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Occhi, la bocca (Gli)


Regia:Bellocchio Marco

Cast e credits:
Soggetto e sceneggiatura
: Marco Bellocchio; coll. alla sceneggiatura: Vincenzo Cerami; fotografia: Giuseppe Lanci; operatore alla macchina: Giuseppe De Biase; scenografia: Luigi Cecchini, Leonardo Scarpa; costumi: Ua Morandini; montaggio: Sergio Nuti; musica: Nicola Piovani; interpreti: Lou Castel (Giovanni Pallidissimi) Angela Molina (Wanda), Emanuelle Riva (Madre di Pallidissimi), Michel Piccoli (zio Nigi), Antonio Piovanelli (padre di Wanda), Giampaolo Saccarola (Agostino), Viviana Ton (Adele), Antonio Petrocelli (Medico); produzione: Enzo Porcelli con la collab. di Ena Ferrario per la Odissya Roma - Gaumont Parigi, con la coll, della Rai-Radiotelevisione Italiana; distribuzione: Gaumont; origine: Italia/Francia, 1982; durata: 100’.

Trama:Giovanni Pallidissimi è un ex attore arrabbiato. Arriva da Roma alla stazione di Bologna. Deve tornare in famiglia perché suo fratello gemello Pippo si è ucciso. La città è illuminata per le feste di Natale e quando arriva a casa vede lo zio Nigi che ascolta per TV gli auguri di Capodanno del Presidente Pertini. Poco distante, un attimo dopo, si accanisce disperatamente sul cadavere del fratello composto nella bara. Poco a poco riprende contatto con la famiglia, col fratello quarantenne e soprattutto con la madre che non sa darsi pace per avere ignorato i propositi del figlio morto. Spunta il nome di Wanda, la ragazza di cui Pippo era innamorato e alla quale aveva regalato un appartamento. Giovanni conosce Wanda nella casa di lei in un modesto quartiere popolare. Il padre di Wanda è ossessionato dalla irregolarità della ragazza, la rimprovera in modo ridicolo, la minaccia.
Giovanni convince Wanda a partecipare alle esequie religiose di Pippo, lei acconsente ma lascia poi la cerimonia a metà. Giovanni la cerca e comincia una storia con lei. Wanda va da un ginecologo perché è incinta da tre mesi, sembra non voglia abortire e mostra scarse preoccupazioni per le proprie difficoltà economiche. Giovanni entra in un cinema dove proiettano I pugni in tasca, il film che lo ha reso famoso. Si accorge della presenza di Wanda e, quando sullo schermo si svolge la scena del matricidio la bacia con forza. Nel cinema arriva anche zio Nigi; Giovanni si nasconde mentre quello si burla di lui con due ragazze. Wanda e Giovanni si ritirano in casa di amici e Giovanni confida alla ragazza il suo fallimento politico e professionale: lamenta di non essere mai riuscito a superare lo stereotipo dell’arrabbiato, di essere diventato un carattere, una macchietta. Poi Giovanni va a casa dalla madre che poche sere prima gli aveva manifestato il desiderio di sognare Pippo. Si traveste come il fratello, chiama la madre e, simulandosi fantasma, le rivolge una confessione di amore filiale. Si commuove. La madre però sì accorge della messa in scena ed allora Giovanni scappa, torna da Wanda. Sotto la doccia si toglie il trucco biancastro dalla faccia e cerca con le mani il ventre della ragazza. Lei lo guarda amorosamente perplessa.

