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Racconto di Canterbury (Un) - Canterbury Tale (A)


Regia:Powell Michael, Pressburger Emeric

Cast e credits:
Soggetto e sceneggiatura: Michael Powell, Emeric Pressburger; fotografia: Erwin Hillier; musica: Allan Gray; scenografia: Alfred Junge; montaggio: John Seabourne; interpreti: Eric Portman (Thomas Colpeper), Sheila Sim (Allison Smith), Sergente John Sweet (Bob Johnson), Dennis Price (Peter Gibbs), Esmond Knight (il narratore/il soldato/lo scemo del villaggio), Charles Hawtrey (Thomas Duckett), Hay Petrie (Woodcock), George Merrit (Neg Horton), Edward Rigby (Jim Horton), Freda Jackson (Prudente Honeywood), Betty Jardine (Fee Baker), Eliot Makeham (l’organista), Harvey Golden (sergente Rockinsky), Leonard Smith (Leslie), James Tamsitt (Terry), David Todd (David); produzione: Michael Powell, Emeric Pressburger per The Archers; origine: Gran Bretagna, 1944; durata: 124’ (versione americana: 95’).

Trama:Sulla strada per Canterbury, si incontrano un soldato americano in licenza, un sergente inglese che da civile fa il pianista in un cinema e una giovane commessa di un grande magazzino che si è arruolata nella difesa civile. Di notte, nel villaggio, un uomo misterioso, indossando un pastrano militare americano, getta colla sui capelli delle ragazze che incontra... I tre che vogliono seguire la tradizione del pellegrinaggio alla cattedrale di Canterbury, riusciranno a scoprire l’identità dell’assalitore...

