RETE CIVICA DEL COMUNE DI REGGIO EMILIA
Torna alla Home
Mappa del sito Cerca in Navig@RE 


Ballando, ballando - Bal (Le)


Regia:Scola Ettore

Cast e credits:
Sceneggiatura: Ruggero Maccari, Jean-Claude Penchenat, Furio Scarpelli, Ettore Scola (dallo spettacolo teatrale Le bal, creato dal Théâtre du Campagnol su un'idea originale di Jean-Claude Penchenat); fotografia: Ricardo Aronovich; scenografia: Luciano Ricceri; costumi: Ezio Altieri, Françoise Tournafond; musica: Vladimir Cosma, con la consulenza di Armando Trovajoli; montaggio: Raimondo Crociani; interpreti: Christophe Allwright (il giovanotto di periferia/il giovanotto ossigenato), Aziz Arbia (il giovane operaio/il soldato americano con la tromba), Marc Berman (l'aristocratico/l'imbroglione/il collaborazionista/l'uomo del mercato nero), Régis Bouquet (il padrone della sala/il contadino/l'uomo che protesta), Chantal Capron (la mannequin/la crocerossina/la ragazza borghese/l'emula di Ginger Rogers), Martine Chauvin (la giovane fioraia/la studentessa/l'amica del ragazzo serio), Liliane Delval (la donna dai capelli lunghi/l'alcolizzata/l'amica del sosia di Gabin), Francesco De Rosa (Toni, il cameriere/il barman), Rossana Di Lorenzo (la signora), Etienne Guichard (lo studente/il professore), Raymonde Haudeline (l'operaia/la donna del partigiano/la venditrice/Ginette Leclerc), Arnault Lecarpentier (il tipografo/lo studente serio), Olivier Loiseau (il fratello dell'operaia/il soldato americano miope), Nanni Noël (la donna di piacere/la ragazza ebrea/la rifugiata senza famiglia), Jean-Claude Penchenat (il vecchio professore con la Bibbia/l'intellettuale/l'emulo di Fred Astaire), Jean-François Perrier (il sacrestano amoroso/il colonnello della Wehrmacht/il ballerino di boogie), Anita Picchiarini (l'amica dell'operaia/la magliaia/la fidanzata del partigiano/l'amica del ballerino di boogie), François Pick (lo studente/un amico), Geneviève Rey-Penchenat (l'aristocratica/la borghese/un'amica), Danielle Rochard (la fattorina/la violinista/la ragazza ossigenata/Veronica Lake), Monica Scattini (la ragazza miope), Michel Tory (l'operaio specializzato/il partigiano), Michel van Speybroek (l'uomo che viene da lontano/il sosia di Jean Gabin); produzione: Giorgio Silvagni per la Cinéproduction S.A./Films A2, Parigi/Massfilm, Roma/ONCIC, Algeri; origine: Italia, Francia, Algeria,1983; durata: 100'.

Trama:Una sala da ballo alla periferia di Parigi nella quale nel corso degli anni - il film è diviso in 5 tappe: 1936, 1940, 1945, 1956 e 1968 - si incontrano, di sabato, piccoli borghesi, commesse, lavoratori: un mondo di delusi e di esclusi, tutti celibi e tutti là per il ballo, che è il solo approccio e l'unico ponte di comunicazione.

