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Strada dei Samouni (La)


Regia:Savona Stefano

Cast e credits:
Sceneggiatura: Stefano Savona, Léa Mysius, Penelope Bortoluzzi; fotografia: Stefano Savona; musiche: Giulia Tagliavia; montaggio: Luc Forveille; suono: Jean Mallet, Margot Testemale; produzione: Picofilms, Dugong Films con Rai Cinema, Alter Ego Production, in coproduzione con Arte France Cinéma, Arte France Unité Société et Culture; distribuzione: Cineteca di Bologna; origine: Italia, 2018; durata: 128’.

Trama:Nella periferia rurale di Gaza City una piccola comunità di contadini, la famiglia Samouni, si appresta a celebrare un matrimonio, la prima festa dopo la fine della guerra. Amal, Fouad, i loro fratelli e cugini hanno perso i loro parenti, le loro case. Il quartiere adesso è in fase di ricostruzione, si piantano gli ulivi e si lavora ai campi distrutti dai bombardamenti ma il compito più difficile è un altro: ricostruire le loro memorie. Alternando sequenze di documentario e di animazione, seguendo il filo dei ricordi, Samouni Road racconta un ritratto di famiglia prima, dopo e durante i tragici avvenimenti che hanno cambiato per sempre le loro vite.

Critica (1):"Nel Gennaio 2009, durante l'operazione militare israeliana a Gaza sono riuscito a infiltrarmi nella Striscia attraverso la frontiera egiziana, per realizzare un diario filmato di quei giorni di guerra che poi è diventato il mio film Piombo fuso. Il 20 gennaio, in seguito alla ritirata dell'esercito israeliano, ho potuto raggiungere il nord della Striscia e la città di Gaza dove sono entrato in contatto con la famiglia allargata dei Samouni, una comunità di contadini, sino ad allora sopravvissuta miracolosamente a 60 anni di conflitti e occupazioni, che si confrontava per la prima volta con una tragedia senza precedenti. Ventinove dei suoi membri, donne e bambini per la maggior parte, erano stati uccisi da un’unità d'élite dell’esercito israeliano; inoltre le loro case e i loro campi erano stati completamente distrutti. Avvenimenti drammatici che sono stati in seguito l'oggetto di un’inchiesta dell'ONU, il rapporto Goldstone, e di una commissione d'inchiesta dell’esercito israeliano che ha riconosciuto l'errore militare.
Ho iniziato a filmare i Samouni immediatamente, nel gennaio 2009. Ma sin dall'inizio non ho avuto alcun dubbio: il mio film non si poteva ridurre al mero rendiconto del massacro, al compianto sulla tragedia o alla denuncia di un’ingiustizia. Le televisioni e i giornali del mondo intero in quei giorni dopo la fine della guerra stavano già offrendo al mondo in ogni più macabro dettaglio il racconto di quella tragedia, mentre i principali partiti politici di Gaza, da Hamas alla Jihad Islamica, provavano in tutti i modi ad appropriarsi di quei lutti per la loro propaganda. Ma una volta che le televisioni sono andate via e i funerali terminati, i Samouni sono restati soli. Iniziava per loro la fatica più ardua: ricomporre le ferite fisiche ed emozionali tra le rovine delle loro case, in un territorio dove i confini sono ermeticamente sigillati.
In quel momento continuando a filmare la famiglia, con la quale ero diventato nel frattempo sempre più intimo, ho cominciato a chiedermi come in queste condizioni estreme potessi raccontare al meglio quella storia, attraverso quale percorso narrativo avrei potuto affrancarmi dai cliché mediatici e politici sulla Palestina, frutto di sessant'anni di semplificazioni progressive. Come andare oltre il grido di disperazione dei sopravvissuti e all'esposizione 'iconica' della tragedia e del corpo dei martiri? Cliché applicati a Gaza dalla retorica politica e religiosa dominante, che continua a rappresentare i Palestinesi come un tutto indistinto, una folla opaca e piangente di fantasmi, vittime o sopravvissuti, che null'altro hanno da offrire alla Storia se non il proprio martirio o quello dei loro cari e che, così facendo, anche nella vita restano prigionieri della morte; la tragedia di un popolo che non raggiungerà mai l'eloquenza narrativa che solamente l’imprevedibile varietà, le contraddizioni, le peripezie delle vite individuali possono avere.
Sin da queste prime riprese, la risposta a questi miei interrogativi è venuta dagli stessi Samouni, e specialmente dai giovani protagonisti che ho iniziato a seguire giorno per giorno.