Critica (1):Una voce fuori campo legge dai Racconti di Canterbury mentre la macchina da presa esegue una panoramica su di una mappa dell’antica Via dei pellegrini fino alla città, poi subentra l’azione dal vivo quando dei falconieri medioevali appaiono nella foresta. Un falcone si libra nell’aria e, in un’inquadratura che prefigura il passaggio dall’osso all’astronave in Kubrick mentre la voce fuori campo si chiede che cosa gli storici pellegrini vedrebbero oggi, il falcone si trasforma in uno Spitfire in volo di addestramento sulla campagna del Kent e noi abbiamo fatto un salto di seicento anni fino al 1944. L’Inghilterra è in guerra, e Powell-Pressburger apparentemente si propongono di dare una visione indiretta del “perché noi combattiamo”. Ma allo stesso tempo sembrano voler liquidare la guerra come una circostanza che ha un valore soltanto temporaneo, per guardare invece alle altrettanto durevoli ma infinitamente più positive componenti della condizione umana, come l’amore, la speranza e i miracoli.
Letteralmente la trama è costituita dalla caccia all’uomo della colla. Ma, giacché Powell-Pressburger dicono agli spettatori (visivamente) che Eric Portman deve essere il colpevole già nella prima scena, non vi è in realtà alcuna suspence. E le scene che documentano in dettaglio l’indagine del trio riguardano non tanto l’indagine in sé quanto piuttosto i rapporti tra di loro, i loro amori apparentemente perduti (umani e spirituali), la campagna e i sentimenti mistici e magici che aleggiano nell’aria. Quindi non proprio una trama, quanto una spina dorsale narrativa sulla quale possono essere innestate altre idee, così che guardare il film diventi, per il pubblico, una specie di pellegrinaggio. Perché proprio mentre la storia sembra andare in una direzione (all’inseguimento dell’uomo della colla), l’attenzione si sposta in modo piuttosto sciolto, dando al film un ritmo unico e ipnotico. L’americano, Bob Johnson, ad esempio, si mette a conversare a proposito del legno con un vecchio fabbricante di ruote da carro dall’aria da cherubino, e si rendono conto che le loro conoscenze e il modo di utilizzarle sono identiche (un pegno di amicizia); Alison chiacchiera con la sua nuova datrice di lavoro a proposito di Londra, dei tormenti della vita quotidiana laggiù, dell’uniformità monotona delle case addossate l’una all’altra. «L’unico uomo che mi ha chiesto di sposarlo voleva che andassimo a vivere in una casa come quelle» dice l’altra donna, e in una sola battuta viene mirabilmente cristallizzata tutta la sua vita. Queste sono esattamente le scene non narrative così rare nei film anglo/americani ma che sono infinitamente umane e rivelatrici, e stabiliscono una sorta di “realismo” che è estremamente più reale del naturalismo. Senza dubbio, però, l’apparente confusione e complessità del film sono una ragione per la quale fu, a suo tempo, un flop.
Prendiamo proprio la prima sequenza: quale altro film ha mai introdotte tre dei suoi quattro personaggi principali in una lunga scena di oscuramento, di modo che è impossibile vederli chiaramente, tranne che per brevi istanti alla luce di una torcia? Il dialogo che segue (che stabilisce chi sono i personaggi, ma anche uno dei temi ricorrenti, la confusione dell’americano riguardo alla vita inglese, alla lingua e agli atteggiamenti) è reso doppiamente confuso per la nostra incapacità di vedere chiaramente chi sta parlando. Paradossalmente (o no) il film è veramente sul “vedere”: vedere oltre le apparenze di superficie fino all’essenza delle cose. Così Colpeper getta la colla addosso ad Alison perché è fuori con due soldati, ma è allo stesso tempo imbarazzato e affascinato quando scopre che sotto molti aspetti è una specie di sorella spirituale che pure ama la campagna, anche se non per le sue stesse ragioni. Ella ha trascorso una vacanza idilliaca in un caravan con il suo fidanzato, un archeologo, sulla stessa collina che Colpeper ama visitare per comunicare con il passato; e quei due amanti erano le persone che là avevano trovato le vecchie monete che Portman era desideroso di studiare.
Un’altra importante sequenza, la lezione con le diapositive, si svolge anch’essa nella semioscurità, illuminata solo dalla luce del proiettore. Questa è la prima chiara elaborazione del particolare misticismo del film (qui fondamentalmente quello della chiesa cristiana, ovviamente, in contrasto con Black Narcissus e I Know where I’m Going: qualunque sia il contesto, questa spiritualità era all’epoca una preoccupazione fondamentale per Powell-Pressburger). Colpeper, che è inquadrato in semi-silhouette contro il cerchio di luce dello schermo dietro di lui, parla dei suoi sentimenti di affinità con i primi pellegrini che visitavano Canterbury per «chiedere una benedizione o una solida penitenza!». I suoi ascoltatori, incluso il nostro trio di investigatori, è rapito, e Colpeper – uomo della colla o no – emerge chiaramente come elemento centrale del film. Alternativamente, il cerchio di luce prefigura l’effetto alone che colpisce Peter Gibbs quando, dopo che Colpeper ha ammesso di essere l’uomo della colla e spiegato i suoi motivi, sbuca fuori da un tunnel il treno per Canterbury e il film stacca immediatamente su un’inquadratura delle guglie della cattedrale. «Alla vostra età non credevo a niente», dice Colpeper, «Adesso credo nei miracoli». Peter, il cinico, ha un atteggiamento beffardo; «Forse siete uno strumento», mormora Colpeper; «Ci crederò quando avrò un’aureola attorno alla testa», ribatte ancora beffardamente Peter, determinato a consegnare alla legge l’uomo della colla – e alloro ecco!, l’effetto aureola (cosa della quale, ovviamente, Peter è del tutto ignaro). E infatti, avendo inaspettatamente l’opportunità di suonare l’organo della cattedrale e riscoprendo i sentimenti che lo avevano condotto alla musica classica (si noti bene, interamente non-religiosa), egli porta così a compimento la “penitenza” di Colpeper non rivelando le sue attività.
Flussi di luce irrompono anche nel derelitto caravan parcheggiato in una Canterbury devastata dalla guerra. Quando Alison abbassa gioiosamente le tendine divorate dalle tarme alla notizia che il suo amante morto è in realtà vivo, rendendo la scena non solo spirituale (una metafora della sua “benedizione”), ma anche straordinariamente sensuale, con la sua implicazione che il caravan sarà nuovamente un luogo di estasi. Il modo in cui Powell usa la luce in queste circostanze ricorda quello di Murnau; e mentre non vi sono stretti legami stilistici tra i due registi, si può dire che i tentativi di Powell di creare un cinema “puro” facciano di lui uno dei pochi veri eredi della tradizione di Murnau. La scena con Alison e Bob Johnson che parlano ciascuno del proprio amore perduto, ha la dolorosa bellezza emotiva che segna molte delle grandi scene di Murnau. E l’uso che fa Powell della macchina a seguire, dei movimenti di gru per introdurre Colpeper, solo nel municipio dietro la sua scrivania, è una meravigliosa personificazione visiva del concetto di “giudice”, suggerendo tutta l’irrazionalità, l’arroganza e (tipicamente) la solitudine che tale parola implica.
Da questa prima inquadratura di Colpeper alla scena sul treno dove le sue ragioni sono finalmente spiegate, l’immagine che il film dà di lui viene modificata lentamente per permetterne la comprensione e anche una certa pietà. Questo misogino (uno scapolo che vive solo con la madre, completamente preso da se stesso e pedante) vede cambiare le sue idee (sbagliate) dopo avere conosciuto Alison. “Non avete pensato di invitare le ragazze alle vostre lezioni?” gli chiede lei. “No”: “Peccato” si limita a rispondere lei, ma nel silenzio di lui c’e la straordinaria sensazione che lui sappia che lei ha ragione, e che lui abbia davvero imparato molto. Ed è assolutamente azzeccato il fatto che Peter Gibbs, il suo più fervente avversario, debba essere lo strumento attraverso il quale egli ottiene la sua penitenza (dall’Oxford English Dictionary: “ sacramento che comprende la contrizione, la confessione, la riparazione e l’assoluzione” – e tutto questo è intrecciato meticolosamente nella rete di complicità di Powell-Pressburger). Ma c’è un’altra dimensione nel personaggio di Colpeper. Come suggerisce John Russel Taylor (Sight and Sound, autunno 1978), egli è «una dispettosa e imprevedibile forza della nature, uno degli dei oscuri… che operano allo stesso tempo per disorientare e nel lungo periodo per ridare orientamento alla gente, distruggendo per poi creare». Da qui la riparazione contenuta nella penitenza.
Chris Wicking, Montly Film Bulletin n. 126 (traduzione Angela Cervi)

