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Mean Streets - Mean Streets


Regia:Scorsese Martin

Cast e credits:
Sceneggiatura
: Martin Scorsese e Mardik Martin; fotografia: Kent L. Wakeford; canzoni: “Desirée” (The Chants), “Malafemmena” (Jimmy Roselli), “Those Oldies But Goodies” (Little Caesar & The Romans); scenografia e consulenza visuale: David Nichols; montaggio: Sid Levin e Martin Scorsese (non accreditato); interpreti: Harvey Keitel (Charlie), Robert De Niro (Johnny Boy), David Proval (Tony), Amy Robinson (Teresa), Richard Romanus (Michael), Victor Argo (Mario), George Memmoli (Joey); produzione: TPS Productions (Taplin-Perry-Scorsese); origine: Usa, 1973; durata: 110'.

Trama:Per le strade basse (mean streets) del quartiere italiano di New York (Little Italy) si aggirano giovani senz’arte né parte, non ben radicati nella maggioranza onesta e laboriosa degli “oriundi” e non ancora sradicati sì da inserirsi nella malavita tipicamente americana. Sono Johnny Boy, un mattoide ghignante e provocante, saltuariamente occupato in umili lavori e più spesso disoccupato volontario tutto intento a fare incetta di debiti, ben deciso a non restituire un dollaro; Charlie, traumatizzato da una distorta educazione religiosa, altalenante fra l’impegno di proteggere ad ogni costo l’amico Johnny Boy della cui sorella epilettica è amante, servitore e aspirante successore dello zio mafioso d’alto bordo; Michael, che campa di piccoli sfruttamenti; Tony, proprietario di un losco bar, in bilico fra polizia e malavita. Dopo una serie di vagabondaggi nel quartiere, di incontri e scontri violenti, Johnny Boy, che invano Charlie cerca di aiutare intervenendo presso uno strozzino creditore di tremila dollari, affronta costui sbeffeggiandolo, insultandolo, minacciandolo con una pistola, e più tardi è da questi inseguito e crivellato di pallottole insieme a Charlie e Teresa.

Critica (1):Scorsese, di cui questo è un film più personale e originale che non il pur interessante ritratto femminile di Alice non abita più qui, sa di che parla, e ha istintivamente trovato il modo migliore per parlarne. Egli è nato nella Little Italy newyorkese, figlio di emigrati meridionali, e vi è cresciuto tra strada, oratorio e bigliardini. Escludendo ogni accenno melodrammatico o di tragedia dal suo film; dandogli un filo, un soggetto, però costruendolo per brani spezzettati e spesso documentari; rilevando con attenzione ambienti, personaggi secondari, piccoli episodi significativi; ha però posto al centro del film due personaggi rilevanti, che finiscono con l’assumere uno spessore drammatico fondamentale, e in qualche modo, come vedremo, anche un significato più vasto, uno spessore sociologico e in ultima analisi politico più generale.
Poiché infatti essi crescono come indicativi di una condizione e di un modo di reagirvi che sono di un «proletariato senza rivoluzione», costretto dalla peculiarità di una condizione-ambiente che non permette definizione di classe chiara, e conseguente coscienza, a reagire secondo le strade concesse, generalizzabili e ormai ben note.
I due personaggi (resi con consumata perizia di Actor’s Studio da Harvey Keitel e da Robert De Niro, il secondo con qualche sospetto gigionesco, il primo più bravo proprio per la più difficile definizione del personaggio, per la sua maggiore sfumatezza e ambiguità) sono indubbiamente rappresentativi di un problema più vasto. Sono entrambi giovani, ma già oltre l’adolescenza, già nel pieno del problema di una collocazione personale che durerà una vita, tutta la loro vita. Ciò che li differenzia su un terreno di classe è soltanto il fatto, per il primo, di avere legami di parentela stretti, ergo di protezione, con un boss della piccola mafia, che gli permetteranno di accedere alla direzione di un ristorante; mentre il secondo è già operaio (anche se mai lo si vede sul posto di lavoro). Anche culturalmente la loro condizione è diversa: il primo risente della sua formazione cattolica e cerca di conciliarne il residuo di insegnamento di solidarietà perlomeno all’interno della tradizione di solidarietà di clan del tipo, come diceva un sociologo americano per la nostra società meridionale, «familistico-amorale» cioè chiuso sul clan e in difesa contro ogni esterno; ma è anche prigioniero delle regole del clan, del loro ferreo conformismo che è stato determinato, almeno alle origini, dalle necessità della sopravvivenza sul terreno della città d’emigrazione, straniera e ostile; e vuole infine ricavarsi un suo posto di qualche privilegio grazie alle protezioni di cui gode.
L’altro non gode nemmeno di queste, perché reagisce all’ambiente e alla sua oppressione e miseria in modo più estremo, che sconfina nella pazzia, e che è quello della sfida irrazionale, della beffa anche violenta, del rifiuto senza una causa rispetto alla quale definirsi, e senza una solidarietà con altri. È proprio in questo personaggio che finisce per identificarsi un certo tipo di spettatore: ed abbiamo visto il film a Napoli, in una platea di giovani dei Quartieri Spagnoli, pronti a scattare nell’applauso a ogni battuta, a ogni gesto di inconsulta rivolta di De Niro, e lo stesso accade, ci viene detto, in certi cinema periferici romani...
Sono dunque presenti, coi due personaggi, la strada dell’integrazione nelle regole dell’ambiente (un’integrazione di tipo piccolo-borghese ma su un substrato di organizzazione delinquenziale, peraltro parallela a quella politica, con cui spesso si identifica: vedi gli accenni dello zio boss), ma rinunciando a qualsiasi ideale di solidarietà e fidando solo nel clan ristretto, e anche – per il protagonista – nell’amore per una donna non accetta al clan ristretto; o la strada della rivolta gratuita, che è – e qui è il dato rilevante del film, non nuovo, ma certo molto trascurato nell’analisi di certi strati sociali tra proletariato e sottoproletario che pure sono stati tante volte affrontati dal cinema in termini più o meno di colore – una strada di autodistruzione.
Il personaggio di De Niro scarica la violenza prodotta dalla sua condizione e dalle frustrazioni che ne conseguono, e dalla mancanza di speranza che vede attorno a sé non esistendo un progetto, un’idea, un’organizzazione collettiva di lotta, su se stesso, o su altri a sé simili che sono specchio di se stesso. La mancata individuazione di una solidarietà di classe, e la mancata individuazione di un nemico di classe, cioè di un nemico esterno, del responsabile dei mali della propria classe e dei propri, individuali, fa sì che la rivolta si scarichi in violenza su di sé e sui simili a sé. Cioè in suicidio.
Tutto questo il film di Scorsese lo chiarisce con grande intelligenza dei fenomeni, e con un’intelligenza forse un po’ minore delle cause, conseguentemente alla ben nota difficoltà degli intellettuali e artisti americani a digerire alcune conoscenze di tipo marxista. Ma certo Mean Streets è un documento preciso e prezioso per l’interpretazione dell’America e dei suoi mali, e anche di quelli di altre situazioni consimili. (1975)
Goffredo Fofi, Dieci anni difficili, La Casa Usher, 1985

Critica (2):

Critica (3):

Critica (4):
Martin Scorsese
(Progetto editoriale a cura di); (Progetto editoriale a cura di) Redazione Internet; Redazione Internet (Contenuti a cura di); (Contenuti a cura di) Ufficio Cinema; Ufficio Cinema
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