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Nemmeno il destino


Regia:Gaglianone Daniele

Cast e credits:
Soggetto
: liberamente tratto dal romanzo omonimo di Gianfranco Bettin; sceneggiatura: Giaime Alone, Daniele Gaglianone, Alessandro Scippa; fotografia: Gherardo Gossi; musiche: Giuseppe Napoli; montaggio: Luca Gasparini; scenografia: Valentina Ferroni; costumi: Marina Roberti; interpreti: Mauro Cordella (Alessandro Stellin), Fabrizio Nicastro (Ferdi Castronovo), Giuseppe Sanna (Toni), Lalli (Adele Stellin), Gino Lana (Sebastiano Castronovo), Stefano Cassetti (Lorenzo); produzione: Domenico Procacci, Gianluca Arcopinto e Pierpaolo Trezzini per Fandango, Armadillo Cinematografica; distribuzione: Fandango; origine: Italia, 2003; durata: 110'.

Trama:Alessandro, quindici anni, conduce un’esistenza inquieta: vive con la madre malata, non ha mai conosciuto suo padre, a scuola va male. Ha pochi amici, Toni e Ferdi, con i quali passa il tempo a girare per le strade della periferia. Anche gli amici sono segnati da un triste destino: Toni sparisce nel nulla, Ferdi si suicida in modo spettacolare gettandosi con il motorino dall’ultimo piano di un palazzo in costruzione. Quando Adele, la madre di Alessandro, dà sempre più segni di squilibrio, lui si ritrova solo con la sua rabbia. In un gesto folle, brucia la casa dove avevano vissuto due amici di famiglia prima di essere sfrattati. Lo attende il riformatorio...

Critica (1):“Le giornate degli autori”, che si svolgono parallele (e antagoniste) a quelle della Mostra, che hanno trovato nello spazio della «Villa degli autori» un luogo alternativo di reale incontro e scambio fra registi, pubblico e critica (cosa che non si può dire dell’ufficialità asettica e ingenerosa delle conferenze stampa), hanno presentato, accreditandosene il merito, il secondo lungometraggio dì Daniele Gaglianone. Nemmeno il destino arriva a quattro anni di distanza dal precedente e bellissimo I nostri anni. Si ispira, nell’adattamento di Giaime Alonge e Alessandro Scippa, all’omonimo e intenso romanzo di Gianfranco Bettin.
La storia si raccoglie su tre ragazzi, le loro sfasciate famiglie, l’ambiente scolastico, le giocate al fiume, le morti e sparizioni. Alessandro, il vero protagonista, vive solo con la madre Adele, la quale soffre per traumi e disturbi psicologici. Il padre mantiene figlio e madre mandando a distanza dei soldi. Alessandro trova nel bidello della scuola e nella moglie, cui è morto il figlio, le figure genitoriali che la sua famiglia non gli ha dato. Ferdi, invece, vive con il padre, un ex operaio alcolizzato e abbandonato al suo destino dalla moglie. Di Toni, si sa meno, perché scompare presto sulla linea dell’orizzonte. Tutti e tre, all’inizio, si danno appuntamento al fiume, l’ultimo avamposto della città, che lì deposita i suoi resti e rifiuti, e inizio della natura, o di quel che di essa la città concede. Il loro rifugio. Nemmeno il destino abita nella tragedia (cosa rarissima per il cinema italiano). Siamo in un «dopo-mondo», che è il nostro mondo, dove i più deboli tendono a scomparire, e i «sopravvissuti», per sorte e non per forza, sono costretti a imparare a resistere. Ecco, questo mondo non può che essere rappresentato in modo allucinato. L’allucinazione è anche una forma di incredulità: vedo eppure non ci credo, è reale eppure non ci voglio credere. Gaglianone ci forza a questa incredulità. Ci sono più intelligenza, talento, coraggio, sperimentazione in cinque minuti di Nemmeno il destino che in tutta Valia Santella, Mazzacurati e anche Placido. La differenza sta in come e di cosa si parla.
Alberto Crespi, L’Unità, 10/9/2004

Critica (2):Fra gli ideali dei nonni ricordati ne I nostri anni e i disagi dei nipoti di questo Nemmeno il destino Gaglianone mostra anche la disfatta di vita della generazione del boom, vissuta in una Torino operaia tutta fabbrica, dovere e sacrifici, per finire malati e reietti, quasi larve umane.
È quel narrare una vita dura, sfibrante, meschina che s’affaccia anche nel nostro cinema troppo dedito al buonismo. Apprezziamo il coraggio del regista, torinese d’adozione, che s’infila senza fronzoli nella realtà di soggetti borderline. Lo fa con l’aiuto del libro di Gianfranco Bettin, che per impegno politico è un esperto di vite difficili (il film ne riprende il titolo, quello d’una canzone lanciata da Mina). Nel racconto c’è il piglio della denuncia propria di contemporanei maestri del cinema sociale: Ken Loach o i fratelli Dardenne. C’è lirismo ammantato da un’incommensurabile vena di tristezza che avvolge i protagonisti, piegati dal fato ma non vinti. E anche se qualcuno cade, non per tutti il destino riesce a essere così cinico e baro.
Gaglianone usa la pellicola in maniera essenziale, lo stesso fa coi dialoghi dei ragazzi; parlano ampiamente i silenzi, gli sguardi, i paesaggi, le dissolvenze e le buone note che l’accompagnano. Parla una ricerca di colori e di luci nordici, alla maniera di Kaurismaki.
L’essenza del film sta nell’affermazione del regista stesso che ricorda come il lavoro sia dedicato a “quelli che non ci stanno, che pensano che ci debba essere un altrove da conquistare. È una rabbiosa elegia, un pianto gridato, un urlo silenzioso e muto come i fantasmi del passato e i mostri del presente”.
Enrico Campofreda, www.Lankelot.com, settembre 2004

Critica (3):

Critica (4):
Daniele Gaglianone
(Progetto editoriale a cura di); (Progetto editoriale a cura di) Redazione Internet; Redazione Internet (Contenuti a cura di); (Contenuti a cura di) Ufficio Cinema; Ufficio Cinema
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