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Distretto 13: Le brigate della morte - Assault On Precinct 13


Regia:Carpenter John

Cast e credits:
Sceneggiatura: John Carpenter; fotografia: Douglas Knapp; montaggio: John T. Chance (pseudonimo usato da John Carpenter); musica: John Carpenter; suono: William Cooper, Bill Varney; effetti speciali: Richard Albain jr.; interpreti: Austin Stoker (Ethan Bishop), Darwin Joston (Napoleone Wilson), Laurie Zimmer (Leigh), Martin West (Lawson), Tony Burton (Wells), Charles Cyphers (Starker), Nancy Loomis (Dulie), Peter Bruni (gelataio), John j. Fox (Warden), Kim Richards (Kathy), Marc Ross (agente Tramer), Alan Koss (agente Baxter), Henry Brandon (sergente Chaney), Frank Doubleday (guerriero bianco), Gilbert De La Pena (guerriero chicano), Al Nakauchi (guerriero orientale), James Johnson (guerriero nero), Peter Frankland (Caudell), Gilman Rankin (il conducente dell'autobus), Cliff Battuello (guardia), Horace Johnson (guardia), Brent Keast (annunciatore radiofonico), Maynard Smith (commissario di polizia), Valentine Villareal (delinquente chicano), Kenny Miyamoto (delinquente orientale), Jerry Viramontes (chicano del quartiere), Len Whitaker (chicano del quartiere), Kris Young, Randy Moore, Warren Bradley III, Joe Woo jr., William Taylor (membri della gang); produzione: CKK Corporation; distribuzione: Cineteca Griffith; origine: USA, 1976; durata: 91'.

Trama:In un sobborgo di Los Angeles infestato dalla delinquenza la polizia decide di chiudere una delle sue stazioni più isolate e per questo più esposte agli assalti dei criminali. Un giovane tenente di colore si reca sul posto, dove sono rimaste solo due ispettrici per prenderne le consegne. Verso sera al terzetto si aggiungono tre condannati alla sedia elettrica in viaggio con un poliziotto e un uomo di mezza età che, per vendicare la figlia, ha appena ucciso il capo di una delle bande. Il distretto viene attaccatto e quando sembra ormai che i malviventi stiano per avere la meglio, il tenente libera gli ergastolani che partecipano alla difesa.

Critica (1):(...) Uomo-orchestra nato nel Kentucky e laureato in cinema in California, premio Oscar per il miglior cortometraggio del 1970, sceneggiatore dell'interessante Gli occhi di Laura Mars (che la diceva lunga sulla predilizione del Nostro per l'immagine), Carpenter ha licenziato finora tre film, Dark Star nel 1974 (...), Assault on Precinct 13 nel 1976 e Hallowen nel 1978. Questi due sono arrivati sui nostri schermi a breve distanza l'uno dall'altro. Bastano a permettere una definizione o una valutazione del loro autore?
Forse no, ma bastano a dirci due o tre cose sul suo conto. Sulla sua formazione di «cinéphile», per esempio, sulla sua attenzione ai classici del cinema americano, suo suo ossequio ai «generi» e allo stesso tempo sul loro smontaggio, sul suo «penchant» allegorico e soprattutto sul suo rifiuto di ogni alibi concettuale a favore dello spettacolo «puro», fondato sulla visione come strumento del fantastico. In Distretto 13 - Le brigate della morte assistiamo quasi in tempo reale (dal tramonto alla sera) all'agguato teso da una banda di teppisti assassini e fanatici ad un isolato commissariato di polizia, alla periferia di Los Angeles. Dentro ci sono una tenente di colore, due funzionarie, tra malviventi in guardina, tra i quali un condannato a morte, e un «pacifico» signore al quale i teppisti han fatto fuori una figlia a sangue freddo e lui si è vendicato uccidendo uno di loro. Sia gli assediati che gli assediandi assottigliano le rispettive file nel corso di assalti violentissimi e sanguinosi, che verranno poi risolti grazie all'intervento, che pareva sempre più improbabile, di una forza esterna.
