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Morto Stalin, se ne fa un altro - Death of Stalin (The)


Regia:Iannucci Armando

Cast e credits:
Soggetto: dalla graphic novel di Fabien Nury e Thierry Robins; sceneggiatura: Armando Iannucci, David Schneider, Ian Martin (II), Peter Fellows; fotografia: Zac Nicholson; musiche: Christopher Willis; montaggio: Peter Lambert; scenografia: Cristina Casali; arredamento: Charlotte Watts; costumi: Suzie Harman; interpreti: Steve Buscemi (Nikita Khrushchev), Simon Russell Beale (Lavrentiy Beria, Capo dei Servizi Segreti), Paddy Considine (Compagno Andryev), Rupert Friend (Vasily Stalin), Jason Isaacs (Generale Georgy Zhukov), Michael Palin (Vyacheslav Molotov), Andrea Riseborough (Svetlana Stalin), Jeffrey Tambor (Georgy Malenkov), Richard Brake (Tarasov), Olga Kurylenko (Maria Yudina), Jonathan Aris (Mezhnikov), Paul Whitehouse (Anastas Mikoyan), Gerald Lepkowski (Leonid Brezhnev), Adrian McLoughlin (Joseph Stalin), David Crow (Khrustalyov); produzione: Quad Productions-Main Journey-Free Range Films-Gaumont; distribuzione: I Wonder Pictures; origine: Francia-Gran Bretagna, 201; durata: 107’.

Trama:Nella notte del 2 marzo 1953 un uomo sta per morire. Ma non si tratta di un uomo qualunque. È Joseph Stalin, Segretario Generale dell'Unione Sovietica: tiranno, sadico, dittatore. Stalin è stravolto dalle sofferenze e prossimo a tirare le cuoia. È in questo confuso e disarmante avvicendarsi degli eventi che si apre la possibilità, a chi sa giocare bene le proprie carte, di diventarne il successore.

Critica (1):La sete di potere offusca la mente, diventa un’ossessione e rischia di trasformarsi in un’arma a doppio taglio. Le cospirazioni sono animali selvaggi difficili da domare, che spesso si rivoltano contro il proprio padrone, lasciandolo morente sulla strada del cambiamento. Il regista e sceneggiatore Armando Iannucci racconta la fine di un’epoca in Morto Stalin, se ne fa un altro, una commedia nera, pungente, dove le parole sono colpi di pistola. Un termine sbagliato può decretare la vita o la morte di migliaia di persone innocenti, mentre a palazzo le più alte cariche del regime cercano di spartirsi la Grande Madre Russia.
Siamo nel 1953, il periodo delle purghe, delle torture della polizia segreta e dei rastrellamenti di massa. Joseph Stalin crolla sul pavimento per un’emorragia cerebrale, ma la sua morte verrà annunciata alcuni giorni dopo. Il Paese si stringe attorno al feretro del suo leader, mentre nell’ombra si scatena una lotta in stile House of Cards, con falce e martello.
I fedelissimi di Stalin chiocciano come galline impaurite attorno al loro gallo senza vita, e si preparano a prendere il suo posto. Il successore legittimo è Georgy Malenkov, un burattino nelle mani di un partito di squali, che aspettano il momento giusto per sbranarsi a vicenda. Il depravato Lavrentiy Beria, capo della polizia segreta, cerca di eliminare il suo diretto avversario Nikita Khrushchev, per poi circuire Malenkov e governare la nazione. Ma nessuno ha fatto i conti con il generale Georgy Zhukov, un uomo senza scrupoli, pluridecorato sul campo, che può scatenare un golpe tra un banchetto e una messa. Si aprono le danze, che vinca il più dannato.
Morto Stalin, se ne fa un altro è una satira feroce sulla follia che regola un regime totalitario. I politici se ne infischiano del popolo e pensano solo al proprio tornaconto, con la tracotanza di ritenersi al di sopra della legge. I peggiori crimini rimangono impuniti e a pagare è la gente comune, che non ha i mezzi per difendersi. Passano i decenni, ma certe dinamiche non cambiano. I leader degli Stati continuano a dare scandalo, però non abbandonano il comando, e restano al vertice nonostante i processi in corso.
Il film di Iannucci, tratto dalla graphic novel di Fabien Nury e Thierry Robin, è un affresco incisivo, che fa riflettere anche sul marcio delle democrazie occidentali. Il regista scozzese segue la scia del suo In The Loop, una sferzata sarcastica sulla guerra in Iraq, e dopo aver attaccato il capitalismo vola dall’altra parte del mondo per affrontare il comunismo. La sua arma è una sceneggiatura quasi teatrale, ambientata nei saloni sfarzosi e negli angoli più bui, dove nessuno può sentire i sussurri dei congiurati. Vedremo se, come preannunciato, Morto Stalin, se ne fa un altro sarà censurato in Russia, in un clima da nuova Guerra Fredda in cui anche un film può rappresentare un attacco alla Storia.
Gian Luca Pisacane, La rivista del cinematografo – cinematografo.it, 2/1/2018

