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Silenzio (Il) - Sokhout


Regia:Makhmalbaf Mohsen

Cast e credits:
Soggetto e montaggio
: Mohsen Makhmalbaf; sceneggiatura: Hana Makhmalbaf; fotografia: Ebrahim Ghafori; musica: musiche tradizionale del Tagikistan; Ludwig Van Beethoven, Sinfonia n. 5; suono: Behroz Shahamat; interpreti: Tahmineh Normatova (Korshid), Nadareh Abdelahyeva (Nadereh), Golbibi Ziadolahyeva (la madre di Korshid), Hakem Ghassem (il padrone della bottega), Araz M. Mohamadli (il musicista ambulante); produzione: Marin Karmitz per MK2 Productions/ Makhmalbaf Productions; distribuzione: Istituto Luce; origine: Francia/Iran/Tagikistan, 1998; durata: 77'.

Trama:Korshid è un bambino cieco di dieci anni che vive da solo con sua madre in un piccolo villaggio del Tagikistan in una casa di cui non riescono neppure a pagare l’affitto. E, se non provvederanno nel giro di qualche giorno, saranno sbattuti fuori. Di giorno Korshid lavora presso la bottega di un liutaio e Naderch, la piccola protetta del padrone, lo va a prendere alla fermata dell’autobus per condurlo con sé al lavoro. Attraverso gli occhi di Nadereh, Korshid guarda il mondo e lo ascolta attentamente seguendone suoni, musica, melodie e armonie quotidiane. Spesso, attratto da questi suoni, si smarrisce tra la folla o non scende alla fermata dell’autobus prevista. Per questo il padrone lo licenzia proprio quando il bambino stava per chiedergli i soldi necessari a pagare l’affitto di casa.

