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Angelo sterminatore (L') - Angel exterminador (El)


Regia:Buñuel Luis

Cast e credits:
Soggetto: José Bergamin; sceneggiatura: Luis Alcoriza, Luis Buñuel; fotografia: Gabriel Figueroa; musiche: Raoul Lavista - Brani da Paradisi, Scarlatti; montaggio: Carlos Savage; scenografia: Jesus Bracho; costumi: Georgette Somohino; effetti: Juan Munoz Ravelo; interpreti: Silvia Pinal (Letitia), Jacqueline Andere (Alicia), Jose' Baviera (Leandro), Augusto Benedico (dottore), Luis Beristain (Christian), Claudio Brook (maggiordomo), Cesar Del Campo (colonnello), Antonio Bravo (Russell), Patricia De Morelos (Blanca), Rosa Elena Durgel (Silvia), Lucy Gallardo (Lucia), Enrique Garcia Alvarez (Roc), Ofelia Guilmain (Juana), Nadia Haro Oliva (Ana), Tito Junco (Raul), Xavier Masse (Eduardo), Angel Merino (Lucas), Ofelia Montesco (Beatriz), Bertha Moss (Leonora), Enrique Rambal (Nobile), Patricia Roman (Rita); produzione: Uninci - Gustavo Alatriste per Films 59; distribuzione: Cineteca dell'Aquila; origine: Messico, 1962; durata: 95'.
Vietato 14

Trama:All'uscita dal teatro, una ventina di persone dell'alta società si ritrovano, per una cena, nella villa di città di Edmondo e Lucia Nobile. Mentre gli ospiti arrivano, i servitori, al contrario, ad eccezione del maggiordomo, se ne vanno con un pretesto o con l'altro, come sotto l'influsso di un presagio. Terminata la cena, il gruppo si riunisce in un vasto salone da ricevimento per ascoltare una famosa pianista. Si fa tardi, e gli ospiti decidono di rincasare: ma ecco, quasi un'insormontabile cortina fosse calata davanti a loro, nessuno riesce più a varcare la soglia del salone. Col trascorrere delle ore, la situazione diventa intollerabile: pur intestardendosi nel voler conservare il decoro del rango e una parvenza di etichetta, pian piano i prigionieri della misteriosa "presenza" si liberano dei loro freni inibitori, rivelandosi per quello che sono: pervertiti, ipocriti, lussuriosi, violenti. Quando l'esplosione di violenza raggiunge il massimo, il sacrificio della giovane Letizia, che si offre al padrone di casa, determina la fine dell'incubo. Finalmente liberi, gli invitati di casa Nobile ringraziano il Cielo con un solenne "Te Deum", al termine del quale, però, si trovano di nuovo di fronte l'invisibile muro.

Critica (1):La prima inquadratura di L'angelo sterminatore è un dettaglio della targa stradale di calle Providencia: è la via su cui si affaccia la grande villa con giardino dei coniugi Nobile ma - poiché mai come per questo film si può dire che si è al di fuori di ogni luogo e tempo determinato - è soprattutto un riferimento al soggetto originario Los nàufragos de la calle Providencia, a indicare o un cambiamento di titolo tardivo o, più probabilmente, un ricordo o nostalgia per il vecchio titolo. Poiché il riferimento biblico è ora più alto, più solenne e autoriale ma con esso si perde, oltre all'ironia topografica (la Provvidenza è ormai solo un cartello stradale) la sottolineatura del tema del naufragio, che in questi anni Buñuel ha a lungo lavorato, da Robinson a Violenza per una giovane passando per la deriva terrestre di La selva dei dannati, e sempre sulla base dell'originario, simbolico naufragio di Ilegible hijo de flauta.
