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Torneranno i prati


Regia:Olmi Ermanno

Cast e credits:
Soggetto: ispirato al racconto La paura di Federico De Roberto; sceneggiatura: Ermanno Olmi; assistente alla regia: Maurizio Zaccaro; fotografia: Fabio Olmi; montaggio: Paolo Cottignola; musica: Paolo Fresu; scenografia: Giuseppe Pirrotta; costumi: Andrea Cavalletto; interpreti: Claudio Santamaria (il maggiore), Camillo Grassi (l'attendente), Niccolò Senni (il dimenticato), Andrea Di Maria (il conducente di mulo), Francesco Formichetti (il capitano), Andrea Benetti (il caporale), Domenico Benetti (il sergente), Alessandro Sperduti (il tenentino), Andrea Frigo (la vittima), Andrea Forte (il soldato del topino), Riccardo Rossi (l'amico del soldato del topino), Stefano Rossi (il morituro), Davide Rigoni (il cappellano), Sam Ursida (l'appuntato dei Carabinieri), Marco Rigoni (l'infermiere), Nicola Rigoni (il carabiniere), Igor Pistollato (il volontario), Maurizio Frigo (il ferito nostalgico), Carlo Stefani (il soccorritore), Niccolò Tredese (il delirante), Francesco Nardelli (il soldato Toni), Brais Vallarin (il ferito grave), Davide Degiampietro (il soldato alla mitraglia), Alfonso Brugnaro (il portalettere), Filippo Baù, Paolo Baù (i barellieri), Giorgio Vellar, Roberto Rigoni Stern (le vedette), Anthony Rossi, Massimo Vellar (i soldati addetti alla posta e al rancio); produzione: Luigi Musini, Olivia Musini per Cinemaundici/Ipotesi Cinema/Rai Cinema; distribuzione: 01; origine: Italia, 2014; durata: 80'.

Trama:Siamo sul fronte Nord-Est, dopo gli ultimi sanguinosi scontri del 1917 sugli Altipiani. Nel film il racconto si svolge nel tempo di una sola nottata. Gli accadimenti si susseguono sempre imprevedibili: a volte sono lunghe attese dove la paura ti fa contare, attimo dopo attimo, fino al momento che toccherà anche a te. Tanto che la pace della montagna diventa un luogo dove si muore. Tutto ciò che si narra in questo film è realmente accaduto. E poiché il passato appartiene alla memoria, ciascuno lo può evocare secondo il proprio sentimento.

