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Roman Polanski: A Film Memoir


Regia:Bouzereau Laurent

Cast e credits:
Fotografia: Pawel Edelman; musiche: Alexandre Desplat; montaggio: Jeff Pickett; interpreti: Roman Polanski, Andrew Braunsberg; produzione: Andrew Braunsberg e Luca Barbareschi per Anagram Films e Casanova Multimedia; distribuzione: Lucky Red; origine: Gran Bretagna, 2011; durata: 94’.

Trama:Conversazioni con l'autore, spezzoni di film, foto private ed esclusive e documenti di cronaca raccontano la straordinaria storia del regista Roman Polanski: dalla sua infanzia nel ghetto di Cracovia ai suoi primi film in Polonia, dal trasferimento a Parigi alla sua carriera in Europa e in America (coronata da un Oscar per "Il pianista"), senza tralasciare la tragedia dell'omicidio di sua moglie Sharon Tate a Los Angeles e la controversia che circonda il suo arresto nel 1977, per arrivare alla sua vita di oggi in Francia insieme alla moglie, Emmanuelle Seigner.

Critica (1):A Film Memoir è una lunga conversazione con il suo amico Andy Braunsberg, dove Polanski accetta di parlare di tutte le tra­gedie della sua vita. La morte di sua madre ad Auschwitz, la de­portazione di suo padre a Mauthausen, il massacro di Sharon Ta­te da parte del gruppo di Manson, l'arresto e la prigione con l'ac­cusa di aver abusato di una minorenne, la fuga dall'America, l'ul­timo arresto a Zurigo due anni e mezzo fa. Se pure non fosse la vi­ta di uno dei più grandi geni della storia del cinema, sarebbe co­munque un documento straordinario sui miti e la storia degli ultimi settant'anni, dall'Olocausto al dopoguerra, al comunismo sovietico, la swinging London degli anni Sessanta, il '68, l'epoca d'oro di Hollywood e la fine del sogno americano, la terribile bel­lezza dei Settanta, la restaurazione degli Ottanta, fino all'alba in­certa del nuovo millennio. E un racconto quasi insopportabile anche soltanto da ascoltare, e lui l'ha vissuto. In molti punti s'in­terrompe per la commozione. (...)
Una volta visto A Film Memoir mitrovodavanti un uomo di 77 anni che ne dimostra venti di meno, impegnato a scrivere un nuovo film. Come ha potuto resistere? Non ha mai avuto la tentazione di farla finita?
«Non una, molte volte. Mi ha aiu­tato Faulkner. Ricorda il racconto Le palme selvagge?Alla fine il protagonista, che ha vissuto una tragica storia d'amore, in prigione rnedita il suicidio, guarda la finestra della cella e pensa: se io mi ammazzo la sola memoria di questo amore sparirà per sempre con me. Quando un uomo muore, il suo mondo, il pensiero se ne va con lui.A parte questo, la mia vita non è stata soltanto una discesa. Vi sono state compensazioni, stagioni di assoluta felicità»
Parliamo di questa stagione fe­lice, la metà degli anni Sessanta. A soli trent'anni raggiunge Il successo internazionale con Repulsion, protagonista Catherine Deneuve...
«Il mio peggior film!», ride.
Nei tre anni successivi una serie di capolavori, Cul de sac, Il ballo dei vampiri (sciaguratamente tradot­to in italiano Per favore non mor­dermi sul collo), Rosemary's Baby, che la consacrano il genio nascente del cinema mondiale. Conosce Sharon Tate, diventate la coppia più amata di Hollywood. Sono gli anni della swinging London, dove lei vive, quelli della speranza, della rivoltagiovanileedellaliberazione sessuale.
«Erano anni fantastici, ci si conosceva tutti. Andavi in un locale e ti trovavi accanto i Beatles o i Rolling Stones, Peter Sellers...»
Ho visto le sue foto con Keith Richards. Era per i Beatles o i Rolling Stones?
«Beatles, tutta la vita!» (...)
Passano anni bui, di lutto, ma nel '74 torna al successo mondiale con un capolavoro, Chinatown. Un enorme successo anche di pubblico, nonostante quel finale disperato. Sarebbe possibile oggi?