Critica (1):Le bal è un film su cinquant'anni di storia francese, ma è insieme il racconto delle speranze dell'Europa e del mondo. Non sono molti i registi italiani che hanno saputo affrontare la cultura e la realtà di altri popoli: Rossellini (la Germania e la Francia), Luchino Visconti (l'ambiente germanico), Gillo Pontecorvo (l'Algeria), Antonioni (l'enclave anglosassone). Dopo Il mondo nuovo, a nostro rispettoso ma radicato parere decisamente memorabile, Ettore Scola recupera il filo della memoria francese mantenendo al suo interno il legame tra passato e futuro. Questo già dice le ambizioni del film: del resto tutto ciò che esso è, quanto mostra, ha incontrato il riscontro nelle emozioni e nei sentimenti del pubblico d'oltralpe, di solito molto geloso della propria cultura.
[...] L'idea basilare del ballo come topos dell'immaginario di massa (ma di una massa che ha un'identità: quella del popolo) si articola nei microeventi e nel pluralizzarsi delle individualità, tutte appropriatamente lumeggiate: nondimeno, in luogo di spegnersi in siparietti, in occhielli e personaggi irrelati, in sottolineature comportamentali valevoli per se stesse, i diversi momenti di narrato all'interno di una singola sequenza (che qui potremmo allargare alla ampiezza dei passaggi storici: il '36, l'occupazione, il dopoguerra, ecc.) disegnano una continuità, che è quella del film nella sua interezza. L'intuizione che fa de Le bal una metafora (che interpreta la vita di un grande paese) non contraddice la tangibilità e la pregnanza del racconto: la concretezza degli atti, delle incertezze, degli slanci e dei falsi pudori, in breve di quel repertorio di comportamenti che sono possibili in una sala da ballo. Ciò che è sintesi si correla con quel tessuto di piccole cose, ad un tempo sensuose e logiche, da cui arriva lo stile.
Di più: i 24 interpreti de Le bal raffigurano nel corso del film 140 personaggi circa, ognuno dei quali avvicinato e colto nei gesti essenziali, in caratteristiche che danno a pieno la loro qualità di archetipi. La persistenza delle facce mostra che la storia procede mutando i bisogni degli individui (dunque modificando gli abiti e il trucco, le acconciature, le musiche, gli stili di danza), ma non sottrae il grumo di sofferenze e emozioni che incide le loro fisionomie. Piuttosto che di caricature, di immagini sbozzate o appena accennate, si dovrebbe parlare di caratteri: tipologie che al modo francese vengono descritte nei tratti e nelle forme universali, tuttoché non disgiunte dal tempo. È in questo che il collettivo si salda con l'individuale (con passaggi continui dal totale ai piani ravvicinati), ma ancora in tale ambito la fantasia e l'estrosità del realismo italiano, che arriva pari pari dalla grande stagione del dopoguerra, si inscrivono nelle linee semantiche delle moralità e dei caratteri tipici nella cultura francese dal Seicento in poi.
Già in altri film di Scola (C'eravamo tanto amati, Il mondo nuovo), la narrazione veniva guidata verso una scala di graduazioni tra il presente, il passato e il futuro. Senza mescolanza di funzioni, o forzate sovrapposizioni. O slittamenti - al modo di Anghelopoulos - sull'asse cronologico all'interno di una stessa sequenza. Il flusso del tempo - tema da sempre caro a Scola - è subito affidato al virare del bianco e nero nel colore. Ma il criterio della riconoscibilità e della verosimiglianza viene mantenuto: la sala da ballo è in perfetto stile "art déco", con gli specchi e le luci rosate, i suonatori si conformano al mutare delle mode, come gli abiti, non sottoposti ad alcuna stilizzazione, le acconciature, il trucco (particolarmente curato attesa l'importanza delle espressioni), gli oggetti, tutto quanto insomma ridà proustianamente sullo spettro della visione le forme essenziali di un periodo. Il flashback iniziale - naturale scorrimento dall'oggi al passato - e lo sfilare degli anni seguendo il percorso della diacronia, sia pure per blocchi omogenei, rendono percettibilmente il senso della temporalità. Non però in maniera banale: il significato inferibile da una singola parte si continua, motiva e chiarisce in quella successiva; il presente, con i suoi dubbi, le incertezze, le paralisi, con la coscienza della vera dimensione della crisi, non soltanto ideologica, discende per rami complessi dalle esperienze e dalle cadute del passato.
L'attesa palingenetica di una nuova umanità nel Mondo nuovo era ricondotta alle vicende tuttora impregiudicate della prima grande rivoluzione; non si trattava di una ricostruzione storica, così come in Le bal il Fronte Popolare travolto dalla guerra, le speranze della ricostruzione, l'americanizzazione crescente non sono momenti di ricalco veristico. II realismo del cinema di Scola è un realismo allegorico e morale. Le bal non è affatto un film rétro. La passione e le emozioni investite negli anni del Fronte Popolare e della Liberazione, pur dimettendo ogni eccedenza retorica, non stanno nel bilancio delle cose ormai morte e invece si proiettano in avanti. Il passato interessa quando esso diviene materia di riflessione e di conoscenza: secondo la lettera - mi pare - del pensiero marxiano. È per questo che Scola ha il dono rarissimo di contornare verità e evidenze, oltreché valori, anche se a lui estranei. Le figure abbaglianti di Casanova e della