Critica (2):Capita piuttosto raramente che quella prassi tanto detestata dai puristi del cinema di tradurre in italiano, modificandolo, il titolo del film, si riveli una scelta vincente. The Death of Stalin, convertito in Morto Stalin, se ne fa un altro dalla distribuzione (...), ne è una piacevole eccezione, capace di cogliere una sfumatura assente nell'originale: la ciclicità attualizzante su cui l'intera satira di Armando Iannucci si fonda.
Il regista scozzese, complice anche un cast d'eccezione, tra cui spicca uno Steve Buscemi al meglio di sé, costruisce un'opera degli eccessi, in cui il black humor raggiunge tonalità tanto cupe quanto esilaranti. Riprendendo l'omonimo graphic novel di Fabien Nury e Thierry Robin, Iannucci porta quindi in scena una lunga serie di personaggi ridicoli, dai soldati privi di qualsiasi pensiero critico, automi sia nella paura della sovversione, sia nella fedeltà, ai vertici del Cremlino, troppo preoccupati di piacere a Stalin quasi come a un fidanzato (le barzellette a cui ride vengono promosse, tutte le altre meticolosamente scartate; alle sue serate-film non si può dire no, nonostante guardi solo western), ai figli, Svetlana e Vasilij, che sembrano bloccati in un'infanzia di vizi e pretese.
Ed è mentre il regime è al culmine del suo stato di terrore, mentre le annotazioni d'esecuzione passano di mano in mano, smistate come liste della spesa, e i cadaveri si accumulano in un inno alla violenza cieca – ma allo stesso tempo sciocca –, che il grande dittatore, colui che fa tremare le ginocchia a tutti, indistintamente, se ne va. Eppure non c'è alcuna morte da eroe, per lui, nessun combattimento, e nemmeno un attentato, solo un infarto portato ai limiti dell'assurdo tra burocrazia lenta e degradanti impellenze fisiche (la pozza di urina in cui giace per ore, la sete scambiata per messaggio profetico).
Ma come si dice, quando il gatto non c'è, i topi ballano. E d'improvviso la stregua di personaggi a fedeli a Stalin, fino a poco prima ridicolmente inetti, si rivelano, pur senza perdere i connotati più ironici e grotteschi, veri maestri d'astuzia: dopo un funerale farsa, si avvia quindi un lungo ciclo di successioni al potere. Come un gioco della sedia, in cui, ogni volta che termina la musica, qualcuno resta in piedi, i ministri Malenkov, Berija e Chruščëv, si succedono al governo. E proprio qui, tra le scene di chiusura del film, in quei titoli di coda che evocano un futuro di somiglianze, si insinua l'arguzia del titolo italiano: il gioco è concluso? È bastata la fine dell’Urss per porre fine all'effetto domino del potere? È nel silenzio, nello schermo nero e nell'uscita dalla sala dello spettatore, che Iannucci dà la probabile risposta negativa a queste domande.
Katia Dell’Eva, cineforum.it, 27/11/2017

Critica (3):

Critica (4):
(Progetto editoriale a cura di); (Progetto editoriale a cura di) Redazione Internet; Redazione Internet (Contenuti a cura di); (Contenuti a cura di) Ufficio Cinema; Ufficio Cinema
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