In effetti Juan Luis Buñuel dichiarò, poi smentito dal padre, che l'ispirazione del film veniva da La zattera della medusa di Géricault, la potente raffigurazione di un naufragio diventato lotta per la sopravvivenza, orrore e cannibalismo. Un quadro maudit, cui avevano fatto da modelli infermi e cadaveri della morgue e che, censurato nel titolo al Salon del 1819, era subito stato visto come un invito alla rivolta. Ma un altro naufragio che Buñuel aveva sicuramente desiderato mettere in scena era quello del Signore delle mosche di Golding. Mentre altri verosimili riferimenti del film sono, per la situazione di chiusura, Huis-clos di Sartre, che tuttavia si svolge fra anime di defunti, e naturalmente, per tornare al titolo definitivo, la Bibbia. La venuta dell'Angelo sterminatore o Angelo dell'Abisso è annunciata dall'Apocalisse in una figurazione che ben potremmo definire surrealista: l'angelo uscito dal pozzo dell'abisso guida un esercito di locuste col volto umano, capelli di donna e code "simili a quelle degli scorpioni".
Ce n'è abbastanza per citare ancora una volta L'âge d'or, anche perché davanti a L'angelo sterminatore vengono subito in mente, più che le molte opere letterarie o pittoriche che si possono evocare, gli stessi film di Buñuel, e in particolare proprio il suo film più maledetto. Per la festa aristocratica, naturalmente, con alcuni invitati che ricordano anche fisicamente quelli del film del 1930 (il maestro con la barba, gli amanti di amour fou che non si curano del resto del mondo e il cui dialogo, totalmente irrazionale, viene dal racconto surrealista del 1933 Une girafe). Ma anche per quell'orso fuori gabbia e fuori contesto, troppo simile alla vacca nella camera da letto. Molti sono però anche i richiami a Un chien andalou: Eduardo che mette vogliosamente le mani sui seni e sulle natiche della sua fidanzata e la mano mozza che vaga per il pavimento, dopo essere passata per quella scena di The Beast with Five Fingers scritta per Robert Florey nel 1944.
L'angelo sterminatore è insomma un film surrealista, il più esplicito, il meno camuffato o concentrato in situazioni o oggetti isolati, dai tempi "d'oro" del movimento. Un film che ormai solo il nuovo mecenate borghese Alatriste (e il successo di Viridiana) potevano consentirgli. Un film "senza significati", come una didascalia iniziale inserita in alcune edizioni (francese e italiana) tiene a ribadire: "Se il film che state per vedere vi sembra enigmatico, o incongruo, anche la vita lo è. È ripetitivo come la vita e, come essa, soggetto a molte interpretazioni. L'autore dichiara di non aver voluto giocare su alcun simbolo, almeno coscientemente. Forse la migliore spiegazione per L'angelo sterminatore è che non ce n'è nessuna".
Questo naturalmente non poteva accontentare i critici, che fin dalla sua prima apparizione a Cannes nel 1962 - dove vinse appunto il premio della critica, mai così giustificato poiché in effetti avrebbe dato lavoro a generazioni di critici cinematografici - hanno fatto a gara nell'interpretare, spiegare, indagare questa assurda storia e i suoi tanti inspiegabili dettagli. L'uccisione delle pecore venne vista come una metafora evangelico-pasquale e lo stesso Nobile, che gli invitati vogliono sacrificare per ritrovare la libertà, sembrò - anche per quella fascia intorno al capo che porta alla fine, simile a quella di Nazarín - una nuova incarnazione di Cristo. L'orso fu interpretato invece come simbolo dell'Urss che si aggira per divorare la borghesia, mentre di questo gag surrealista la cosa più divertente è semmai il fatto che il regista girò la scena con in mano una 44 Magnum carica, pronto a sparare in caso di pericolo. O almeno così amò poi raccontare.