Le loro parole e i loro ricordi hanno iniziato lentamente a ricostruire il ritratto di un'antica comunità contadina indipendente e composita, da cui emergevano le diverse personalità dei vivi e dei morti. Evocare il tessuto socio-economico del quartiere, parlare delle relazioni interne alla famiglia allargata, evidenziare le affinità e le divergenze di opinioni dei suoi componenti, diventava immediatamente, per me come per i protagonisti del film, un modo per destrutturare quel processo di uniformazione, di negazione delle specificità individuali inaugurato dai missili israeliani e dalla propaganda di Hamas e amplificato dai media internazionali: il racconto dei Samouni esclusivamente come vittime o sopravvissuti. La loro storia collettiva era ricca e complessa, piena di contraddizioni interne, di corti circuiti e di svolte inaspettate. Dovevamo quindi raccontare le loro straordinarie esperienze umane molto al di là degli avvenimenti drammatici di 2009.
Da allora, mi sono dato il tempo di ricostruire la storia dei Samouni da più lontano possibile. Volevo rendere giustizia alla singolarità di queste donne e questi uomini, alla loro saga familiare, al loro desiderio di indipendenza e alla loro tenacia.
Quando sono tornato a Gaza nel 2010, appena un anno dopo il passaggio dei bulldozer dell'esercito israeliano, i Samouni erano già riusciti a recuperare una parte dei loro campi, a trasformare una distesa di macerie e di terra rossa in un quartiere fertile e verdeggiante.
Malgrado le immense difficoltà pratiche, esasperate da un embargo asfissiante, i Samouni erano per la maggior parte sopravvissuti allo shock esistenziale provocato dalla tragedia e alle sue pesanti ricadute ideologiche.
Non ho percepito un’uniformazione ma delle risposte ai drammi assolutamente personali, reazioni differenti al dolore, tentativi coraggiosi di mantenere il pensiero e le parole lontani dalla necrofilia jihadista che doppia dall'interno l’assedio militare israeliano e contribuisce alla paralisi della società a Gaza.
Nel frattempo i partiti politici, e specialmente la Jihad islamica, si muovevano attorno ai Samouni nel tentativo, per lo più mancato, di sfruttare la loro aura di "martiri". Nell'ostinato tentativo di salvaguardare la propria indipendenza e svincolarsi da logiche di assistenzialismo la maggior parte dei membri della famiglia aveva persino rifiutato la tessera di rifugiati dell'ONU, che avrebbe garantito loro razioni alimentari e aiuti economici.
Avevo davanti a me delle persone che provavano a ribellarsi al "simbolo" che erano diventati, persone che si accanivano nei dibattiti, che s'infervoravano per la politica, per le loro scelte di vita o semplicemente per come piantare una lattuga; personalità diverse in nessun caso riducibili a un ritratto univoco. I Samouni sono lo specchio vivente di una società complessa che merita di essere raccontata.
Il film segue prevalentemente i giovani Samouni, bambini, adolescenti o giovani sposi, e i loro cari. Questi giovani protagonisti vivono in costante dialogo con il passato, un grande aiuto per tener testa alle sfide della vita attuale: un dialogo con il passato restituito nel film dalla relazione tra immagini documentarie e sequenze animate. (…)
Le animazioni ricostruiscono i ricordi di questa vita antecedente l'attacco, di tutto ciò che è stato distrutto, il quartiere, le sue case e i suoi frutteti, mentre riportano alla vita i membri carismatici della famiglia morti durante il massacro.
L'universo visivo e la tecnica del graffio su carta di Simone Massi, direttore artistico delle animazioni del film, riesce a coniugare un impressionante realismo con un'elevata capacità di resa del mondo metamorfico della memoria e del sogno.
Ciascun disegno sembra faticosamente emergere dall'oscurità, prender vita su una lavagna immaginaria. Ciascun disegno è un'opera unica, frutto di ore di lavoro, ciascun minuto il risultato di settimane di impegno e per questo, alla fine, ha qualche cosa di imprevedibile, esattamente come un ricordo che riaffiora. Quanto di più prezioso. (…)
dalle Note di regia, in filmtv.it

Critica (2):

Critica (3):

Critica (4):
(Progetto editoriale a cura di); (Progetto editoriale a cura di) Redazione Internet; Redazione Internet (Contenuti a cura di); (Contenuti a cura di) Ufficio Cinema; Ufficio Cinema
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