Critica (2):[…] Il film comincia citando “I Canterbury Tales” di Chaucer, con una mappa che mostra la Via dei Pellegrini, e una breve sequenza con un gruppo di falconieri medioevali. Poi fa un balzo in avanti fino al presente, la guerra. Spitfires invece di uccelli rapaci nei cieli d’Inghilterra, e la voce narrante che si chiede se c’è un legame tra l’Inghilterra di allora e quella di adesso. Il film diventa un modo per esplorare questa connessione, un’unità più spirituale che storica, le caratteristiche mistiche del luogo e del paesaggio, il che di fatto rende A Canterbury Tale quasi unico come rappresentazione cinematografica dell’Inghilterra (vicino, forse, ad alcune rapsodie dei luoghi di John Fowles in La donna del tenente francese).
[...] L’altro aspetto notevole di A Canterbury Tale è il fatto che, malgrado il suo contesto immediato sia la guerra – ed è un contesto che sta dietro la necessità di ricercare lo spirito dell’Inghilterra – non c’è molto che abbia un rapporto diretto con la guerra. È una circostanza casuale che mette insieme il gruppo di pellegrini contemporanei di Powell e Pressburger: un soldato inglese (Tennis Price) che sta tornando al suo accampamento; un soldato semplice americano (John Sweet) diretto a Canterbury; e una commessa di Londra che sta per iniziare una nuova esperienza di lavoro in una fattoria. È anche una circostanza della guerra – l’oscuramento – che li fa scendere insieme dal treno nella stazione di un piccolo villaggio per poi essere coinvolti nelle imprese della più misteriosa apparizione locale – un fantasma delle strade notturne conosciuto come l’Uomo della Colla, a causa della sua abitudine di versare colla nei capelli delle ragazze che fraternizzano con i soldati.
Ma qui la guerra comincia e finisce. Il resto del film segue i destini dei tre moderni pellegrini, ciascuno dei quali è in lutto per qualcosa che pensa di avere perduto: innamorati nel caso della ragazza e del soldato americano, una vocazione nel caso del soldato inglese. Il disturbo provocato dall’Uomo della colla nella comunità, e gli sforzi di tutti per smascherarlo, legano genericamente insieme queste storie e conferiscono al film un’aria quasi misteriosa. Ma diventa presto chiaro che l’uomo della colla non è tanto un malvagio psicotico quanto un’altra manifestazione dello spirito di unità, di quel genere di completezza che gli altri tre, a loro modo, stanno cercando. Il motivo per il quale versa la colla si rivela essere non antiamericanismo o paranoia sessuale, ma una passione disinteressata (anche se espressa in modo singolare) per la storia locale. La sua perversità fu certamente colta – e certamente suscitò preoccupazione – nei critici dell’epoca, lasciando già intuire i problemi che si sarebbero manifestati con Peeping Tom. Ma è anche una delle caratteristiche determinanti del cinema di Powell e Pressburger – della strana, zigzagante, irrazionale e improbabile strada che essi prendono per raggiungere il punto vitale dei sentimenti della nazione – che la luce guida del loro Canterbury Tale sia l’Uomo della colla.
Richard Combs, Powell’s Heartland, in The Listener, 3/10/1985