Critica (1):(...) È probabile che sul cinema iraniano tout-court gravino ancora l’equivoco neorealista e, di conseguenza, l’idea che la maggior parte dei cineasti faccia in fondo sempre lo stesso film, con protagonisti il più delle volte bambini che immancabilmente si scontrano con difficoltà non insormontabili ma tali da impegnarli per almeno un’ora e mezza (cinematograficamente parlando), finché non si arriva al proverbiale scioglimento della storia in chiave positiva o al finale sospeso. Visto uno li hai visti tutti, con relative variazioni sul tema. Insomma, la critica cinematografica occidentale, dopo una fase iniziale di affezione incondizionata, comincia a stancarsi di un modello di rappresentazione e di narrazione minimalista che essa stessa ha creato, perpetuato e su cui sin dal principio ha voluto fraintendere. Mentre Kiarostami in qualche modo si sta discostando da questa connotazione stereotipata e indiscriminata del cinema iraniano, soltanto perché sta seguendo un suo percorso d’autore, non certo per timore di apparire all’esterno scarsamente orginale, registi come Panahi, già collaboratore di Kiarostami, o Makhmalbaf rischiano di vedersi confinati in un territorio critico ipotecato dall’omologazione o dalla semplice curiosità specialistica. Per questo un film come Il silenzio, nonostante abbia suscitato non poche perplessità nei suoi stessi estimatori, ha tutta l’aria di voler confutare quel luogo comune di ascendenza realista o neorealista che rappresenta ancora l’unico parametro di giudizio con cui si misura la qualità di un (qualsiasi) film iraniano. È difficile infatti non accorgersi già dalle sequenze iniziali de Il silenzio che la struttura del racconto non persegue finalità realistiche, denotando invece un impianto rigorosamente simbolico ed estetizzante. Non esiste infatti alcuna essenziale e necessaria progressione narrativa nella mano del padrone di casa che bussa alla porta, cui fanno seguito la vespa imprigionata nella bottiglia, il volto del piccolo Korshid i cui occhi chiusi rimandano per esclusione alle sue facoltà uditive, la rassegna delle ragazze che vendono pane, mele granate e ciliege, le bambine che sull’autobus ripetono in continuazione una quartina di Umar Khayyam sull’importanza di vivere pienamente e in assoluta libertà l’istante presente, liberandosi dai vincoli del passato e del futuro, ma li ripetono senza riuscire a memorizzarli, ovvero a comprenderli profondamente e condividerli in quanto filosofia di vita, mentre Korshid, il quale li impara subito, ripetendoli ad alta voce, suggerisce alle bambine di tenere gli occhi chiusi per assimilarli meglio e fa dimenticare loro la fermata della scuola. Lo spettatore a questo punto ha già compreso, o dovrà ben presto accettarlo come fatto compiuto, che il contenuto implicito di ogni quadro o sequenza prevale sull’intreccio e che quella tra immagini e sonoro è una relazione arbitraria, riferita o prodotta dalla soggettività del piccolo protagonista. Korshid infatti percepisce con le orecchie la realtà, reinterpretandola e nel contempo abbandonandovisi completamente, come ad uno stimolo che tuttavia proviene dall’interno della sua coscienza, dal sua sfera ideale e dalla sua incondizionata immaginazione, piuttosto che dall’esterno segnato dalla coercizione, dai rapporti di forza (tra il liutaio e Korshid o tra il padrone di casa e la madre di Korshid) o dalle armi (il soldato seduto per terra con il mitra a portata di mano pronto magari a vietare a Nadereh di andare in giro senza velo). Ragion per cui vediamo nel film i volti di Korshid e Nadereh ripresi in modo che siano quasi sempre tagliati fuori gli occhi (che, come quelli di Korshid, non vedono o non vedono abbastanza in profondità, non colgono la spinta ideale interiore contrapposta alla pratica coercitiva della vista superficiale). Espediente che potremmo equiparare alle sinestesie adoperate nella tecnica letteraria. Tutto questo ne Il silenzio, complice la densità simbolica del racconto che sembrerebbe autogiustificarsi, fa molto “cinema di poesia” ad uso e consumo europeo, con tanto di sequenza finale da esportazione in cui il bambino si riscatta dalle difficoltà e ingiustizie della vita dirigendo un’orchestra di anonimi fabbri che intonano, a colpi di martello su recipienti di rame di vario formato, la Quinta sinfonia di Beethoven, scelta ad emblema, in quanto motivo classico occidentale e familiare all’orecchio e alla sensibilità del mondo intero, della musica in valore assoluto. L’ambivalenza di questo film nasce dunque dalla bellezza ostentata che ammicca sfacciatamente ad un mercato occidentale, principalmente europeo e festivaliero, su cui Makhmalbaf, e con lui probabilmente molti altri cineasti iraniani, ha intenzione di investire. Da un lato è evidente il segnale acerbo ma inequivocabile di involuzione culturale, con il rischio che il cinema iraniano, per eccesso di astrazione e universalizzazione poetica («Ne Il silenzio lo sfondo è spesso neutro, ciò che importa è che si tratta di una storia universale», ha dichiarato l’autore), diventi l’ennesimo angolo esotico per l’Occidente intellettuale e curioso, ora che lo stesso Makhmalbaf, il cui «progetto era quello di girare in un paese orientale, in particolare in India», ha «alla fine optato per il Tagikistan» definendolo « la metà perduta dell’Iran». Dall’altro, al di là degli esiti e delle prospettive di un film come Il silenzio (in cui, sia essa, consapevole o meno, si sente molto l’influenza di Pasolini e Paradzanov nella concezione di ogni inquadratura come quadro), è importante una volta per tutte aver sgombrato il campo da qualsiasi pregiudiziale di tipo realistico sulla cinematografia iraniana, ed è significativo che ad aver compiuto un passo decisivo in questa direzione sia stato proprio Makhmalbaf, che dai tempi de L’ambulante ha sempre rivendicato per il linguaggio cinematografico un’adesione maggiore alla pittura piuttosto che alla letteratura e al teatro e in generale alla tradizione orale dell’Iran islamico, una pittura a sua volta intesa come universo espressivo concettuale basato sul «significato del colore, della linea, del movimento, della luce, della composizione e dello stile», e non come imitazione o fedele e immediata riproduzione della realtà.
Anton Giulio Mancino, Cineforum n. 380, dicembre 1998

Critica (2):

Critica (3):

Critica (4):
Mohsen Makhmalbaf
(Progetto editoriale a cura di); (Progetto editoriale a cura di) Redazione Internet; Redazione Internet (Contenuti a cura di); (Contenuti a cura di) Ufficio Cinema; Ufficio Cinema
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