dama austriaca nel Mondo nuovo rimangono in questo senso degli esempi forse irraggiungibili. Ma anche ne Le bal, pur schierandosi dalla parte della gente vera, i poveri, i deboli, l'occhio che guarda gli altri - gli aristocratici, i borghesi, i poliziotti - non è velato da durezza e risentimenti. Il concatenamento che il film stabilisce tra il generale e il particolare, tra la latitudine di ciò che è collettivo e il microuniverso dell'individualità, vale per tutti. E tutti si situano in quel flusso della memoria collettiva in cui la canzone di Trenet ("Que reste-t-il de nos amours") si prolunga ne "La Marseillaise", e la storia è il rullo compressore che azzera gli amori e le vite di ognuno. In maniera più propria, senza che la storia sia rifiutata e peggio ancora cancellata, Le bal è un film sulla vulnerabilità dei singoli di fronte al potere e al tempo. Tutte le figure che pigliano campo sullo schermo, con le ritrosie, le timidezze, i vizi segreti, le cattiverie, hanno un risvolto serio. L'ironia, che a volte granisce nel grottesco, specie se è questione di far risaltare le manie e le apparenze più ridicole, ha un incessante scambio di ruoli con il dramma. Il riso e la satira sconfinano nel pathos.
Lo Scola cantore dei mostri recupera la linea alta del realismo italiano, quello dove il comico e la fantasia si coniugano con le ragioni del cuore. E una disposizione della mente e del sentimento che ne Le bal si dirama verso le intense, emozionanti sequenze del reduce che torna a danzare privo di una gamba, o quella precedente della ragazza affamata cui un italiano offre un piatto di spaghetti, mentre su un grammofono gira un disco di "Parlami d'amore Mariù" (cantata tenerissimamente da Vittorio De Sica: che è il maestro riconosciuto di Ettore Scola).
Ma insieme con questo Le bal è anche un film sulle piccole solitudini metropolitane (tutti i personaggi arrivano separatamente, e si allontanano dalla sala da soli). Ed è un film sulla diversità: tema di Scola quanti altri mai, da Dramma della gelosia a Brutti, sporchi e cattivi, dal bellissimo Una giornata particolare all'altrettanto ammirevole Passione d'amore. La ragazza bruttarella e occhialuta che fa perennemente da tappezzeria; il giovanottello elegante e effeminato; la fanciulla ebrea; l'algerino; il tizio contorto e lanternuto; al limite l'ufficiale nazista respinto da tutti e obbligato a danzare con lo spione: il campionario delle tipologie e delle sfumature è molto ricco. Ma più che in questi casi - limite, in cui ciò che preme è soprattutto l'esistenziale - la vera diversità dei film appartiene al popolo. Qui davvero il regista ingrana il dramma dell'alienazione e della solitudine in un soggetto calato dentro la realtà e la storia, ma da queste messo ai margini.
Contro la storia dei potenti e dei ricchi, il popolo si convoca all'interno di uno spazio chiuso (altra invariante del cinema di Scola: La terrazza, Una giornata particolare, la carrozza de Il mondo nuovo) liberamente gestendovi la propria naturalità. II ballo è un modo per ingannare l'isolamento, è l'uso del corpo che si manifesta con manovre furtive, ginocchi insinuanti, sfioramento dei lobi, dei capelli, delle mani; è la comunicazione tra un uomo e una donna che arriva alla frontiera della parola, in certi casi oltre. Nella festa popolare esso diviene il desiderio liberato dalle ipoteche del potere - e che per un breve tratto, nel tempo esiguo e fantastico dell'esecuzione, vi si sottrae. II rifiuto della parola, come concentrato dei luoghi comuni della borghesia, ha un'innegabile valenza ideologica (del resto in altri film di Scola si incontravano lunghe sequenze senza dialoghi).
Ma ne Le bal il raccordo tra i corpi è vuotato di voce: la banda sonora, piena di musica, va esente da fruscii, sussurri, respiri. Il corpo che si inscena è in prospettiva destinato a diventar simulacro. La bellezza, patetica e pasoliniana, del film è nell'allineare occhi, sguardi, desideri non ancora catturati e trasformati dall'acculturazione piccolo-borghese; la sua densità e la complessità cadono nei movimenti con cui il destino della mutazione si svolge con inesorabile progresso.
Non stupisce che quest'opera sulla storia e la vita sia anche un film sulla storia, e poi sulla vita del cinema assunto come luogo dell'immaginazione popolare. Non sono soltanto le molte citazioni, da Duvivier agli americani, dalla commedia italiana alle tipologie di certi attori (Gabin, Fresnay, Mireille Balin, la Romance, la Darrieux, la coppia Astaire-Rogers); o la "Revue du Cinéma" leggiucchiata dalla solita ragazza occhialuta.
Del cinema, Le bal ricompone il legame peculiare tra le immagini e la colonna del suono, tra l'esistenza dei corpi e dei gesti, nella loro inequivocabile perentorietà, e il costruirsi dei brani musicali su una linea di significante che disvolge la concretezza e la realtà in nostalgia e struggimento. Che non si tratti di un film muto è fuori di ogni dubbio. Ma che un cinema di tale essenzialità, e al contempo così vario e emotivamente pieno, sia recuperato e ripensato metalinguisticamente da un modello formale latamente realista, è qualcosa - crediamo - su cui riflettere. Non tutto insomma, se gestito con intelligenza, è destinato a fiaccarsi dentro la scorza del nostro cinema.
Gualtiero De Santi, Cineforum n. 233, 1984