Critica (3):[…] Ai critici non piacque la faccenda dell’uomo della colla; ne furono piuttosto sconvolti. Pensavano che ci fosse di mezzo qualcosa di perverso e orribile («Abbiamo sempre avuto sospetti del genere su Powell»); avevano sentito dire che ci sono persone alle quali piace buttare la marmellata addosso alle ragazze svestite, e pensavano che fosse un’idea di questo genere. Ricordo che anche l’allusione al fatto che la ragazza abbia trascorso le vacanze nella roulotte con il suo fidanzato scandalizzò qualcuno («Dobbiamo arguire che Mr. Powell e Mr. Pressburger sono avvocati del libero amore?»). Non potevano credere che una cosa del genere fosse stata veramente detta in un film. Pensai che non dovevano essersi guardati molto intorno. Emeric aveva perso la testa per la storia, che è di gran lunga troppo complicata; Agatha Christie non avrebbe potuto fare di meglio. Io gli dissi: «Emeric, non importa; ci metterò dentro tutta la mia roba di atmosfera e di pellegrinaggio a Canterbury; per cui, non stare a preoccuparti di elaborare tutta la storia». Fu un fallimento e, praticamente, non è stato visto fino a poco tempo fa. Oggi, mi sembra che sia uno splendido film; ma mi ha sempre emozionato, come tutte le cose che conosco molto bene. Sono nato e cresciuto a Canterbury e nel film c’è molto della mia adolescenza. E naturalmente, mi piace molto la sensazione vagamente mistica che si percepisce; chiunque sia vissuto vicino alle vecchie pietre di Canterbury deve provare questa sensazione. C’è un particolare divertente: il film si apre con un carrello zigzagante tra le campane del campanile, una ripresa molto bella e complicata, che finisce con uno sguardo verso la zona a oriente di Canterbury. Alfred Junge era entusiasta di questo inizio con le campane e aveva già studiato tutta la scena; un giorno gli chiesi come l’avremmo realizzata. Mi rispose: «Costruirò le campane di papiermaché, in scala uno a otto, e funzioneranno come campane vere». Circa una settimana prima della realizzazione della scena, arrivò da me tutto sorridente e mi disse: «Sai cosa ho trovato, Mickey? Ho tutta la squadra dei campanari di Canterbury per suonare le campane». Vennero tutti per un giorno. Facemmo in studio tutte le riprese dentro la cattedrale, perché non potevamo girare in quella vera. […]
Pierrette Gonzalez, Claude Guiguet “Bio-biblio-filmographie de Michael Powell”, Positiff n. 241 aprile 1981 in Powell&Pressburger, BergamoFilmMeeting, 1986

Critica (4):
Michael Powell Emeric Pressburger
(Progetto editoriale a cura di); (Progetto editoriale a cura di) Redazione Internet; Redazione Internet (Contenuti a cura di); (Contenuti a cura di) Ufficio Cinema; Ufficio Cinema
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