Buñuel ha però ammesso che se nel film non ci sono simboli e significati ci sono tuttavia molte allusioni, riferimenti privati a episodi d'infanzia, a usi aragonesi, a ricordi di vita: l'episodio del cameriere che rovescia il caviale gli era stato raccontato da Iris Barry come realmente avvenuto in un party a New York, il racconto dell'incidente ferroviario di Ana è forse polemicamente ispirato a Dalí, che aveva scritto di non conoscere niente di più eccitante di un vagone di terza classe pieno di operai morti. L'irritazione per chi si pettina continuamente era quella che egli provava per un suo compagno di stanza alla Residencia, anche se la frequenza di riferimenti ai capelli e quell'ammalata gravissima perché destinata a diventare "completamente calva" sembrano collegate soprattutto a quei capelli da donna del mostro apocalittico. Ma al di là della maggiore o minore plausibilità, nessuna interpretazione simbolica e nessun riferimento biografico aiutano a vedere meglio il film, e semmai impediscono di gustarlo nella sua straordinaria letteralità e materialità, cioè nel suo stile.
Certo, pare inevitabile proporre almeno qualche interpretazione complessiva e quella politico-sociale è forse la più semplice e la più giustificata: il grande affresco-sberleffo sulla crisi e l'impotenza della borghesia, la ri-trasformazione della civiltà in nuova barbarie. Buñuel stesso, pur sostenendo che la condizione di reclusione e impotenza non è prerogativa di una classe e che fra persone di altro ceto sociale questa storia sarebbe stata solo un po' meno interessante, ammise che degli operai riuniti per una festa di battesimo avrebbero forse trovato la soluzione per uscire. Il film inizia d'altra parte, molto esplicitamente, con l'abbandono della casa improvviso, inspiegabile ma determinato, da parte di tutti i servitori, tranne naturalmente il maggiordomo che è tradizionalmente un borghese di spirito, il servo più simile ai padroni, come si era visto in El e si vedrà subito dopo nel Diario di una cameriera. Ma anche qui: la cosa bella di questa fuga non è l'idea in sé ma la naturalezza dell'assurdità, il fatto che un comportamento del tutto immotivato venga considerato normalissimo. La cosa bella sono gli enigmatici sguardi d'intesa che si scambiano i fuggiaschi, carichi di quell'espressività senza spiegazione, senza senso, che Buñuel sempre cercava.
A questo sfondo interpretativo si ricollega anche la necessaria sottolineatura del classico tema dell'impotenza e della frustrazione, che qui, come in Estasi di un delitto e poi in Il fascino discreto della borghesia, diventa non solo leit-motiv ma oggetto stesso del film. Ma ancora: più che l'impossibilità di uscire dal salone sono cinematograficamente interessanti tutti i modi in cui i personaggi la giustificano e la rimuovono, l'assimilazione e la normalizzazione di questa assurdità, la incredibile capacità di accettare e razionalizzare la propria impotenza. L'uomo è in una gabbia e vive la prigionia come stato naturale: "Attraverso il surrealismo scoprii che l'uomo non è libero". E non sono solo le catene dell'inconscio che lo tengono legato. La libertà è un fantasma, dirà Buñuel e in ogni caso, di fronte a una libertà senza passione, meglio la morte, come quella che si danno i due amanti, o la coscienza della prigionia. Tra poco Simon del deserto troverà la sua libertà segregandosi per la vita sulla cima di una colonna. La popolazione, nelle strade, attorno alla cattedrale, si fa caricare passivamente dalla polizia.
La scena finale di impotenza collettiva, quei tumulti popolari in cui risalta la repressione più che la ribellione, fulmineo ma esplicito contrappunto al rito clerico-borghese nella cattedrale, sembra rafforzare la lettura politica e sociale del film, pur essendo anche un'immagine ricorrente - da Estasi di un delitto a Tristana al Fantasma della libertà - del cinema di Buñuel e anzi un suo dichiarato ricordo infantile. E in questa direzione, con solo una maggiore accentuazione metaforica, va anche l'associazione con la peste: nella casa di via Providencia viene messa la bandiera gialla della quarantena. Buñuel stesso indicò nella sequenza finale una specie di estensione epidemica della malattia sociale dei protagonisti: erano una ventina e ora sono duecento a restare chiusi nella cattedrale. E Tesson ha parlato di un "contagio mimetico" fra i personaggi: chi vede un altro che non riesce a uscire non è più in grado di farlo nemmeno lui.
