move. Which is kind of jewish story». Lotta per la sua sopravvivenza con una sottigliezza quasi gesuitica. Il suo ricatto nei confronti di Tom è un capolavoro di logica: visto che Tom lo ha risparmiato, ora Tom gli deve qualcosa, perché se qualcuno lo vedesse in giro, sarebbe proprio Tom ad andarci di mezzo per primo. È un peccato che la lucidità stanziale di Tom sia superiore alla sua logicità errante. Impossibile non tifare per questo Bernie «salvato dalle acque» che si mette in testa di fare il legislatore, proprio poco prima d’andare incontro all’olocausto.
Un irlandese, un ebreo e un italiano, dunque, come nelle barzellette o come nei libri di storia degli Stati Uniti. Quei libri nei quali sotto il vecchio trucco del «melting pot» si rimuovono differenze insanabili, massacri d’indiani e illegalità manifeste.
L’assenza della Legge, del resto, sembra una costante dei fratelli Coen. Blood Simple era un noir senza poliziotti. In Arizona Junior la polizia interveniva solo per imbrogliare le carte. Anche in Crimewave (diretto da Raimi, ma sceneggiato dai Coen) la loro unica funzione era quella di mandare a morte un innocente. Qui è semplicemente al soldo del più potente (come in ogni buon Hammett). Se il loro prossimo film sarà un western, a buon diritto si potrà dire che avranno finito per comporre una tetralogia dal titolo «Nascita di una nazione».
Dovrò confessarlo: l’insistenza sulla trama e sui moventi non può non essere sospetta. Il problema è che i Coen sanno scrivere come pochi altri in giro. Se avessero un pari talento visivo, saremmo di fronte ad un quasi capolavoro. Il fatto è che Miller’s Crossing è un film già pronto per la televisione e per l’homevideo. Con le sue inquadrature strette, i controcampi da manuale e la camera senza sussulti. Ci sono giusto un paio di dissolvenze sulle tendine a ricordarci che ci troviamo al cinema. Ci sono anche momenti in cui la fissità della camera assume valori narrativi (vedi la scoperta del cadavere di Nat con un cane e delle luci radenti che provengono direttamente dalla pubblicità). Momenti in cui la camera pulsa allo stesso ritmo dell’azione (vedi la doppia passeggiata a Miller’s Crossing). E momenti in cui tutto va a fuoco come nella (esemplare) sequenza dell’attentato notturno alla casa di Leo. Ma non è qui il nocciolo della questione. La sostanza di cui Miller’s Crossing è fatto è una solida, intricata e labirintica sceneggiatura. «A thickly twisted script». Una scrittura che, al momento di arrivare sul set, si fa forte soprattutto del lavoro di Barry Sonnenfeld, Gabriel Byrne e John Turturro.
Sonnenfeld è tornato sulla terra, ma poi non più di tanto. Le prospettive distorte di Arizona Junior (ma anche di Crimewave) rimangono per allungare le stanze, distanziare i personaggi, falsare le impressioni, ma non sono «pop-eying» come nel film precedente. Se qualcuno ricorda i primi piani mostruosi di Getta la mamma dal treno qui scopre che Sonnenfeld non calca la mano, ma lascia comunque la firma. Bisognerà stare attenti perché è così che nascono i mostri (vedi Storaro), ma per il momento è assolutamente prezioso.
Byrne ha gli occhi chiari e lo sguardo profondo di chi ha sofferto irraccontabili sciagure. In questo caso la parte gli si adatta come un cappello, ma faccio fatica ad entusiasmarmi.
Chi merita entusiasmi e strepiti invece è John Turturro. Era Aspanu Pisciotta nel Siciliano di Cimino, ha fatto piccole parti in Raging Bull, Desperately Seeking Susan, To Live and Die in L.A., The Color of Money e poi ha incontrato Spike Lee per il quale ha fatto Do the Right Thing, Mo’ Better Blues e anche il prossimo Jungle Fever. Ha la faccia da matto, gli occhi spiritati, lo sguardo sfuggente, le articolazioni fuori posto. Sembra che la sceneggiatura (per quanto precisa) non precisasse nulla sulla doppia sequenza con Tom che minaccia di sparargli. Quindi sembra che sia una sua invenzione quel fiume inarrestabile di «Have a heart, have a heart, don’t shoot me», che è una delle chicche del film. Quand’anche sia una balla inventata per farsi bello, Turturro è uno che può permetterselo.
