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Sbatti il mostro in prima pagina


Regia:Bellocchio Marco

Cast e credits:
Soggetto e sceneggiatura
:Sergio Donati; collaborazione alla sceneggiatura: Goffredo Fofi; fotografia: Luigi Kuveiller, Enrico Menczer; scenografia: Dante Ferretti; costumi: Dante Carretti; musica: Ennio Morricone; montaggio: Ruggero Mastroianni; interpreti: Gian Maria Volontè (Bizanti), Corrado Solari (M. Boni), Fabio Garriba (Roveda), Laura Betti (Zigai), Michel Bardinet, Jean Rougeul, Carlo Tatò, John Steiner, Enrico Dimarco, Gisella Burinato, Gérard Boucaron; produzione: Ugo Tucci per la Jupiter Generale Cinematografica - UTI Produzioni Associate, Roma e Labrador Film, Parigi; origine: Italia-Francia, 1972; durata: 93'.

Trama:Milano, maggio 1972, le elezioni politiche, un comizio di Forlani. Striscioni, una manifestazione di studenti con i volti barrati in nero, cariche di polizia, spari. I funerali di Feltrinelli, la folla, gli slogan delle sinistre: documenti del clima politico della strategia della tensione. Il passaggio dal materiale documentario alla finzione è quasi impercettibile: la descrizione continua. Il "Giornale" è una delle testate in cui si architetta questa strategia, lo apprendiamo da un assalto di giovani mascherati contro le sue finestre: una molotov entra e incendia alcuni paginoni. È quanto basta ai redattori per inscenare la solita buffonata: la sede del "Giornale", quotidiano indipendente del mattino, incendiata dagli estremisti. E Bizanti, capo redattore; ma direttore di fatto, si preoccupa subito di informare il proprietario del giornale, l’ingegner Montelli, un industriale preoccupato per una faccenda di finanziamenti a gruppi di destra, in cui teme di essere coinvolto.
Con una tecnica da giallo si mostra una cinquecento giallina, che si insinua nel traffico cittadino: la futura vittima della macchinazione. Intanto, la vittima del delitto morboso, a sfondo sessuale: una ragazza morta stesa sul prato di una squallida periferia. Il giornale, in combutta con la polizia, monta la storia: la ragazza illibata, figlia del professor Martini, barone universitario, uccisa forse da un estremista di sinistra, identificato nel proprietario della 500 attraverso le indicazioni del bidello. Anche Bizanti collabora alla fabbricazione delle prove irretendo una anziana professoressa innamorata e gelosa. L’estremista viene arrestato di notte, mentre affigge manifesti. Il giornale può uscire a grandi titoli. Accompagnato dalle note del "Piave", sopra la folla, appare il volto di Almirante. Ma il giornalista Roveda, ostinato nella sua onestà, nonostante le lezioni di Bizanti, continua da solo l’indagine e scopre il vero colpevole, il bidello, che nel suo squallido appartamento nutre una pervertita passione per la ragazza. Nel corso di una discussione violenta con il caporedattore, Roveda è licenziato. Come al solito, prima di tutto, Bizanti provvede a informare il padrone che consiglia di tenere segreto il vero colpevole fino alle elezioni.