Ma Buñuel non ricorre alla peste come a una ormai classica metafora pronta all'uso e che cade dal cielo. La degradazione, la caduta nello stato selvaggio dei suoi personaggi, se la costruisce, pazientemente, dall'inizio. Dapprima sono strane gaffe, atti mancati, inattese e sconcertanti allusioni sessuali in conversazioni ancora molto formali. Rotture dell'ordine del discorso verbale e comportamentale: Leticia che scaglia un portacenere contro un vetro, Leonora che pubblicamente bacia sulla bocca il suo medico curante. Poi, poco alla volta, la valanga del disordine, della perdita di controllo, dell'istintualità primaria diventa inarrestabile. Il naufragio di ogni ritegno. Il salone delle feste diventa un puzzolente bivacco, un territorio selvaggio in cui si cerca l'acqua a colpi di piccone e si fa il fuoco bruciando la legna dei mobili (e intanto, con un gesto surrealista più puro, si sfascia un violoncello a colpi d'ascia). Una signora si taglia le unghie dei piedi, un signore si depila le gambe con un rasoio elettrico. Le parole segrete e impronunciabili dell'esoterismo massonico sono come un raglio di un asino o un urlo di Tarzan, gli strumenti del rito demoniaco sono piume e galline come quelle che si troverebbero in un pollaio messicano. L'orso è perfettamente a suo agio in questo territorio selvaggio e si arrampica sui lampadari, per questo ci si poteva non stupire fin da subito della sua presenza. Perché tra la ritualità borghese e l'animalità primordiale c'è solo una serie di piccoli slittamenti. I raptus isolati che coglievano di tanto in tanto i personaggi di Bufluel diventano ora irascibilità, violenza, aggressività continua. I professionisti, artisti e intellettuali sono uguali ai mendicanti storpi e lebbrosi di Viridiana.
Buñuel avrebbe voluto, disse poi, andare ancora più a fondo nel racconto dell'abbrutimento portando i suoi personaggi fino al cannibalismo, a uno stato selvaggio non solo pre-borghese ma pre-civile. Ritornare all'era dei banditi e degli scorpioni. Ma certo la condizione dei personaggi e dell'ambiente alla fine dell'avventura è già - se paragonato a distanza con l'inizio - una visione da incubo, la rivelazione di un altro mondo. Forse un'immagine del disordine dell'inconscio, del buio dell'umanità.
Quello dell'Angelo sterminatore è infatti anche un viaggio nel mistero. Il mistero, beninteso, non è il segreto: le piccole o grandi debolezze che la società nasconde ma che alla prima occasione ama rivelare ed esibire: l'appartenenza alle società segrete o ai culti esoterici, la droga, l'adulterio, i bisogni fisici. La vita è piena di luoghi e oggetti del segreto: armadi, cofanetti e scatoline. Ma il vero mistero è l'inconscio, sono i sogni, le voci che provengono non si sa da dove, le parole assurde, la stanza che pare allargarsi. Oltre all'incubo individuale della mano vagante che afferra alla gola, il film costruisce nell'ultima notte un vero e proprio sogno collettivo. Sui volti dei vari personaggi addormentati si sentono suoni di campane, urla, frasi indistinte, inni liturgici finché anche l'immagine si fa onirica attraverso sovrimpressioni di oggetti incongrui e fantastici. Il luogo chiuso e da cui non si può uscire attraverso l'immaginazione si dilata in ogni dimensione fisica e mentale.