Gualtiero De Marinis, Cineforum n. 302, marzo 1991

Critica (2):Un'espressione di lingua inglese ("twist", qui usato nel senso di "sviluppo imprevisto", "svolta sorprendente"), assai cara agli appassionati di narrativa poliziesca, ricorre nei commenti al terzo film di Joel e Ethan Coen. Sono loro stessi a parlarne nelle note di produzione a Miller's Crossing. Dopo un film noir e una madcap comedy l'importante era non ripetersi. Così siamo partiti da un genere in cui volevamo metterci alla prova- il gangster film - e da un'immagine. Gente in impermeabile e cappello nel mezzo della foresta, l'incongruità di gangsters metropolitani in mezzo al verde . Ecco il primo esempio di quel che Marcia Harden, protagonista del film, ha subito battezzato The Coen twist": impadronirsi di un cliché, decontestualizzarlo, sottoporlo a fecondazione artificiale con gli strumenti chirurgici dell'intelligenza, della tecnica, del piacere di spiazzare. Non è poi del tutto vero che i fratelli Coen non abbiano mai incontrato il poliziesco prima di Miller's Crossing; c'è stato, rispetto ai non lontani tempi di Blood Simple (1984) un rapido mutamento di registro (cioè un altro twist: il nome tutelare di allora era James M. Cain, ora è la volta di Dashiell Hammett), ma la deviazione è significativa. "Hammet ha utilizzato il genere", afferma Joel Coen, "per soffermarsi sui personaggi che hanno provocato il plot, piuttosto che sul plot in sé. Le trame di Hammett sono come un grande mosaico che si può relegare sullo sfondo. Forse hanno un senso, ma l'impulso che i personaggi imprimono al racconto è più importante dello sfondo". E su quest'assunto che il trademark Coen ha creduto di imprimere (peraltro con modesti esiti al box office) il proprio marchio di originalità nella produzione commerciale corrente. Assunto ideologico, perchè presuppone un metodo, una "filosofia della composizione" predeterminata, quale che sia il soggetto prescelto. A dispetto di quel che gli sceneggiatori-storyteller si ostinano a tentare con le loro costruzioni narrative fondate sui concetti di struttura, equilibrio, omogeneità tonale, contrappunto, i Coen si dedicano all'arte del racconto centrifugo che trae spunto da un'idea, una sequenza, un'inquadratura (nel caso di Miller's Crossing, un cappello che vola rasoterra nella radura) per mettere in moto intorno a questa le circostanze che il senno di poi è educato a definire una "storia". In Raising Arizona lo spunto concettuale aveva due volti: uno profilmico, l'esistenza di cinque gemelli, l'altro tecnologico, la trasformazione dell'obiettivo grandangolare in personaggio (con tutto quel che ne segue: si ricorderà che l'impiego sistematico del wide angle impediva consapevolmente all'osservatore di stabilire una priorità nel punto di vista, respingendolo alla condizione infantile in cui tutto il visibile è importante ma nessun dettaglio è più importante degli altri). Per Miller's Crossing si è giocato duro, stabilendo come regola del gioco la smentita di ogni regola, la partita a scacchi condotta da un solo giocatore da entrambe le parti della scacchiera.
Tanto di cappello - gioco di parole a parte - alla sistematicità con la quale la regola è applicata a ogni molecola Miller's Crossing: Non è da tutti montare una suspense di dieci minuti su una sequenza di esecuzione sommaria nel bosco facendo credere che la vittima sarà davvero freddata con un colpo alla nuca.
