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Estasi di un delitto - Ensayo de un crimen


Regia:Buñuel Luis

Cast e credits:
Soggetto: dal romanzo omonimo di Rodolfo Usigli; sceneggiatura: Luis Buñuel, Eduardo Ugarte Pagés; fotografia: Agustin Jimenez; musiche: José Perez; montaggio: Jorge Bustos, Pablo Gomez; scenografia: Jesus Bracho; interpreti: Rodolfo Landa (Alejandro), Miroslava Stern (Lavinia), Rita Macedo (Patricia), Ariadna Welter (Carlota), Ernesto Alonso (Archibaldo), Andrea Palma (Signora Cervantes); produzione: Alfonso Patino Gomez, per Alianza Cin.(Messico); distribuzione: Cineteca dell'Aquila; origine: Messico, 1955; durata: 91'.
Vietato: 14

Trama:Da ragazzo Alejandro vide morire - atterrito ed affascinato insieme - la propria governante, mentre un carillon suonava. La convinzione d'essere stato il responsabile di quella morte, ed il ricordo del contemporaneo suono del carillon, ch'egli credeva dotato di malefico potere, crearono in lui una cronica ossessione omicida, pronta a ripetersi ogni volta che Alejandro, ormai adulto, ode o ricorda quella musica. In verità, i suoi crimini sono soltanto immaginari poichè, ogni volta, una circostanza accidentale od un'altra persona prevengono la realizzazione dell'omicidio, intensamente pregustato. Cosi' accade per una suora, precipitata nel vano dell'ascensore; cosi' per una fatua conoscente, suicida o uccisa dal mal rassegnato consorte. Cosi' infine, per la fanciulla che Alejandro sposa, freddata dall'amante prima ch'egli, informato all'ultimo momento della tresca, possa attuare la meditata vendetta. Tentato invano di convincere il giudice d'essere lui, in sostanza, il responsabile di quelle morti, Alejandro si libera dall'ossessione disfacendosi del carillon. Potrà quindi tornare, finalmente guarito, alla compagnia dell'unica ragazza sopravvissuta alla vocazione omicida del protagonista.