Una storia di violenza, quindi, tanto più inquietante, in apparenza, quanto più gratuita, non motivata, all'origine, da alcuna ragione. Gli assassini sono legati da un patto di sangue (fanno parte della «banda Vodoo») e perseguono astrattamente il sangue e la morte, ma non sappiamo chi sono realmente e cosa vogliono. Nella loro delirante ferocia non sono personaggi umani nè tanto meno dei problemi morali, somigliano piuttosto agli zombi. Dice bene Farassino: «...è il loro mutismo, la loro mancanza di identità, la loro capacità di dileguarsi, riapparire, far sparire i cadaveri, il loro muoversi come guidati da una forza cieca, che trasforma l'intera vicenda in un incubo surreale». Niente sociologia, quindi, solo la resa spettacolare di un'atmosfera d'incubo; e tutti quei morti che restano per terra, a mucchi, sono oggetti, materiale scenico. E nessuna dichiarativa per il fatto che il condannato a morte viene armato e scende a fianco dei poliziotti contro i pazzi scatenati di fuori: la cosa è imposta dalle circostanze, salvarsi la pelle è un'esigenza che scavalca gii steccati della legge, ed il passaggio è compiuto senza che nessuno vi filosofeggi sopra. Spirito allegorico? Si può vedere nel racconto quanto sia fragile la cosiddetta civiltà avanzata (che ha superato per esempio, più o meno, la barriera del razzismo), vista l'incredibile situazione «selvaggia» che si può verificare in una metropoli d'oggi ('Siamo a Los Angelese, non in una giungla» – si fanno coraggio gli assediati. Eppure a Los Angeles accadono cose da giungla). Oppure si può riflettere sulla necessità che le canoniche divisioni della società organizzata (i buoni e i cattivi, i giusti e i reprobi, i liberi e i carcerati) vengano superate dal bisogno della sopravvivenza di fronte a forze «altre» (il terrorismo, non i marziani) che si pongono, queste sì, al di fuori non tanto del consorzio umano quanto della dialettica dell'esistenza. (...)
Ermanno Comuzio, Cineforum n. 186, 8/1979

Critica (2):(...) Distretto 13: le brigate della morte, secondo lungometraggio di Carpenter, si può, a tutti gli effetti considerare come il suo vero debutto. Senza per questo voler assolutamente sminuire Dark Star e sottovalutarne il cosiddetto «periodo delle sceneggiature», ma è con Distretto 13 che con precisione si delinea il suo mondo espressivo-poetico, la sua weltanschauung. Se tale è possibile definire la sua urgenza di fare cinema. Carpenter, infatti, ha sempre considerato il suo lavoro non secondo direttrici e concezioni artistiche, ma come prodotto d'un onesto artigianato. Intrattenimento d'evasione secondo l'insegnamento degli eterni maestri: Howard Hawks, Alfred Hitchcock, John Ford.
Sotto il loro segno difatti nasce Distretto 13, un suspencewestern svolto e vissuto in un contesto moderno-metropolitano: assedi, attacchi, ombre silenziose che s'aggirano incontrastate padrone della notte, e salvataggio finale in extremis da parte delle forze alleate sul far del giorno. L'happy end. Usato, però, in questa circostanza come un vuoto segnale consolatorio. Come consolatoria e di puro spettacolo è l'intera organizzazione del film; non c'è più nulla da poter salvare, né tantomeno da sottrarre al sangue delle bande voodoo, di sangue appunto assetate. Il cinema classico, dunque, esiste come riferimento privilegiato, pura realtà illusoria di un mondo armonico (o ricomponibile nell'armonia) che di fatto non è mai esistito.
I classici potevano ancora credere, o sperare; diversamente per Carpenter c'è solo più la sensazione di vacuità, la medesima che prova la generazione vuota cui lui stesso appartiene. Da questo presupposto consegue la crudezza asettica, i brividi a freddo, gli assassinii senza motivazioni, un cinema congelato.
Presentato nel dicembre 1977, al London Film Festival, Distretto 13 s'impone subito all'attenzione della critica che ne coglie l'aspetto incredibile ed originale, e quel tipico «sapore Carpenter» che si ripeterà sempre come caratteristica esclusiva nei suoi film futuri. L'impronta verso una composizione classica, attraversata, però, e disturbata, resa più vivida e paurosa da linee di fuga, contorcimenti, fantasmi notturni, aspetti e presenze impercettibili, orme spettrali. Senza connotazioni e contorni: pericoli e nemici senza volto, senza identità, irriconoscibili.
Distretto 13 è l'inizio preciso di questo processo, non c'è più lo humour o la dissacrazione liberatoria applicati in Dark Star verso il cinema. Il paesaggio è ormai proprio: caratteristico, personale ed inalienabile: esplorazione delle proprie ossessioni: degrado e claustrofobia metropolitana, terrore urbano. Come in molti noir, B-movies degli anni '50. Perché anche verso questi Carpenter è debitore, in un'assoluta e totale contraddittorietà che rispecchia la sua coerenza.
