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Salomé


Regia:Bene Carmelo

Cast e credits:
Scene e dialoghi:
Carmelo Bene; fotografia (Super 16, gonfiato a 35 mm): Mario Masini; operatore: Silvano Tessicini: montaggio: Mauro Contini; musica coordinata da Carmelo Bene: Johannes Brahms (Ein Deutsches Requiem), Franz Peter Schubert (Sinfonia n. 8, "Incompiuta’’), Jean Sibelius (Valse Triste), Richard Strauss (Danza dei sette veli); interpreti: Carmelo Bene (Onorio ed Erode Antipa), Lydia Mancinelli e Alfiero Vincenti (Erodiade), Donyale Luna (Salomè), Veruschka (Myrrhina), Piero Vida (il capitano siriaco), Franco Leo (Cristo-Vampiro), Giovanni Davoli (Iokanaan), Tom Galieés, Ornella Ferrari, Luciana Cante; int. spec.: Gino Marotta; effetti di laboratorio per edizione: Luciano Vittori; produzione: Carmelo Bene; origine: Italia, 1972; durata: 80'.

Trama:Erode ha preso in moglie Erodiade. Ma durante un banchetto non riesce a distogliere lo sguardo dalla bellissima figliastra, Salomè. Le chiede un ballo: la donna prima accenna un rifiuto, poi accetta in cambio della testa di Giovanni Battista. Affascinato dall'incantevole Salomè, Erode accetta il compromesso. La sua sorte però non sarà migliore di quella della sua vittima.