Critica (1):Il protagonista del romanzo Ensayo de un crimen di Rodolfo Usigli si chiamava Roberto de la Cruz: cambiando il suo nome nel più barocco Archibaldo, Buñuel sembra condensare l'operazione che pratica sul libro, a cui nei titoli del film dovrà dichiarare di essersi solamente "ispirato". Il personaggio creato da Usigli voleva semplicemente compiere un delitto gratuito, da esteta del crimine, e dopo due fallimenti riusciva infatti a uccidere: ma sbagliava persona e invece della vittima designata ammazzava sua moglie. Ad aggiungere all'errore la beffa veniva poi condannato per delitto passionale, vedendo vanificarsi tutte le sue aspirazioni di purezza criminale, e chiuso in un manicomio. Scritto linearmente in terza persona, il romanzo non comportava né racconti interni né flashback, a differenza del film che ne ricava Bufluel il quale sembra dunque seguire un principio stabile nei suoi adattamenti di opere letterarie: semplificare i testi complessi e complicare quelli più semplici.
Ma il confronto col romanzo riserva anche qualche sorpresa: l'idea della scatola-carillon, apparentemente così buflueliana (da Un chien andalou a Bella di giorno fino a Quell'oscuro oggetto del desiderio le scatolette misteriose attraversano il suo cinema) era già lì, anche se il suo correlato, il manichino, è un'invenzione originale. Inoltre il libro di Usigli, con la sua ricercatezza estetizzante assai poco consona al cinema di Buñuel, voleva essere più un ritratto critico della ricca borghesia che un'analisi psico-entomologica di un personaggio.
Certo Buñuel, come sempre, non si sottrae all'osservazione e alla critica sociale: del suo protagonista dà subito, attraverso le sue stesse parole narranti, un ritratto molto definito: figlio unico, di ricca famiglia di provincia, con governante al suo servizio. Ma anche "viziato, antipatico", morbosamente legato alla madre e con strani gusti di travestitismo. Diventerà comunque un così tipico esponente della sua classe che Lavinia lo mostra, nella sua antica dimora, ai turisti americani come un monumento locale, anche se l'episodio serve, come in già in Subida al cielo e La ilusión viaja en tranvia, alla presa in giro dei gringos e della loro sciocca invadenza: non sanno, i poverini, che quella non è una casa messicana, è il castello di Silling del marchese de Sade. E a proposito di tipicità di classi e ideologie è da ricordare anche quel trio di autorità al ricevimento di nozze, l'ufficiale, il commissario e il prete (un "padre Alonzo" che è dunque lo stesso di El, con lo stesso attore) che nella loro conversazione esprimono grottescamente tutte le passioni del conservatorismo bigotto: il gusto per la pompa religiosa, l'emozione di una sfilata militare, di un battesimo e in mancanza di meglio "persino di una prima comunione".
Ma tutti i personaggi secondari sono caratterizzazioni critiche riuscitissime: il geloso padre-fidanzato di Lavinia; la severa madre di Carlota, in realtà sua complice e mezzana; la ragazza stessa, sempre in ginocchio davanti alla Madonna ma amante di un uomo sposato. Il quale forse ne è davvero innamorato, ma in una ambiguità e clandestinità che non gli fanno onore. D'altra parte anche lui è un architetto. E anche l'anziano accompagnatore di Patricia, che detesta la sua volgarità ma non riesce a non amarla, pare un ironico sottoprodotto dell'amour fou. Tutti personaggi, come si vede, caratterizzati da ambivalenze, non "tipi" ma piccoli casi clinici quotidiani.
Ma a Buñuel, evidentemente, interessa soprattutto il protagonista, un altro dei suoi grandi eroi, così simile a quello di Él nella sua criminalità inespressa, nella sua impotenza, nel suo essere votato alla frustrazione continua. Praticamente ogni sua azione termina con un fallimento, ogni sequenza del film si chiude con un atto mancato. E tuttavia ogni volta un delitto si compie e i desideri di Archibaldo si avverano. Sia Buñuel che Archibaldo sanno benissimo quello che direttori d'ospedale e giudici non vogliono vedere e capire, che queste morti non sono affatto casuali. Il signor de la Cruz vuole davvero uccidere e ogni volta raggiunge il suo risultato. Ma è un serial killer dalle mani pulite, che uccide per interposto
assassino: qualcun altro, magari la "fatalità", si incarica sempre di compiere il delitto per lui, che avendo sempre avuto camerieri e maggiordomi è abituato a essere servito in tutto. Oppure egli uccide e infierisce personalmente sulla sua vittima, ma attraverso un doppio che formalmente lo scagiona, come nella celebre scena del manichino.
I suoi sono insomma ensayos di crimini, e cioè saggi, prove, anche nel senso teatrale del termine. Sostituzioni, simulazioni di delitti. Egli è un artista e un regista. Meticoloso come ogni dilettante evoluto. Un paranoico verso se stesso e dunque un poeta. Per ogni delitto che intende compiere prepara accuratamente il set, controlla l'ambiente, prevede i movimenti della vittima, predispone gli strumenti, un rasoio, un asciugamano, un forno. La messinscena del delitto è già il delitto, è la sua prefigurazione criminale. Se poi la realtà prenderà una diversa piega sarà un mero accidente esterno.
Il suo più perfetto delitto immaginario è l'uccisione del manichino, che banalmente potrebbe sembrare solo un disfarsi di un oggetto che non gli serve più. Ma egli lo ha cercato, lo ha visto in vetrina, lo ha acquistato, gli ha comprato reggiseno e mutande di pizzo, lo ha toccato, accarezzato, corteggiato, baciato. Infine lo ha trascinato per i capelli e ricomposto sul carrello del forno (un po' come l'uomo sul letto in Un chien andalou) dopo che aveva perso una gamba come in una estemporanea amputazione: un gag voluto, ricordava Buñuel, ma inventato al momento. Al calore della fiammata il manichino per un attimo sembra prendere vita: si agita prima di deformarsi e liquefarsi in primi piani da film horror, circondato da fiamme. Le stesse fiamme dei liquori flambé attraverso cui Archibaldo aveva intravisto Lavinia nel locale notturno, che ora circondano il corpo del suo doppio e, nel controcampo, il volto estasiato dell'assassino. Come fiori di fuoco per un funerale e i fiori, calle, gladioli e altre specie lussuriose, abbondano nel film, in casa di Patricia, di Alejandro, di Carlota, come corone funebri ed erotiche attorno a donne che sono già morte. Poiché le donne sono fatte per essere bruciate, Lavinia come Giovanna d'Arco, personaggio ricorrente nell'immaginario buíiueliano: nell'album di famiglia che Archibaldo mostra alla sua vittima designata per distrarla e poi aggredirla, oltre a fotografie di sé e di sua madre, c'è una immagine della piazza di Rouen dove la pulzella fu messa al rogo. Nell'edizione italiana curata da Fede Arnaud è aggiunto un terzo e persino superfluo riferimento alla santa di Orléans nell'inquadratura finale, assente invece nell'originale. Peraltro anche i titoli sono diversi: ai cartelli bianchi con elegante grafia corsiva la versione italiana sostituisce le più esplicite, ma troppo anticipate, immagini-choc del manichino nel forno.