Da un lato, infatti, Distretto 13 vive dell'esclusiva dipendenza dai generi codificati dalle Majors e dalla loro proliferazione, dall'altro respira una fondamentale esigenza di dilapidare questo patrimonio e d'affrancarsi indipendentemente.
In questa tendenza vettoriale opposta e complementare si dilacera e si ricompone la finzione narrativa di Distretto 13. E del cinema di Carpenter: oggetto risultante di un paziente lavoro di carpenteria. E noto, infatti, l'aspetto artigianale e sperimentale di questo autore: regista demiurgo, figura polivalente, realizzatore completo, spesso soggettista, sceneggiatore, compositore oltreché director.
Questo desiderio assoluto d'essere il film-maker totale di se stesso, all'interno dell'istituzione industria cinematografica in cui invece le competenze sono parcellizzate e segmentate, lo pone in maniera eccentrica, conferendo ai suoi film quell'aspetto così particolare: una sua esclusiva «essential cinematic idea». Una resa spettacolare a favore d'una rappresentazione pura in cui non contano assolutamente gli aspetti interpretativi e sociologici, ma l'impatto che il suono e le immagini costruiscono: l'incubo di megalopoli.
Distretto 13 è l'incarnazione più esatta di questa concezione: il manifesto programmatico di un modo d'intendere il cinema esplicito e chiaro. Il segno stesso dell'evidenza.
Un'idea elementare, un partito preso della semplicità, esplorato con forza coattiva tanto da raggiungere l'unità di luogo, di tempo e d'azione. Come in una discesa infernale ad anelli e cerchi concentrici, al Distretto di Polizia di Anderson si coagulano e si riducono ad una, vicende diverse ed apparentemente separate: il dramma, alla fine, diventa unico: l'esplodere immotivato e metafisico dell'aggressione e della violenza. Come se le città, ormai enormi tumori sociali, fossero tenute assieme dal manifestarsi di forze disgregatrici, dalla distruzione e dall'odio. Non c'è apparente motivazione, né spiegazione possibile, Distretto 13 è la constatazione di un certo modo (disperato) di vivere, rinunciando, però, ai poteri decodificatori e classificatori della ragione: c'è solo la manifestazione del fenomeno. Un cinema epifania.
Il compito di capire è del tutto assente: più interessante, invece, la descrizione di caratteri, la delineazione di comportamenti in situazioni difficili e senza scampo. Distretto 13 fa pensare, in questo senso, ad una prova condotta al laboratorio dove la mdp svolge la funzione di imparziale osservatrice. Macchina di constatazione, durante un'esercitazione di sopravvivenza: sono i più ricchi emotivamente a sopportare il game. Bishop, Leigh e Wilson sono quelli che dimostrano sopra gli altri, non una maggiore capacità strategica, ma una volontà di vivere che va oltre i condizionamenti artefatti dell'istituzione. Come se si trattasse, appunto, in un contesto in cui non si può più ricorrere agli apparati sociali e tecnologici, di sapersela sbrigare facendo ricorso a proprie qualità interiori istintive di difesa, come per gli animali braccati, in trappola. (...)
In Distretto 13 c'è sempre, a livello immediato, un aspetto obsoleto, subito sorpassato da un secondo grado di rinnovamento estatico, quasi visionario, come la contemplatività che Talby dimostra in Dark Star immobile nella sua cupola-utero, fisso a scrutare il cielo, il cervello perso in spazi infiniti. Probabilmente per dimenticare l'aspetto terreno e mortale della realtà: una modalità di trasognamento con cui sublimare le assurdità e le incomprensibilità del mondo sottostante.
Quel mondo che da Distretto 13 in poi, anche se sotto aspetti fantastici e futurologi, è stato presente in modo continuo e sottoposto a un'attenzione del tutto particolare. Una descrizione rara e spietata, senza false illusioni, all'interno del panorama della new Hollywood. In questo senso Distretto 13 è il film di Carpenter più concreto e realista, quello che descrive più fenomenologicamente la società moderna nel suo versante irrazionale. Quasi lo stupore di fronte a manifestazioni di violenza non più comprensibili se non, appunto, come ultimo risultato ed estrema conseguenza d'una civiltà la cui eccessiva dimestichezza con l'orrore, ha portato ad essere luogo effettivo di terrore e d'abbandono. Tale si presenta Los Angeles nei suoi quartieri suburbani da cui la polizia, per timore, è costretta a ritirarsi, spostandosi verso aree più abitate e facilmente difendibili. Situazione quasi allucinatoria e grottesca in cui viene a rovesciarsi, nel doppio senso del termine, la situazione di frontiera dei western: una conquista progressiva, di allora, di forte in forte, che diventa perdita e sconfitta; riemergere ed avanzare dei pellerossa metropolitani, delle bande voodoo, o semplicemente di ombre incerte che fuoriescono dalle viscere della terra in cui erano state ricacciate o sepolte.