Una stanza è il mondo, e contemporaneamente il mondo è grande come una stanza, o se si è ricchi come un bel salone. Gli uomini sono i burattini che vi recitano. I personaggi dell'Angelo vengono da una serata a teatro, molti di loro sono gente di spettacolo e restano personaggi di uno spettacolo. Anche letteralmente: Leticia, la cantante, è detta la Walkiria e ha cantato "La fidanzata vergine di Lammermoor" (titolo che condensa La fidanzata di Walter Scott e la sua versione lirica, Lucia di Lammermoor di Donizetti, ma esiste una vera Lucia, la moglie di Nobile di cui lei prenderà il posto). Quando arriva il servitore con lo scenografico piatto "maltese" è lei che esclama: "Come a teatro!" Ma il salone è veramente allestito come un teatro, con una parte più rialzata per il pianoforte, incorniciata da tendaggi che possono fare da sipario. Un teatro che ha delle quinte, dei fuori scena, dei camerini: gli armadi, decorati con dipinti religiosi ma usati per defecare e far l'amore. La soglia che non potrà essere attraversata è un boccascena, quello chiuso appunto dalla famosa, invisibile, "quarta parete". I personaggi rimangono bloccati in uno spazio scenico, in ruoli fissi, anche se recitano solo per se stessi (ma fuori si riunisce la folla di aspiranti spettatori e un circo in cui si vendono palloncini). E verso la fine Nobile e la sua nuova amante Leticia, appena prima che essa intuisca il motivo dell'incantesimo, si presentano agli altri con un'improvvisa apertura della tenda-sipario. Come aveva detto Levi-Strauss, con un segno negativo che conoscendo meglio Buñuel si può agevolmente capovolgere, "una bella idea ridotta alle dimensioni di uno spettacolo da marionette".
Il teatro è il luogo delle ripetizioni (le répétitions delle prove e quelle delle repliche). La ripetizione cruciale è quella perfetta, provata e recitata, diretta dalla regista Leticia, delle posizioni, dei dialoghi e della musica che sbloccheranno l'incantesimo, ma tutto il film è una vera e propria successione di frasi, gesti, osservazioni ripetute. Buñuel parlava di una ventina di ripetizioni e lo aveva annunciato nella didascalia iniziale: "Il film è ripetitivo come la vita". Si ripetono a breve distanza battute ("un po' trasandata stai bene"), gesti (i segni di appartenenza massonica), musiche (il brano di Haendel all'inizio e alla fine), azioni (l'ingresso in villa degli invitati, un brindisi, delle presentazioni) e naturalmente tutti ripetono o ribadiscono in forme diverse la non-azione di fondo, l'impossibilità di uscire, quella che produrrà l'ultima e più tragicomica delle repliche, l'incapacità di tutti i fedeli di lasciare alla fine la cattedrale.
L'angelo sterminatore è uno dei film che Buñuel amava più spesso rivedere, producendosi lui stesso nella pratica della ripetizione spettatoriale. Anche perché è forse il suo film più perfetto dal punto di vista registico, più armonioso nei tempi, nei movimenti collettivi. I totali sono quadri in movimento nei quali i gesti di ognuno si richiamano come per echi interni, con dieci o dodici personaggi che agiscono contemporaneamente e lentamente come in un silenzioso concerto di gesti e azioni
(naturalmente anche in questo caso non c'è altra musica che quella di scena). Altre volte la cinepresa ne segue uno solo, nel suo vagare lento in mezzo agli altri corpi, o sembra planare sul paesaggio umano desolato che si trova davanti. Questo film così aperto da invitare alla saturazione del senso è in realtà il film più astratto, più leggero, più danzato di Luis Buñuel. La sua migliore regia.
Alberto Farassino, Tutto il cinema di Luis Buñuel, Baldini&Castoldi, 2000

Critica (2):"Qualche volta mi rammarico di aver girato L'angelo sterminatore in Messico. Lo avrei immaginato meglio a Parigi o a Londra, con attori europei e un certo lusso negli abiti e negli accessori. A Città del Messico, malgrado la bellezza della casa, malgrado tutti i miei sforzi per scegliere attori che fisicamente non ricordassero il Messico e basta, ho dovuto affrontare una certa miseria in fatto di qualità. Mostrando solo un tovagliolo, per esempio, che poi apparteneva alla truccatrice. (...) Inizialmente il film si chiamava I naufraghi di rue de la Providence. Ma l'anno prima, a Madrid, José Bergamin mi aveva parlato di un lavoro teatrale che intendeva scrivere, e intitolare L'angelo sterminatore. Trovai il titolo splendido e gli dissi: "A leggerlo sulla locandina, si entra subito in sala". Da Città del Messico gli scrissi per chiedere notizie del lavoro - e titolo. Mi rispose che non l'aveva ancora scritto e che comunque il titolo non era suo, ma dell'Apocalisse. Per cui potevo benissimo prenderlo. Cosa che feci ringraziandolo. (...)