Poiché la Storia, medievale o recente, non è estranea alla psicologia. La vita criminale di Archibaldo de la Cruz inizia al tempo della rivoluzione messicana, di cui le primissime inquadrature del film ci hanno mostrato alcune fotografie da un libro, un altro volume che viene impersonalmente sfogliato mentre la voce narrante non ancora identificata racconta di delitti compiuti in nome del popolo. Crimini collettivi, crimini individuali, prove di crimini: gli omicidi per sostituzione o "spostamento" (che dunque funzionano come i sogni, e si esercitano su quel sogno fatto figura umana che nell'immaginario surrealista-metafisico è il manichino) sono del tutto coerenti con il dato "psicologico" fondamentale di Archibaldo: egli indubbiamente è un feticista, come tanti eroi buflueliani, dal don Guadalupe di Susana al don Jaime di Viridiana, che ne riprenderà anche il gusto per travestimento femminile, fino al vecchio "calzolaio" di Diario di una cameriera. Ha cominciato da bambino, trascurando il trenino elettrico, a indossare abiti intimi e scarpe da donna, rinchiudendosi nell'armadio, che ancora una volta funziona in Buñuel come luogo dell'intimo, del proibito, del surreale. Certamente quei reggiseni e mutande che tiene in un cassetto non servono soltanto, e già basterebbe, a rivestire il manichino che si è comprato. Il quale letteralmente perde i pezzi, si scompone per ribadire la natura sempre parziale del feticcio: una gamba finta (come poi in Tristana), una scarpa, usata per un classico gag di suspense ma che non è l'unica che appare nel film: anche Patricia si toglie la sua elegante scarpina troppo stretta e la deposita sul tavolo della roulette sotto il naso di un vicino. Un altro feticcio è il rasoio, che richiama ovviamente quello "originario" che Buñuel si prende il gusto di smitizzare con l'ultima battuta del giudice: "Si compri un rasoio elettrico". Perché di rasoi Archibaldo ne ha una scatola intera, un servizio settimanale da taglio dell'occhio. Ognuno d'altra parte ha la sua collezione: la disinibita Patricia appende sulle pareti di casa, come trofei erotici, fotografie di attori e di toreri.
Ma il feticcio principe, per Archibaldo, è naturalmente quella scatoletta con carillon e quella ballerina dalle gambe nude, sostituta della madre. Si parla spesso dell'importanza dell'"oggetto" nel cinema di Buñuel e qui abbiamo un film e una storia che si imperniano interamente su un
oggetto. Un pezzo molto particolare, una rarità, come dice giustamente l'antiquario: scatola, strumento musicale e manichino nello stesso tempo.
Certo, l'oggetto bunueliano pare più interessante quando è oggetto bruto, una "cosa" informe o senza identità, come anche qui accade con quel voluminoso pacco che il gentiluomo prima porta a casa (e contiene il carillon appena acquistato) e con cui poi va da Carlota (c'è dentro il suo vaso). E dopo l'uomo col pacco, l'uomo col sacco: per andare a gettare la scatola nel laghetto egli la infila, senza alcuna verosimiglianza, in un rozzo sacco di juta, che riapparirà in spalla all'ultimo erede di Archibaldo, il Mathieu di Quell'oscuro oggetto del desiderio.
Ma appunto anche nel sacco o nel pacco c'è la scatola, "madre" di ogni feticcio. Solo liberandosene, facendo annegare la ballerina in un ultimo delitto per sostituzione Archibaldo potrà, forse, liberare se stesso. Ma poiché quella scatoletta è essa stessa assassina, ha il potere di uccidere le persone, il vero feticcio di Archibaldo, il suo oggetto d'amore, è l'assassinio stesso. Egli ama uccidere. Ha associato fin da piccolo, fin dall'immagine della governante uccisa e insieme denudata, l'eros e la morte, e dunque amare e uccidere sono per lui la stessa cosa. Reciprocamente, l'uccisione è un'immagine. Gli basta pensare, fantasticare un delitto per compierlo. Per questo il film è intessuto di immagini mentali, visioni di morte circonfuse di fumo, sovrimpresse da colate di sangue, annunciate dalla musica del carillon, illuminate dal biancore di un altro operatore fantastico, il latte che "Archi" beveva da piccolo e che è rimasto ancora la sua unica bevanda, anche al cabaret, e la sua madeleine criminale.
D'altra parte quasi tutto il film, anche dopo il ricordo infantile del prologo, si svolge nel recente passato di un lungo flashback, che tuttavia, come una scatola cinese del tempo, contiene a sua volta un flash-forward. Perché, a differenza di molti flashback, esso non è marcato solo all'inizio o in quella fine e ritorno alla temporalità primaria che Truffaut diceva così difficile da realizzare, e di cui considerava appunto Buñuel, assieme a Lubitsch, un principe. Varie altre volte, al suo interno, la narrazione o l'azione sembrano rallentare e dilatarsi in un andamento sospeso, come da sogno o ricordo. Spesso Archibaldo si incanta, o si muove lentamente come un fantasma. Il tempo stesso della storia è irreale, o surreale: secondo il racconto che egli fa al giudice, tutto inizia una settimana prima e in questa settimana egli conosce Patricia e apprende della sua morte, incontra e brucia la finta Lavinia, sposa e vede uccidere Carlota... E anzi lo stesso episodio della suora, e la non altrimenti commentata morte tragica della prima moglie, a rigore si collocherebbero in questo tempo. Troppo compresso per essere realisticamente considerato, tanto più che anche il finale ne rilancia la circolarità.
Un finale plurimo, di cui Buñuel rivendicava a ragione la paternità e l'originalità rispetto al romanzo e su cui si stende l'ombra di ambiguità di tanti altri suoi epiloghi. Anche per un breve episodio entomologico-surreale che rimanda al gallo del Bruto, all'ape di Viridiana e agli altri animali inquietanti e perturbanti del suo cinema: liberatosi del carillon, Archibaldo osserva su un tronco una grossa cavalletta e sta per schiacciarla col suo bastone quando si arresta e la lascia vivere. E guarito infatti, non è più un assassino, la musica riannuncia la fine. Ma subito dopo c'è l'incontro con Lavinia e sull'apparente lieto fine cala il sospetto di un nuovo inizio e di una nuova temporalità.
Infatti, dopo tre finali, il film non era ancora davvero terminato. E sarebbe stata la realtà stessa, in maniera agghiacciante, a continuarlo: venti giorni dopo l'uscita del film l'attrice che interpretava Lavinia, Miroslava Stern, si suicidò. Il suo corpo, conformemente ai suoi desideri, fu cremato.
Alberto Farassino, Tutto il cinema di Luis Buñuel, Baldini&Castoldi, 2000