Non si può, in questo senso, non notare la contemporaneità di temi e d'atmosfere fra Distretto 13 e La notte dei morti viventi di George A. Romero. In entrambi si assiste ad una resurrezione di forme considerate estinte che ricompaiono invece, inaspettatamente per minacciare l'intera organizzazione sociale. E tanto più angosciosa, poi, la loro sconfitta dal momento che avviene del tutto casualmente.
Il Male, se tale è possibile definirlo, diventa sconcertante perché, come misteriosamente è scomparso, altrettanto misteriosamente potrebbe riaffacciarsi, in ogni momento. L'incertezza regna sovrana, non c'è più assoluta certezza di nulla, qualsiasi evento può diventare l'innesco per catastrofi imponderabili.
Diversamente dal cinema catastrofico, però, che dei cataclismi fa un'epopea del disastro, un elemento imprescindibile di spettacolarità e di effetti speciali, Distretto 13 usa l'ignoto, lo stato d'emergenza come flagello e maledizione. C'è una specie di avvertimento che, si potrebbe dire, sfiora l'ammonimento religioso. La dimensione di un Centro minacciato dall'esterno, da forze che premono ai confini, come se si trattasse di un imminente crollo dell'impero. La sensazione di nuove invasioni barbariche, e di conseguenza di un ritorno alla medioevalità. Altre organizzazioni sociali, altre forme che, in qualche modo, allora, verrebbero a spiegare l'immanenza continua di queste infinite e dolorose trasformazioni. Un'era delle metamorfosi in cui riprenderebbero corpo gli antichi fantasmi, quelli esorcizzati ed occultati, per rivendicare i loro diritti. L'aspetto oscuro, cioè, rimosso e sepolto che ogni organizzazione civile si porta dietro, sacrificandolo, a vantaggio delle proprie necessità produttive.
Con Distretto 13, Carpenter dimostra d'aver saputo cogliere, senza per questo voler fare opera educativa o d'ammaestramento, le lesioni profonde e le scissioni più radicali. Semplicemente raccontando una vicenda elementare, con concisione lineare, senza nessuna complessa costruzione drammaturgica. Ed è proprio questo essenzialismo ad aver colto il nucleo nodale di paure e di ansie moderne: aver trasferito la dimensione noland, il vuoto nello spazio di Dark Star, in un contesto urbano: parlare della medesima devoluzione.
E alla linea di terrore e degrado metropolitano appartiene infatti Distretto 13 raccontando magistralmente le ultime ore di questa Police Station quando, come si è visto, per un imprevedibile errore vi rimangono chiusi dentro gli ultimi responsabili di fronte ad una banda di spettri in rapido aumento. Un partito preso dell'orrore che si fonda soprattutto su un codice estetico dell'invisibilità: agguato notturno, ma, ancor più, l'impalpabilità. In un certo senso un atteggiamento che mette in causa e supera i limiti da sempre imposti dal codice Hays: la barriera imposta fra vedere e non poter vedere è rovesciata da Carpenter a vantaggio della suspence. E proprio ciò che non si vede, infatti, a costituire l'elemento d'aggressione, recuperando quella potenzialità che censurandola si voleva esorcizzare. Il terrore e la paura che vediamo accrescersi sul volto dei protagonisti testimonia quest'impossibilità di cancellare semplicemente non volendo vedere, mentre invece i pericoli permangono. Ed è questo un atteggiamento che molti cittadini, di fatto, possiedono, tranquilli nelle loro abitazioni.
La sorpresa e lo stupore di Distretto 13 si riassumono in questa volontà sconcertante di ricordare, e di far vedere senza mostrare: le città non rappresentano più la sicurezza per cui erano nate agli albori della storia. Non è soltanto più una questione di mura o di muraglie che sono scomparse, ma di un Male ormai intrinseco nel tessuto urbano, un veleno che è la città stessa a produrre. (...)