Critica (1):Come segnalano i titoli di coda, Torneranno i prati prende spunto dall'impressionante La paura, scritto da Federico De Roberto nel 1921, per inciso lo stesso racconto dal quale Leonardo Di Costanzo ha da poco tratto L'avamposto, episodio del film collettivo I ponti di Sarajevo (Les pontes de Sarajevo, 2014). Dall'autore dei Viceré, uno dei grandi romanzi della nostra letteratura, Ermanno Olmi, oltre naturalmente all'ambientazione di trincea, eredita la progressione drammatica che porta un giovane tenente a sacrificare in sequenza i suoi uomini in una missione insensata, fino a quando uno di loro, un decorato della guerra di Libia, in preda al terrore, dapprima si rifiuta pur sapendo di andare incontro alla fucilazione, poi, strappatisi di dosso i nastrini, si uccide in maniera orribile («E prima che nessuno avesse tempo di comprendere che cosa volesse dire, che cosa stesse per fare, corse lungo il fosso, fino al cunicolo, si chinò ad afferrare il moschetto, ne appoggiò al ciglio di fuoco il calcio, se ne appuntò la bocca sotto il mento, e trasse il colpo che fece schizzare il cervello contro i sacchi del parapetto»).
Olmi sposta la stagione dei fatti narrati, dal «primo chiarore di un'alba d'agosto» a un inverno gelido e nevoso, per il quale pare che la troupe coordinata da Maurizio Zaccaro abbia avuto non pochi problemi nel corso della lavorazione, dovendo – felicemente, detto a posteriori – modificare scenografia e in parte sceneggiatura a causa delle abbondanti precipitazioni. Come De Roberto, anche il regista bergamasco insiste sulla babele linguistica di un'Italia fatta solo sulla carta, a partire dal conduttore di muli napoletano che si esibisce, apprezzato anche dall'altra parte del fronte, in Tu ca nun chiagne e nella belliniana Fenesta ca lucive. Al tenentino, caratterizzato qui in maniera più evidente come un intellettuale dalla formazione umanistica, affianca un maggiore che lo accompagna nella trincea a portare ordini oltre che a fare esperienza, un capitano gravemente malato nel corpo e nell'anima e un sergente paternamente vicino ai propri soldati, tanto da sentirsi in colpa per averli mobilitati di fronte a un ipotetico assalto nemico invece di metterli al riparo dall'imminente bombardamento. Come nel racconto dello scrittore catanese e a differenza di altri classici dello schermo, il film non innesca una vera e propria dialettica tra i vari gradi dell'esercito regio, e tra essi e la truppa. L’insipienza, l'insensatezza, il cinismo di chi invia al macello uomini fatti di carne e sangue come fossero pedine di un maldestro gioco di scacchi appartengono all'alto comando e a chi lo gestisce a livello politico-istituzionale, entità così lontane da risultare impalpabili e senza volto. Per questo sono in un certo senso equiparabili al nemico, che pure non si vede mai, sia quando il suo incombere sembra segnalato dai campanacci legati al filo spinato che quando più concretamente spara sui soldati o devasta la trincea a colpi di mortaio.
L’idea forte del film ci sembra tuttavia quella di giustapporre un dentro e un fuori alternandoli secondo un infallibile dosaggio. Dentro ci sono i camminamenti e gli alloggi, luogo del freddo, della paura e di un'epidemia che viene dai Balcani al pari di tutti i guai più recenti, come afferma con amara ironia il capitano. Dove il ricordo di casa è tenuto vivo dalle fotografie attaccate al soffitto, addomesticare un'arvicola seminando briciole di mollica sulla sponda della cuccetta funziona da esorcismo contro la cosiddetta fine del topo sepolto nella propria tana, il momento della posta unisce alla gioia di ricevere notizie dai congiunti la tristezza delle lettere che non è possibile consegnare per la morte del destinatario. Il fuori è la natura di implacabile splendore dell'Altopiano dei Sette Comuni e dell'Ortigara coperti da quattro metri e mezzo di neve, di foreste di abeti che quasi beffardamente alludono al Natale, di una Luna enorme che troneggia sopra la linea delle montagne. «Nell'orrore della natura l'orrore della guerra», scrive De Roberto nell'incipit del racconto. Per Olmi il rapporto è differente e più complesso. Vi si coglie certo la pasoliniana «straziante e meravigliosa bellezza del creato». Ma a leggere con maggiore precisione il suo punto di vista aiuta forse il titolo bellissimo del suo bellissimo film. Torneranno i prati alla fine, dell'inverno e del conflitto bellico. Ma non per coloro che sono morti, vittime di quella che Sartre chiamava perdita secca – di vita, amore, bellezza. E cancellati dalla memoria, come afferma in conclusione uno dei soldati, fin qui sempre presente ma attonito e muto.
Questa dicotomia dentro-fuori solo per brevi momenti trova una sua ricomposizione, memoriale e fantasmatica, nei discorsi di qualcuno che guarda le immagini rubate attraverso le feritoie: la lepre e la volpe sulla neve che suggeriscono l'idea che gli animali si parlino fra di loro (un ricordo del sottovalutato II segreto del bosco vecchio [1993]?), il larice che in autunno diventa d'oro e che, colpito da una granata, arderà come il roveto biblico.
Duro fino alla bestemmia verso un Dio che consente questo orrore e che sarà pure dove lo si cerca, come afferma un soldato, ma neppure il Papa sa dove sia, come controbatte un altro, il cattolico Olmi termina il suo percorso nella trincea con la lettera del giovane ufficiale alla madre, che per intensità e commozione ricorda quella del protagonista al suo capitano in L'arpa birmana (Biruma no tategoto, 1956). La guerra mi ha fatto diventare vecchio in un'ora, dice il ragazzo, fratello dell'Ivan tarkovskijano persosi in un altro conflitto che verrà. Perchè, come recita in chiusura una massima di Toni Lunardi, pastore, indimenticabile protagonista dello straordinario I recuperanti (1970), la guerra è una brutta bestia che gira sempre e non si ferma mai.
Quasi in appendice, il regista tira poi fuori il proprio fondo anarcoide, concludendo il film con materiale di repertorio che, dopo gli assalti alla baionetta negati dalla finzione, si sofferma su corpi e luoghi martoriati, prosegue con i festeggiamenti della vittoria per chiudere con la desolazione di croci sghembe.
Se a De Roberto lo accomuna l'atteggiamento etico, la sua cifra stilistica, lo sappiamo bene, ha ben poco di verista o realista che dir si voglia. Il suo è infatti un film sussurrato. L'understatement caratterizza la recitazione di attori dal volto anonimo a esclusione di Claudio Santamaria, il commento musicale calibratissimo ed essenziale di Paolo Fresu, la magistrale fotografia di Fabio Olmi, con il colore che implode in un biancoenero più
"morale" che suggestivo, segno di uno sguardo che rifiuta pregiudizialmente ogni leziosità filologica. Il suo pudore espressivo, una compattezza che si esprime anche nell'impeccabile scelta dei tempi, perfino nella stringatezza della durata di soli ottanta minuti, fanno risaltare l'orrore per contrasto più di qualsiasi urlo, perorazione o proclama.
Alberto Farassino sosteneva che il cinema di Olmi racconta quasi sempre la stessa cosa, cioè un passaggio d'epoca colto attraverso i mutamenti della cultura materiale. Ci sembra che la considerazione possa valere anche per Torneranno i prati, che dello spazio angusto di una trincea riesce a fare microcosmo di provenienze geografiche e sociali, anime e destini, luogo e momento di svolta per un'intera Nazione. Se con La grande guerra (1959) Monicelli riusciva – scandalosamente, per i tempi – a contaminare l'enormità della tragedia con i modi della commedia, il regista bergamasco ne coglie l'essenza sul piano della dignità umana ferita ma anche della dolorosa costruzione di una koiné, chiudendo più di cinquant'anni dopo il cerchio di un dittico da consegnare alla storia della Settima arte.
Paolo Vecchi, Cineforum n.540, 12/2014

Critica (2):

Critica (3):

Critica (4):
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