E tanto di cappello a John Turturro, che singhiozza "look into your heart" con una disperazione che stringe la gola. Dettagli di mani, volti, dita che sfiorano il grilletto della pistola; il campo totale sulla radura, con Bernie in ginocchio che chiede pietà; lo sparo amplificato all'inverosimile, come se il microfono fosse stato collocato alla bocca dell'arma da fuoco. Neppure è da tutti costruire una rete di dialoghi così ambigua (Miller's Crossing è di gran lunga il film più "parlato" di Joel e Ethan Coen, e fa il paio - almeno da questo punto di vista - con la verbosità di The Two Jakes) che si rinuncia subito a cercare una verità qualsiasi nelle allusioni incrociate fra Tom, Leo e Verna. Il rischio è grande, ancora più grave che in Blood Simple e Raising Arizona: si cade per un attimo nella trappola, e si crede che i fratelli Coen abbiano restituito allo spettatore il buon vecchio "piacere di fare e vedere cinema"; poi ci si rende conto che il calcolo è evidente, e si corre il rischio di cadere in una trappola speculare: tutto è così "voluto", preparato a tavolino, che sembra di assistere non a un racconto per immagini ma a un'autopsia sul cadavere del cinema "classico" hollywoodiano. Dopo Miller's Crossing una terza spiegazione appare più. plausibile. Troppo razionali per l'ipotesi del cinema fatto con il cuore, troppo intelligenti per non capire che il fascino dell' immagine post-moderna è di breve durata, i Coen potrebbero aver scelto la via dell'analiticità non come mezzo ma come fine: lasciarsi alle spalle la ricerca e l'illusione del "senso in più" (come lo definiva Edorardo Bruno su "Filmcritica" negli anni Settanta), cercare il significato della produzione di immagini nella strategia adottata per organizzare il significato stesso.
Converrà descrivere questa tautologia conun esempio. Albert Finney questa è a casa, forse vuole dormire ma a un certo punto decide di mettere su un disco. Il cambiamento di ritmo rispetto alla sequenza precedente è di quelli che si "sentono": ecco una scena di esecuzione del boss mafioso, con i sicari che fanno fuoco prima che la vittima abbia avuto il tempo di accennare un gesto di difesa (invece no, naturalmente, sarà lui ad avere la meglio. Let's "twist" again). L'episodio, in Miller's Crossin, ha il ritmo lento di un solfeggio, la ripetitività della scena madre inseguita a tutti i costi, l'organizzazione voluta dal regista di talento che dice al pubblico: "adesso vi faccio vedere io". Tutte cose che non vorremmo vedere in una scena d'azione, ma che presentate così, a dispetto di ciò che la nostra esperienza ci ha insegnato a desiderare da una scena d'azione, diventano qualcosa di simile a un'opzione metrica in una poesia apparentemente a versi liberi. Se questa metafora non convince, si provi quest'altra: scegliere a priori la figurazione di un quadro, decidere di dipingerlo con i colori che nessuno vorrebbe vedere in esso ed essere tuttavia capaci di farlo "funzionare" (nel senso più corrivo del termine). La sequenza appena menzionata contiene tutti gli ingredienti sbagliati, compresa la voce di un grammofono che si dislega e si spegne all'inizio del termine della sparatoria quasi un video-clip affidato alle mani di Sergio Leone) e con un gangster che non muore mai, neppure dopo essere stato crivellato da decine di pallottole. Ma tutto "funziona", e forse questo è uno dei momenti migliori di Miller's Crossing: il pittore ha vinto la scommessa, ha completato il quadro con il più improbabile dei colori (a proposito: la fotografia di Miller's Crossin, dovuta a Barry Sonnenfeld, è un torbido impasto di verdi e marroni per il quale la pellicola fuji si è dimostrata assai più duttile dell'inevitabile Kodak). Come ha fatto? Joel e Ethan Coen potrebbero prendere a prestito la celebre risposta di Georges Seurat: "on m'apelle artiste, mais ils se trompent. J'applique ma méthode, c'est tout".
Paolo Cherchi Usai, Segno Cinema n. 48 marzo aprile 1991

Critica (3):

Critica (4):
Ethan Coen
(Progetto editoriale a cura di); (Progetto editoriale a cura di) Redazione Internet; Redazione Internet (Contenuti a cura di); (Contenuti a cura di) Ufficio Cinema; Ufficio Cinema
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