Critica (1):Se la corte del tetrarca Erode Antipa, quale appare nella Salomé di Oscar Wilde, reca i segni innegabili del dandysmo liberty, e se nella derivante Salomé operistica di Richard Strauss l’antico mondo biblico appare quanto mai viennese e jugendstil, che dire dell’ultima fatica cinematografica di Carmelo Bene? Si sa che un discorso su Bene, uomo di cinema, non può prescindere da un discorso sull’uomo di teatro, come si sa che la sua Salomé non è altro che la trasposizione cinematografica di uno spettacolo teatrale. Gli anni passano, si sa anche questo, e riproporre con la macchina da presa degli anni settanta moduli e stilemi fatalmente legati agli umori delle avanguardie teatrali degli anni sessanta può rischiare la brusca caduta nel più datato e patetico "déjà vu".
Ma non, va detto subito, nel caso di Carmelo Bene, mostro di vario spettacolo e cineasta di grande teatralità, per il quale il cinema non è il cinema, non è il teatro, non è il melodramma, ma è né altro potrebbe essere – Carmelo Bene, il che vale a dire il suo melodramma, il suo teatro, il suo cinema... Fare cinema per se stesso e su se stesso è l’unica via d’uscita, l’unica lotta possibile contro un sistema di produzione massificante e consumista: questa è la sola e abbastanza scontata morale che Bene ci insegna; per lui, in definitiva, scrivere un libro, fare teatro o realizzare un film sono di necessità la medesima cosa, posto che soggetto e oggetto, autore e fruitore si identificano sempre, e tutte le operazioni dì Bene, alla maniera di un boomerang che non colpisce il bersaglio, compiono a vuoto la loro parabola e ritornano nelle mani del loro artefice.
Non occorrerà sottolineare i risvolti psicofisici dell’indomito solipsismo beniano, il suo titanismo cocciuto e italico che rischia vieppiù di scivolare dal vuoto relativo dei virtuosistici barocchismi verso il vuoto assoluto dell’impotenza e della sterilità. Non occorrerà sottolineare il suo folle egocentrismo (ci pensa già abbastanza lui stesso), ma non sarò proprio io, nonostante tutto, ad accusare di sterilità Carmelo Bene. Salomè rimane comunque un grosso spettacolo, ma non "grossier", anzi raffinatissimo, un’opera composita, ma non per questo frammentaria, un involucro meraviglioso in cui miracolosamente convergono e si fondono gli ingredienti più disparati e gli artifízi più vertiginosi, a partire dagli stessi colori della pellicola e dal montaggio.
Il montaggio è vertiginosamente diabolico e i colori costituiscono una minaccia agli occhi dello spettatore, mentre il liberty s’accoppia al "pop" da grandi magazzini e la religione cattolica è inscindibile dal "couplet" operettistico; la cosa più stupefacente del film è, però, la sua brevissima durata: un’ora e un quarto scarsa. Strano davvero per un film che sembra mirare a dimensioni dilatatissime e nel quale si nasconde materiale bastante, oggigiorno, per fare tre, quattro, otto films (o altrettanti spettacoli teatrali)! Ed è strano come Carmelo Bene sembri voler mirare al "grand-opéra" in cinque atti per poi ridursi cameristicamente all’atto unico, se non all’atto senza parole beckettiano o al weberniano "romanzo in un sospiro". È quindi curioso notare come uno spettacolone rutilante e fastoso si riveli nella sequenza conclusiva e stupenda del film come una creatura diafana ed effimera, destinata allo spellamento della dissolvenza: lo schermo resta bianco ben prima dell’apparizione dei titoli di coda.
Altra cosa, di cui ci si può stupire, è come l’iconoclasta Carmelo Bene – ma dall’iconoclastia all’idolatria il passo è breve – nell’ambito della sceneggiatura fondamentalmente rispetti i dialoghi del testo wildiano, pur spezzettandoli in compiaciute iterazioni tra il paranoico e il musicale, pur riducendo di molto le battute di Salomè ed eliminando il monologo finale di lei, il tutto a vantaggio del ruolo di Erode per se stesso prescelto.
L’azione prevista dal dramma di Wilde viene arricchita dalla presenza duplice di un Cristo, dallo sdoppiamento di Erodiade in due personaggi (Erodiade donna angelicata, come in un affresco dugentesco da patronato, ed Erodiade-Giuda), dallo sdoppiamento in due attrici del ruolo di Salomè (una scena con Veruschka, tutto il resto con Donyale Luna), dalla scena dell’ultima cena (leonardesco cenacolo ridipinto in chiave "pop"), dalla coincidenza degli apostoli con i cortigiani di Erode, da un Giovanni Battista che è un calciatore in pensione etc. etc. Da segnalare, inoltre, un cammello carico d’oro – purtroppo risolto con un mediocre disegno animato – che passa impunito attraverso la cruna d’un ago.
Salomè – concludendo – è un’ora e un quarto di grande spettacolo; un’orgia di musiche e di caleidoscopici colori; un gustosissimo pastiche floreale all’italiana. Non è, purtroppo, un film riuscito, né probabilmente vuol esserlo. Vi manca quello che in Nostra Signora dei Turchi poteva costituire un certo tipo di "messaggio", come vi manca ciò che in Don Giovanni poteva significare una solida struttura cinematografica. Assente, persino, la comica irresistibilità delle sequenze migliori di Capricci. Presente, comunque, e nell’accezione più fantasmagorica del termine, lo spettacolo; ma, si diceva, ciò che rimane dell’intero film è soprattutto – se non unicamente – la sequenza finale (quella dello spellamento), in cui Bene rinuncia per alcuni minuti alla spavalderia e alla melodrammatica tracotanza che gli sono abituali, per fare opera autenticamente poetica.
Da citare (posto che, nonostante tutto, Carmelo Bene non può fare un intero film da sé) le interpretazioni degli attori Giovanni Davoli, Piero Vida, Lydia Mancinelli, Alfiero Vincentí, Veruschka, Donyale Luna; il contributo scenografico del noto artista Gino Marotta, la fotografia di Mario Masini e l’abilissimo montaggio di Mauro Contini. Le musiche, infine, che vanno dalla canzonetta di Robert Stoltz "Salormè" (da noi più nota come "Abat-jour") alla "Salomè" e al "Rosenkavalier" straussiani, a Puccini, Boito, E. A. Mario, Sibelius e altri ancora.
Tomaso Camuto, in Cineforum, maggio-agosto 1973 n. 91/92

Critica (2):

Critica (3):

Critica (4):
Carmelo Bene
(Progetto editoriale a cura di); (Progetto editoriale a cura di) Redazione Internet; Redazione Internet (Contenuti a cura di); (Contenuti a cura di) Ufficio Cinema; Ufficio Cinema
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