Critica (2):Chiaro esempio di film-scommessa, assolutamente fuori sintonia con qualsiasi andazzo corrente e scarsamente appetibile dai patiti del film "musicale" in senso lato, Le bal è un'opera dove confluiscono molti ingredienti e diverse pulsioni ma dalla quale, a sua volta, scaturiscono e si ramificano un'incredibile quantità di possibili letture, riflesse l'una nell'altra e con tendenza all'appropriazione reciproca. L'utilizzo di "maschere", di personaggi paradossali ha fatto pensare a Fellini: la struttura musicale, unita alla completa assenza di parlato, ha rimandato ad una sorta di musical beffardo e funereo; il percorso diacronico (dal Fronte Popolare ai giorni nostri, passando per la guerra, la Residenza, gli anniCin quanta, il Sessantotto) ha suggerito l'identificazione di una parabola, o magari un apologo, storicheggiante. Ma le decodificazioni a senso unico non ci sembrano funzionali all'articolazione di Le bal: non spiegano, ad esempio, le sue contraddizioni interne, i riferimenti, le prolissità e i passaggi fulminei, l'alternanza di patetico e buffonesco. Sembra quasi una successione libera, e liberamente avvicinabile, di quadretti umani calati in una Storia verso la quale Scola non assume atteggiamenti apodittici né altometaforici, di chi voglia tutto interpretare e transustanziare, ma piuttosto accostata e descritta come quinta scenografica (il film, non dimentichiamolo, è tratto dalla messa in scena del Théâtre du Campagnol e ne utilizza i medesimi, stupefacenti attori) sullo sfondo della quale, con legami sempre pertinenti e spesso degni di favolisti d'altri tempi, regista e sceneggiatori tessono le fila di complicate trame e sottotrame, riferimenti e rispecchiamenti reciproci. Gli attori mutano e si travestono continuamente, ma mantengono intatte nella scansione alcune peculiarità: Marc Berman
(eccezionale, straordinario Uriah Heep della situazione) è sempre viscido, spione, infido (ma riuscite a riconoscerlo come imitatore di Elvis Presley nell'episodio anni Cinquanta?); Jean François Perrier, altra maschera incredibile, è sempre lo spilungone aquilino; Monica Scattini è la ragazza miope che nessuno invita a ballare e che legge riviste di cinema (le cui copertine, con i vari divi, ci offrono un efficace termometro dell'immaginario corrente); non si contano riferimenti cinefilici, da Pepé le Moko a Maigret (anche qui, lo stesso attore Michel Van Speybroeck), da René Clair a Lili Marlene, dal realismo naturalista ai bagliori felliniani.
È la piccola grande umanità infangata dalle malvagità della Storia che si rincorre lungo le coordinate rigorosamente mute di una fiaba moderna: è un peccato che la colonna musicale, sulla carta così importante in un film simile, risulti l'anello più debole dell'operazione. Le canzoni, recuperate e riarrangiate alla buona da Vladimir Cosma (quello del Tempo delle mele) e successivamente supervislonate da Armando Trovajoli, il musicista di fiducia di Scola, sono banali e prevedibili. Non c'è contrappunto, non ci sono ironia né trasgressione: solo tappezzeria. Ma è talmente vero che Le bal non è un film musicale che anche questo grave deficit si polverizza e scompare nella più sottile e genuina musicalità dell'ordito drammaturgico ed emozionale: insomma, nella sua recuperata e virginale "visività", l'ultimo film di Ettore Scola si fa desiderare anche, potenzialmente, senza musica. Un paradosso o una conquista?
Roberto Pugliese, Segnocinema n. 19, maggio 1984

Critica (3):

Critica (4):
Ettore Scola
(Progetto editoriale a cura di); (Progetto editoriale a cura di) Redazione Internet; Redazione Internet (Contenuti a cura di); (Contenuti a cura di) Ufficio Cinema; Ufficio Cinema
Valid HTML 4.01! Valid CSS! Level A conformance icon, W3C-WAI Web Content Accessibility Guidelines 1.0 data ultima modifica: 09/10/2009
Il simbolo Sito esterno al web comunale indica che il link è esterno al web comunale