Critica (1):Nato con un soggetto e una sceneggiatura di Sergio Donati collaboratore di Sergio Leone che passava alla sua prima regia, fu sospeso per una malattia del regista e per divergenze d’impostazione con Volonté. Il produttore Tucci si rivolse allora a Bellocchio. Questi si trovò dinanzi a una sceneggiatura che non lo soddisfaceva. Nei pochi. giorni prima della lavorazione tentò di trasformarla radicalmente chiedendo la collaborazione di Fofi, che dei problemi del cinema politico si era ampiamente interessato in sede teorica.
Il soggetto originario era una storia "all’italiana", ripresa più tardi nel Mostro di Zampa (1977). I due tentarono di collegarla, per quanto rozzamente, agli avvenimenti politici dell’Italia contemporanea, sovrapponendo al film un pamphlet contro l’istituzione giornalistica, le sue servitù, le connivenze con i settori più reazionari, le tecniche di manipolazione delle notizie. Il tema del giornalismo, che nel cinema americano aveva prodotto capolavori, non era nuovo neppure nel cinema italiano (da Una vita difficile del 1961 a Girolimoni del 1970), ma nessun film aveva fornito una analisi precisa della tecnica dell’informazione.
Viceversa, molto meno nuovo era il filone del cinema politico entro cui Sbatti il mostro in prima pagina si collocava. Avviato nel 1968 da Gavras con Zeta, era continuato con una certa fortuna sulla strada delle inchieste giornalistiche sulle connivenze del potere, come certi film di Rosi e di Ferrara; o su quella dell’innesto di procedimenti e di figure derivati dal giallo tradizionale, producendo così un altro filone, il giallo politico, che comprende le varie opere di Damiani o di Petri. Su questa seconda serie si appuntavano gli strali delle icastiche definizioni di Fofi che vedeva (d’accordo con tutta la critica militante) in Petri "l’offica personale di una cultura di influenza esistenziale e dubitativa" e nei lavori di Damiani solo "denunce democraticistiche a sfondo qualunquistico". Quando si lasciarono coinvolgere in questa operazione di recupero. Bellocchio e Fofi erano dunque consapevoli di mettere le mani su un genere degradato: "Vale, per il fenomeno cinema politico, una legge comune alla società dello spettacolo: i borghesi consumano la storia da spettatori, senza trarne nessuna conclusione sulla propria condizione" (Il cinema italiano: servi e padroni, Milano 1971). Ma, secondo Fofi, anche dentro il sistema si poteva fare qualcosa, e Bellocchio in quel periodo dichiarava che il suo cinema era inevitabilmente costoso e interno al sistema. Possiamo quindi vedere in questa collaborazione qualche cosa di non casuale. C’era stata una lunga affinità dì interessi e di prospettive non per nulla anche Fofi veniva dal gruppo dei "Quaderni piacentini" ed era un "critico amico" di Bellocchio, come ironicamente lo aveva definito una rivista meno amica – e c’era adesso il tentativo di evitare la produzione di un nuovo film mistificante, semmai per fare un film poco convincente, frettolosamente risolto, pieno di metafore ispide, ma almeno diverso dagli altri dello stesso filone perché portatore di una corretta analisi politica.
Come si vede, sono introdotti nel film abbondanti riferimenti a fatti ancora vivi nella coscienza del paese, ma in due modi diversi e abbastanza contrastanti. Vi sono allusioni a fatti di cronaca, come l’assassinio di Milena Sutter e la vicenda degli anarchici accusati delle bombe del 25 aprile 1969 alla Fiera Campionaria, che erano stati denunciati dalla teste Rosanna Zublema, spinta avanti dal commissario Calabresi; le fughe dei segreti istruttori verso i giornali, di cui fu al centro il "Corriere della Sera"; l’assalto dei katanga contro lo stesso giornale, poco tempo prima; i legami di un noto industriale e proprietario di una catena di giornali con lo squadrismo fascista; poi la strage di Piazza Fontana, indirettamente, attraverso le indagini che portarono alla produzione di capri espiatori in Valpreda e Pinelli. D’altro lato vi sono materiali documentaristici di repertorio, come i due comizi di Almirante, quello di Forlani, i funerali di Feltrinelli e le manifestazioni del I maggio. Sbatti il mostro è costruito dunque su un doppio spazio, quello dei documenti e quello della finzione, ma vi è la tendenza di entrambi a coincidere: la Milano in cui agiscono Volonté (Bizanti) e Fabio Garriba (Roveda) è la stessa dei funerali di Feltrinelli. Tuttavia, mentre il tempo e lo spazio del presente tendono alla cronaca politica, quelli del racconto tendono alla metafora: la condensazione di numerosi fatti reali in uno solo, inventato, mira a fornire una rappresentazione del funzionamento globale dell’informazione entro il sistema. Questo contrasto fra le due parti, pur nella coincidenza cronologica-storica, produce l’impressione di un film spezzato fra l’informazione e la metafora, come un lavoro sperimentale non sufficientemente elaborato. Lo stesso può valere per le convenzioni del genere in cui il film è inserito. Sbatti il mostro non è un vero e proprio giallo, anche se non è certamente uno studio sul giallo politico (non ha cioè come obiettivo una analisi delle strutture e dei codici del "genere"). Dopo le due scene in cui, nella prima parte, si mostrano tutte e due le vittime – quella dell’assassinio e quella della montatura giornalistica – la struttura del giallo si allenta progressivamente, spezzata dalle intromissioni dei personaggi e da un cambiamento di prospettiva, per cui l’interesse del film non è più la pista che conduce all’assassino ma la tecnica di produzione dell’assassino, anche se non nel cinema, nella stampa. L’indagine non ha una versione unica, ma duplice: una prima della polizia che si risolve nella visita del commissario con il bidello in un luogo di auto demolite; e una seconda, quella di Roveda che prosegue da solo. Lo sdoppiamento – la prima e la seconda verità, colpevole apparente è colpevole reale – rientra ancora nelle convenzioni del giallo, ma se ne allontana quando le due storie, invece di incrociarsi e risolversi, continuano ciascuna per conto proprio, ciascuna con il suo colpevole. Anche quella che dovrebbe essere la sequenza finale – il confronto con l’assassino – è raddoppiata: prima Roveda si reca dal bidello e lo scopre; poi Bizanti, il capo, informato dal giornalista, va per assicurarsi della verità e insieme per tenerla nascosta. Il colpevole quindi non è che una pedina. Nella scena finale si vedono i veri giocatori. Bizanti e il Padrone.
Questo doppio finale è complicato dal fatto che non c’è un – rapporto solido fra le due storie, ma la più potente "licenzia" l’altra, come, il direttore licenzia il giornalista. Così anche il giallo politico si sostituisce all’altro giallo, ma senza smontarne i codici, solo variandoli quel tanto che gli basta. Il rapporto doveva venire forse dagli inserti documentaristici, che però rimangono abbastanza distaccati da entrambe le storie: la partenza dai funerali di Feltrinelli – come partenza da un suicidio che poteva benissimo essere stato un delitto è emblematica per l’avvio di un itinerario che scopre la verità dietro la finzione. Ma poiché l’intervento di Bellocchio si è limitato alla regia (non si tratta di un soggetto suo), e il suo contributo è parziale, Sbatti il mostro può essere l’occasione per individuare le componenti stilistiche del suo fare cinema che qui, non essendo sufficientemente armonizzate con il complesso del film, emergono e sono facilmente isolabili.
Sandro Bernardi, Marco Bellocchio, Il Castoro Cinema, 1978

Critica (2):

Critica (3):

Critica (4):
Marco Bellocchio
(Progetto editoriale a cura di); (Progetto editoriale a cura di) Redazione Internet; Redazione Internet (Contenuti a cura di); (Contenuti a cura di) Ufficio Cinema; Ufficio Cinema
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