Nella vita come nei film, sono sempre stato attirato dalle cose che si ripetono. Non so perché e non cerco di spiegarmelo. Nell'Angelo sterminatore ci sono almeno una decina di ripetizioni. Per esempio due uomini che qualcuno presenta e che si stringono la mano dicendo: "Felicissimo". Un attimo dopo si incontrano e si presentano di nuovo come se non si conoscessero affatto. Una terza volta infine si salutano calorosamente come due vecchi amici. A due riprese, ma sotto un'angolatura diversa, si vedono anche gli invitati entrare nell'atrie e il padrone di casa chiamare il maggiordomo. Finito il montaggio, Figueros, il capo operatore, mi prese in disparte e mi disse:
- Luis, è successo qualcosa di grave. - Cosa?
- La sequenza di quando entrano in casa è stata montata due volte.
Come ha potuto pensare, anche per un attimo, proprio lui, che aveva girato le due sequenze, che uno strafalcione del genere fosse potuto sfuggire al montatore e a me stesso? (...) L'angelo sterminatore è uno dei pochi film che ho rivisto. Tutte le volte rimpiango le mancanze di cui ho parlato e i tempi strettissimi di lavorazione. Quello che ci vedo, è un gruppo di persone che non possono fare quello che vorrebbero: uscire da una stanza. Impossibilità non spiegabile di soddisfare un semplice desiderio. Cosa che capita spesso nei miei film. Nell'Età dell'oro, una coppia desidera unirsi e non ci riesce. Quell'oscuro oggetto del desiderio parla del desiderio sessuale di un vecchio, che non può soddisfarsi. In Estasi di un delitto, il protagonista tenta inutilmente di uccidere. I personaggi del Fascino discreto della borghesia vogliono assolutamente pranzare insieme e non ci riescono."
Luis Buñuel, Dei miei sospiri estremi, Milano Rizzoli

Critica (3):"T.P Turrent - L'angelo sterminatore potrebbe essere una parabola della condizione umana?
Luis Buñuel - Sulla condizione borghese, meglio. Fra operai non sarebbe la stessa cosa, sicuramente ci sarebbe una soluzione all'essere rinchiusi. Per esempio, in un quartiere operaio un uomo battezza sua figlia, riceve cinquanta amici per una festa e alla fine non possono uscire... Io credo che in qualche modo troverebbero l'uscita. Perché? Perché un operaio è più abituato alle difficoltà concrete della vita. (...)
J. de la Colina - Ritorno sul concetto che Il fascino discreto della borghesia sia una sorta di Angelo sterminatore meglio interpretato, vestito e decorato. Più sottile insomma.
Luis Buñuel - L'angelo sterminatore doveva essere interpretato da gente che portava il frac come se lo avesse fatto tutte le notti.
T.P. Turrent - Cosa difficile da ottenere con attori messicani.
Luis Buñuel - Voi notate questi dettagli perché vivete qui. Né in Inghilterra né in Francia, dove io credevo che ridessero di certe cose, nessuno ha detto che gli attori vanno male. Probabilmente pensano che i difetti sono peculiarità dell'alta società messicana, non so. Questi difetti io li vedo. Frac da 800 pesos fatti con tela tropicale. Gli attori si sedevano per le prove e quando si alzavano avevano il frac sgualcito.
in José de la Colina, Tomás Pérez Turrent, Buñuel por Buñuel

Critica (4):
Luis Buñuel
(Progetto editoriale a cura di); (Progetto editoriale a cura di) Redazione Internet; Redazione Internet (Contenuti a cura di); (Contenuti a cura di) Ufficio Cinema; Ufficio Cinema
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