Critica (1):Ritorno a casa, in provincia. Una provincia che resta lontana da Giovanni e dalle convenzioni abituali, fino a diventare altro, metafora, allusione storica. La provincia è una zona sociale, appartiene alla coscienza e alla cultura di massa e tuttavia resta sullo sfondo, salvo affiorare o pesare nei discorsi di famiglia, rimossi e tenaci, quasi misteriosi nel resistere al tempo. Giovanni è un figliol prodigo speciale: non torna per riabbracciare il padre, ma la madre. Al punto cui è arrivato deve scegliere se celebrare all’infinito la propria immagine ribelle o cercare un’altra strada. Ecco cosa insegue tornando a casa. Confusi segnali lo spingono a coniugare la propria crisi col caso, la fatalità, le occasioni appena prevedibili per chi ha la sua storia. La scelta è calarsi in una prova concreta accettando la congiuntura di eventualità e bisogni. Non una risposta totale, quindi, ma un’esperienza da costruire. I furori del ’68 sono lasciati definitivamente dietro le spalle, non per un passato che riaffiora, ma per il bisogno di possederlo meglio e subito ripartire. Con disincanto e tuttavia, ancora una volta, lontano da cattivi compromessi. Allora la casa non è il conforto della normalità dopo tante e faticose stagioni di follia, la casa è la madre, il luogo dove Giovanni risolve di attraversare l’ombra di sé anche scontando l’inevitabile insidia dei rimorsi. Ritrovare la madre consente di avviare una lenta, incerta e necessaria riconquista del corpo negato dall’ideologia. E la madre, a sua volta, cresce nel bisogno e nel desiderio forzando gli angusti confini naturali (i confini della storia individuale come gli angusti confini naturali (i confini della storia individuale come di quella collettiva data) per essere altra, una possibilità nuova. Forse solo adesso Giovanni/Lou Castel e Bellocchio possono fare i conti onestamente e in piena libertà con la straordinaria rottura de I pugni in tasca, una gloria passata fulgida, ma gravosa per entrambi. Davanti al Bellocchio di oggi molti critici, sollevati o delusi che siano, parlano di revisione: una parola brutta, ma appropriata per gli osservatori distratti. Secondo loro, a causa del riflusso, di Massimo Fagioli e del cattoemmellismo di un tempo, Bellocchio rinuncerebbe all’ultimo anelito di ribellione per approdare alle placide spiagge del senso comune. Con buona pace, sembrano dire, per la ricerca che il regista ha condotto su di se, sul proprio ruolo e il proprio linguaggio, dall’esito poco felice di Marcia trionfale. Il passaggio di toni, che a nostro avviso è anche scelta simbolica in senso pieno, viene così giudicato: se cambia l’umore e si spostano i bersagli, addio rivolta. Gli occhi, la bocca, che porta alle estreme conseguenze l’esemplare riflessione de Il gabbiano, conclude invece un percorso coerente. Non è un caso o un vezzo narcisista dell’autore se a I pugni in tasca rimanda di continuo. Come in quel primo film, Bellocchio vuole misurarsi con un rifiuto radicale. La simbologia naturalista o espressionista (In nome del padre) e l’aggressione frontale che comportavano sono abbandonate ma il rifiuto resta a scavare nel fondo, restringe il campo di osservazione e, nello stesso tempo, lo allarga, penetra in altre combinazioni del caso-limite, della normalità. Quindi Bellocchio punta la lente su se stesso. E una svolta che risente senza dubbio delle esperienze personali che ha compiuto negli ultimi anni (i seminari di Fagioli o la cura particolare con cui ha organizzato la propria vita familiare), ma in misura se non maggiore, equivalente, del dibattito sui bisogni e delle esperienze che hanno investito, lacerato e cambiato la cultura di sinistra in Italia. Fare autocritica ha significato e significa per il regista, spostare il rifiuto sulla propria storia drammaturgica, sul codice ormai paralizzato in feticcio, in ruolo politico e professionale immutabile.
La transizione che Bellocchio riconosce e cerca di influenzare, che avverte in se, nel proprio cinema, ma anche fuori, in una società che non cessa di desiderare cambiata, è scritta nell’urgenza e a un tempo nella lentezza di processi tesi a definire nuove forme della politica e dell’estetica. Questa transizione è il luogo dove si riqualifica il rifiuto: non è il rifiuto che viene meno, ma i suoi oggetti invecchiati, la sua lingua fatta sterile dalla negazione priva di sbocchi. Un’idea se non una via al positivo occorre cercarla, in qualche modo bisogna rinascere.
Così Giovanni deve morire nel suo doppio, deve attraversare una finzione di morte fino ad abbandonare il gesto ormai vano (ora, non da sempre) della rivolta. Giovanni sfuma nel fantasma di Pippo, l’unica persona innamorata vista in tanti anni, e cerca la madre. Anzitutto la madre del passato carica delle ambiguità affettive riflesse nella furia omicida di Ale, la madre come bisogno di portare alla luce, di riconoscere un amore finalmente separabile dall’odio antico e necessario. Ale cercava la madre cieca per abbandonare il capo sulle sue ginocchia, Giovanni tenta un inutile esorcismo andando a rivedersi nell’atto di precipitarla nel burrone. La madre cieca non capiva e anche la madre di oggi non capisce, tuttavia l’amore travolto dal rifiuto deve essere detto e compreso.
