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Dolce è la vita - Life Is Sweet


Regia:Leigh Mike

Cast e credits:
Sceneggiatura
: Mike Leigh; fotografia: Dick Pope; montaggio: Jon Gregori; production designer:Alison Chitty; scenografia: Sophie Becker; musica: Rachel Portman; suono: Malcolm Hirst; interpreti: Alison Steadman (Wendi), Claire Skinner (Natalie), Jim Broadbent (Andy), Jane Horrocks (Nicola), Stephen Rea (Patsi), Timothy Spall (Aubrey), David Thewlis (il boy friend di Nicola), Moya Brady (Paula), David Neilson (Steve), Harriet Thorper (la cliente), Paul Trussel, Jack Thorpe Baker; produzione: Simon.Channing-Williams per Thin Man Film, Film Four Intenational e British Screen; origine: Gran Bretagna,1990; durata: 102'.

Trama:Gli affettuosi coniugi Wendy e Andy hanno due figlie sessualmente incontrollabili, amici dediti alle sbronze oppure buongustai che aprono ristoranti destinati al fallimento. Più che una storia, c'è una galleria di personaggi pittoreschi e irrequieti, non rassegnati al regime della signora Thatcher.

Critica (1):Il suo ultimo film mette in primo piano la lotta tra cinema e teatro e ci dimostra perché la televisione è stata per tanto tempo il terreno più fertile di Leigh. I personaggi al centro di L ife Is Sweet si comportano come esseri umani che tentano di sfuggire alla fatuità preordinata di una sit-com. La mamma (Alison Steadman) è una chioccia seccatrice che lavora in un negozio di abbigliamento infantile; il padre (Jim Broadbent) è uno chef incline agli incidenti che sogna la strada aperta (ha comprato un chiosco mobile) le figlie Nicola (Jane Horrocks) e Natalie (Claire Skinner) sono, rispettivamente, una misantropa anoressica che parla per "ismi" frusti (Fascista! Sessista!), e un maschiaccio che fa l'idraulico ma ha la faccia dolce e una pronuncia strascicata. Leigh li prende in giro anche quando li solleva gradualmente dal livello della sit-com, soprattutto spingendo Nicola a punte di intensità quasi maniacale e osservando le tracce di umanità che si diffondono sui suoi lineamenti tesi. È un gioco pericoloso evocare rugginosi stereotipi teatrali e televisivi per dimostrare che si è capaci di trascenderli. Ma, anche se durante Life Is Sweet siano consapevoli di trovarci nel reame della commedia televisiva sulla famigliola pazzerellona, le scene chiuse fra quattro mura e lo stile colloquiale sono simbiotici con un film su alcune anime intrappolate che vivono vite intrappolate. Pochi cineasti britannici hanno superato Leigh nel suggerire il senso della cultura di un'isola, i cui abitanti trascorrono la vita in un'ostinata quarantena sociale, non rispetto alle nazioni straniere, ma gli uni rispetto agli altri. Life Is Sweet trasforma il territorialismo geloso in una mappa del mondo. In questo microcosmo, il fatto che una ragazza imbronciata voglia la sua cena davanti alla TV con il resto della famiglia o da sola nella sua stanza assume quasi una risonanza geopolitica. E quando Mamma, guardando dalla finestra il chiosco di seconda mano che Papà ha comprato, gli urla "Rovini la mia vista"!, sappiamo che sta parlando con una decrepita strada di periferia (uguale alla mia). Non importa. I suoi sogni territoriali in quel momento di complicità con il pubblico, sono i nostri sogni. Leigh è un osservatore impietoso dei britannici. Sa bene che nessun altro paese è così ricco di persone che il soffocamento emotivo ha condotto verso una stravaganza comportamentale terminale, e che sorvegliano gelosamente il loro pezzettino di vitalità. Molti britannici sono dei paranoici sociali per i quali la mano di un amico potrebbe benissimo essere la mano di Freddy Krueger. È tipico di Leigh riuscire a sviluppare questo tema, per quanto ristretto, più abilmente del leitmotif più vasto che affronta. Il cibo, un soggetto di comunicazione globale, è riflesso attraverso una varietà quasi globale di lenti umane. Ci sono i sogni di Papà di vagabondare con il suo furgone di hamburgher e patatine. C'è il prestigioso ristorante anglo-francese aperto una sera dall'amico di famiglia Timothy Spal, con un menù ricco di orrori (dalla "Lingua al rabarbaro" al "Fegato alla birra"). E c'è la figlia di Nicola, che ha rinunciato al cibo quasi completamente, a parte i suoi frenetici, emetici spuntini notturni, che consuma rumorosamente in una borsa di plastica. Life Is Sweet tenta di consumare la società consumistica. Ma il simbolico "La cena è servita" risuona troppo alto. Afferriamo (e riaffermiamo) il punto. Tutti ingoiano, tutti hanno ancora fame. E l'etica dei "festini di mezzanotte" (segreti, autocompiaciuti, orgiastici) è avidità più colpa: l'eredità degli anni Ottanta yuppie. Fortunatamente, c'è anche il solipsismo, che consente a Leigh di sfumare nella sua amata primaria idea fissa. In questa lotta per comunicare sopra il cadavere dei rapporti normali (linguaggio o amore, solidarietà familiare o complicità coniugale), le vittime sconfitte si ritirano in una solitudine ermetica (Nicola) o tentano di riattivare le linee di contatto danneggiate con il semaforo della disperazione (Beverley in Abigail Party, Valerie in High hope). Il dilemma sarebbe tragico se non fosse comico, e sarebbe comico se non fosse tragico. Non c'è da meravigliarsi che il lavoro di Leigh. faccia lo slalom tra due estremi, con la disperazione mai lontana dalla superficie.
Harlan Kennedy, dal catalogo del Bergamo Film Meeting, 1993

Critica (2):

Critica (3):

Critica (4):
(Progetto editoriale a cura di); (Progetto editoriale a cura di) Redazione Internet; Redazione Internet (Contenuti a cura di); (Contenuti a cura di) Ufficio Cinema; Ufficio Cinema
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