Critica (2):Per Sadoul non c'è dubbio: questo Ensayo de un crimen è "un capolavoro dell'humour nero e del surrealismo". E a Georges Sadoul, che fece parte egli stesso del gruppo storico del Surrealismo, dovremmo credere. Del resto Archibaldo de la Cruz, (Alessandro nella versione italiana) il protagonista della storia, macabra e divertente al tempo stesso, lo si può considerare un parente stretto del Francisco di El, quell'uomo accecato da una gelosia che sapeva tanto di amour fou. Tuttavia André Bazin ci avverte: "Si tratta di una pochade, nella quale l'autore non si è troppo impegnato". E Buñuel ne sottoscrive il giudizio, affermando in un'intervista che Ensayo de un crimen è un semplice divertissement.
Nel film, la vita criminale di questo "borghese egoista" si conclude con un happy end che Kyrou ha voluto considerare il risultato di un compromesso commerciale. Ma Buñuel ha smentito decisamente l'ipotesi del critico francese: "La scena finale non mi fu imposta dal produttore né dalli censura. Era già nel soggetto originale e fui io a volere che Ensayo de un crimen finisse così".
In Italia il film fu distribuito solo nel 1964, sulla scia dello scandalo provocato da Viridiana. Per attirare l'attenzione del pubblico, fu sparsa la voce che Ensayo de un crimen era stato realizzato con la tecnica "subliminal" della persuasione occulta: un bel parto della fantasia dei distributori!
" [...] Si tratta, come è chiaro, di un'allegoria trasparente dell'impotenza sessuale. Buñuel ha saputo giocare con molta abilità su questo simbolo dell'impotenza, attribuendo ad Archibaldo il carattere ambiguo, ironico e distaccato del seduttore, non quello truce e ottuso dell'assassino. In realtà, Archibaldo non vorrebbe che fare l'amore; quei rasoi, quelle rivoltelle di cui si munisce non sono che simboli fallici; e il ripetuto fallimento del delitto non è altro che un fallimento dell'atto sessuale. Senonché i rasoi e le rivoltelle ci sono davvero: e così un'ombra macabra, sadica e necrofila è proiettata sull'amore e l'impotenza. [...]" (Alberto Moravia, L'Espresso, Roma, 23 agosto 1964)
"Estasi di un delitto, realizzato nel 1955, era originariamente tratto dal romanzo, dall'unico romanzo credo, del drammaturgo messicano Rodolfo Usigli. Il film fece abbastanza successo, un po' dappertutto. Per me, resta legato a uno strano dramma. In una delle scene del film Ernesto Alonso, il protagonista, bruciava in un forno un manichino uguale identico alla prima attrice, Myroslava. Ora, pochissimo tempo dopo le riprese, Myroslava si suicidò per amore e venne cremata - secondo le sue volontà". (Luis Buñuel, Dei miei sospiri estremi)

Critica (3):

Critica (4):
Luis Buñuel
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