«Forse no. Già all'epoca litigai con lo sceneggiatore che voleva un lieto fine. Ma non avrebbe avuto senso. Volevo lasciare il senso del­l'ingiustizia. È l'unico modo che ha l'arte per sperare di convincere le persone a cambiare le cose. A quattordici anni avevo visto al cinema Uomini e topi di Steinheck ed ero uscito devastato, non riuscivo a darmi pace. Poi mi dissi: se non ci fosse stato quel finale ora non sarei qui a pensarci da ore. Fu una lezio­ne per la vita».
L'ultima frase «lascia perdere Jake, è Chinatown» condensa la fiosofia di tanto suo cinema, l'idea chei sistemi siano sempre più forti degli individui. Qualcosa che subito dopo avrebbe sperimentato sulla sua pelle nel caso di Samantha.
«Ho fatto un terribile errore, che continuo a pagare. Ma non sono scappato, ho ammesso le mie colpe. Ero a Tahiti per le riprese di un film, sono tornato in America per consegnarmi, confessare e andare in galera. La mia confessione era l'unica vera prova. Mi mandarono in un carcere dove si uccidevano detenuti ogni giorno. Ne uscii vivo, convinto di aver espiato la pena. Ma il giudice ci ripensò e disse di volermi rimandare in galera con una pe­na indeterminata, insomma avrebbe poi deciso lui. A quel punto lasciai l'America per sempre»
(...) Con una vita come la sua è paradossale che lei abbia spesso raccontato drammi chiusi nelle quat­tro mura di un appartamento, con protagonisti dall'esistenza anonima, comune.
«L'immagine che mi ha più i­fluenzato è il ritratto dei coniugi Arnolfini di Van Eyck. È una scena al­l'apparenza semplice, un uomo e una donna che si tengono per ma­no al centro di una stanza da letto di un ricco appartamento borghese.
Eppure è una delle opere più enigmatiche della storia dell'arte. La normalità è piena di mistero».
A giudicare dallo humour sulfureo dei suoi film, che balena sempre nel mezzo dell'angoscia più totale, si direbbe che nella scrittura l'abbia influenzata Franz Kafka.
«È stata la prima vera scoperta dell'arte. Avevo tredici anni e avevo visto e letto soltanto brutti film e mediocri romanzi. A un tratto, nel grigiore della letteratura ufficiale comunista, scoprii che si poteva scrivere il quel modo. Un fuoco d'artificio, una fantasia sconfinatae uno humour inarrivabile. In Polonia si discuteva molto della comi­cità di Kafka. Quando sono venuto in Francia gli intellettuali sgranavano gli occhi. Non avevano capito niente».
A quasi settant'anni firma il suo capolavoro assoluto e forse l'opera definitiva sul tema dell'Olocausto, Il pianista. A Braunsberg racconta che molte delle scene più terribili del film sono in realtà suoi ricordi dell'infanzia nel ghetto.Maancora una volta le chiedo di un finale. Quell'ultimo scambio di sguardi fra il protagonista, ormai libero, e l'incredulo, terrificato del tedesco rinchiuso in un campo di prigio­nieri. Che cosa significa?
«Questo: mi sono battuto per che cosa? Per quale ideale? È importante che qualcuno allevato dentro un certo pensiero si renda conto del­l'orrore, della follia».
La pietas del finale è molto laica, non ha nulla a che vedere con un'idea religiosa, come qualcuno ha voluto interpretare, o no?
«Non sono un credente. Sono stato cattolico per un periodo dell'infanzia, quando ero rifugiato presso una famiglia di contadini cattolici. Neppure la mia famiglia era religiosa. Ho saputo di essere ebreo dai nazisti. Del resto, come scrive Dawkins, che cosa significa per un bambino essere ebreo, cat­tolico, protestante, musulmano, induista?» (...)
Curzio Maltese, la Repubblica, 13/5/2012

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