In fondo, il grande rimosso che Distretto 13 ripristina è la massa come entità dell'indifferenziato e della materia: l'indistinto in cui si consumano in totale sfacelo ogni sentimento ed emozione, tutti gli aspetti positivi della bontà. Una combustione lenta e dolorosa. Nel loro dissolversi, e nel vuoto che ne resta: riti animistici, patti di sangue, alleanze voodoo, pratiche terzomondiste di sottosviluppo vengono, uniche, a ricostituire una solidarietà. Strana solidarietà perché fondata sulla distruzione e la morte. Come l'esistenza che rispecchiano. Una vita condotta a livelli quasi nulli ed infinitesimali di semplice sopravvivenza: furti, stupri e omicidi. Pratiche basse del crimine.
Spesso molto «lavoro» per un minimo di profitto. Gli esseri umani, i corpi non contano, sono solo ostacoli che si oppongono al raggiungimento degli obiettivi: impedimenti da eliminare. E nemmeno ha importanza quanti debbano morire delle proprie file.
Diventa più che evidente che in una dinamica sociale, come sono oggi gli Stati Uniti, in cui non si è più ripagati o garantiti secondo l'effettiva qualità e valore, dove ogni parametro di successo, di carriera e di ricchezza è stravolto, il desiderio accade solo come fattore immediato di vendetta. D'odio e di linciaggio per il tradimento e le ignominie che si è dovuti patire. Illusi, ingannati, mistificati sui prolifici effetti della società dei consumi, si sono ritrovati alla fine solo milioni di diseredati. Questi gli oscuri assedianti, una parte delle loro motivazioni, che altrettanto egualmente potrebbero ancora essere cambiate, modificate e moltiplicate in un processo infinito, e il cui risultato è comunque sempre una orrenda coazione a ripetere il rituale infinito della morte. Della consunzione. Dell'ultimo atto.
All'interno, invece, si intrecciano personaggi che è stato il caso a far incontrare, dei quali nemmeno si conoscono le psicologie anzi, di alcuni è tanto breve la loro comparsa, da poter sembrare anche loro delle fugaci apparizioni. Il tempo di presentarsi e morire. Vittime a catena del momento della vendetta: un massacro all'ultimo sangue senza nessuna opportunità di salvezza. Dove la strage diventa l'ultimo e unico gioco erotico per una società che sa solamente punire e reprimere. Mai comprendere, raramente ascoltare. Così la legge dell'ingiustizia si riversa come un'esplosione nucleare su ogni aspetto che la circonda, contaminando ed ammorbando.
Non è marginale che anche l'amore quando fa la sua comparsa, fra Leigh e Wilson, si esterni come impossibilità ad esistere, come desiderio irrealizzabile ed irrealizzato. Un semplice sguardo, un attimo di comunicazione intensa: una sensazione, forse, suscitata dalla strenua lotta di difesa della vita in cui si trovano accomunati. Difesa ad oltranza di cui, amaramente, ci sarebbe subito da chiedersi motivo e necessità, se al di là della salvezza che giunge infine inaspettata, non c'è mai scampo reale. Concluso l'incubo voodoo, giunti i soccorritori, lo svolgimento quotidiano riprende il suo corso, di nuovo con le sue formule costituite, i suoi steccati, le sue beffarde ingiustizie.
Continuando e prorogando la vita per non esistere; gli individui stretti nella morsa di infinite coazioni, responsabilità e doveri che non restituiscono nulla a nessuno. Se non l'ordine di per sé, come garanzia di funzionamento sociale.
C'è allora, in questa conclusione e constatazione crudeleamara, la sanzione e il verdetto per un sodalizio umano che rende le persone incompatibili fra loro: destinate soltanto a doversi chiudere ed indurire per non essere ulteriormente ferite nei sentimenti. Una scorza di protezione che diventa soffocamento, non comunicazione. Ai tre sopravvissuti non resta, in definitiva, che il proprio destino di isolamento: una continua voragine il cui premio non sarà altro che la morte o il ridicolo. L'inutilità d'essere vissuti.
G. Salza, C. Scarrone, Il cinema di Carpenter, Fanucci 1985

Critica (3):

Critica (4):
(Progetto editoriale a cura di); (Progetto editoriale a cura di) Redazione Internet; Redazione Internet (Contenuti a cura di); (Contenuti a cura di) Ufficio Cinema; Ufficio Cinema
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