Istituzioni totali già aggredite come la famiglia, il collegio, la caserma, l’ospedale psichiatrico, lasciano il posto al ruolo iconoclasta impoverito (accecato) dalla ripetizione. Una ripetizione che ha usurato l’esperienza dell’autore-attore anno dopo anno, film dopo film, e che già aveva segnato col marchio dell’impotenza autodistruttiva la cupa utopia di Ale. Suo fratello Leone era già una vittima inutile, la parte incolpevole del matricidio.. "Attorno ai rottami s’aggirerà desolato Leone, il cretino, alla ricerca dei segni e dei ricordi di una comunione materna".., ora è anch’egli un fantasma. Ecco perché, nel tornare sui suoi passi, nel bisogno di conoscere e criticare le proprie rimozioni, Giovanni punta alla morte simbolica, si abbandona ad essa.
La morte ha sempre avuto un posto importante nel cinema di Bellocchio, come luogo rituale e occasione di sacrilegio. Anche di esorcismo, però. Un confuso senso di impotenza traspare ogni volta dalla furia aggressiva; l’antico angoscioso ricatto dell’educazione cattolica, col suo beffardo disprezzo per l’umana precarietà, è sempre in agguato accanto al furore impaziente dell’adolescenza e della giovinezza. Ale oltraggia il cadavere della madre, come Angelo quello del prete per anticipare la strategia di terrore della messa in scena nel teatrino del collegio (In nome del Padre): ma sono giochi spossanti, preludono ad un fallimento. Giovanni infine si accanisce sulla salma del fratello per l’impotenza ad accettarne il suicidio.
Finalmente quando Pippo compare in primo piano la vecchia ossessione di Giovanni si chiarisce e possiamo, con lui, guardare nella zona buia, nell’altra faccia, uguale e contraria, della passione ribelle: nell’accanirsi sul cadavere di Pippo, Giovanni si accanisce su se stesso. Privato del gesto, consumato dal suo doppio prima che la storia cominci, Giovanni guarda al fondo di una crisi di identità: il gesto negato è scelta drammaturgica, ruolo, ipotesi creativa, cinema. Non gli resta allora che un’ultima parte, la confessione con la madre.
In una scena di teatro da camera, Giovanni si cala nel melodramma rovesciando l’enfasi straniata che chiudeva I pugni in tasca. La dicotomia stridente fra bel canto e lamento epilettico, fra vecchia e nuova convenzione tragica, si ricompone nell’essenza patetica. È comunque un gioco scoperto, un espediente al contrario della strategia di terrore inventata da Angelo a suo tempo. Quando il gioco si scopre, l’estrema finzione diventa vana, Giovanni non può reggere ad un recupero di passato puro e semplice. La madre del passato, uccisa simbolicamente e rivissuta nel sogno della messa in scena, deve essere accettata fino in fondo per la sua verità affettiva, ma è ancora una volta lontana dai bisogni del presente. Oltre il portone di casa, Giovanni si rivolge a nuovi conflitti e incertezze, a un nuovo calore: non a un’altra madre, ma a una madre altra.(...)
Una delle prime cose che Giovanni vede tornando a casa è l’imperturbabile zio Nigi che ascolta il messaggio di Pertini in TV per il Capodanno. Il Presidente parla di vedove argentine, zio Nigi fuma il sigaro: è composto e indifferente, tranquillo nel suo potere. Ed è la forma attiva, perciò pericolosa e nemica, della statica provincia che Giovanni trova.
I pugni in tasca era anche il rifiuto della provincia, per tutto ciò che aveva significato nel dopoguerra e negli anni ’50 e per il peso di arretratezza che continuava ad avere. Andare verso la città era un atto di transizione, un avvicinamento al centro, in qualche modo alla ribellione del ’68. Ora la città è il luogo della crisi e Giovanni torna in provincia, nella provincia delle radici, non solo personali di Giovanni ma anche di una persistente contraddizione storica.
La provincia e la madre concludono due percorsi affini, ma in provincia c’è zio Nigi, il padre sopravvissuto. Ancora una volta Bellocchio riesce ad estrarre dalla propria esplorazione complessa, una sufficiente chiarezza di sintesi politica nell’individuare i bersagli. La transizione de Gli occhi, la bocca è simmetrica e contraria a quella de I pugni in tasca. Una nuova strada che Bellocchio può intraprendere proprio perché ha saputo restare fedele a se stesso. Una strada piena dei rischi che ha sempre accettato di correre.
Tullio Masoni, Cineforum n. 219, novembre 1982

Critica (2):

Critica (3):

Critica (4):
Marco Bellocchio
(Progetto editoriale a cura di); (Progetto editoriale a cura di) Redazione Internet; Redazione Internet (Contenuti a cura di); (Contenuti a cura di) Ufficio Cinema; Ufficio Cinema
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