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Mille e una notte (Le) - Arabian Nights: Volume 1 - Inquieto - As Mil e Uma Noites: Volume 1, O Inquieto


Regia:Gomes Miguel

Cast e credits:
Sceneggiatura: Miguel Gomes, Mariana Ricardo, Telmo Churro; fotografia: Sayombhu Mukdeeprom, Mário Castanheira - ("La storia del gallo e dell'incendio"); montaggio: Telmo Churro, Pedro Filipe Marques, Miguel Gomes; scenografia: Bruno Duarte, Artur Pinheiro; costumi: Silvia Grabowski, Lucha d'Orey; interpreti: Crista Alfaiate (Sherazade/Maria), Adriano Luz (Luís), Américo Silva (Gran Visir), Rogério Samora (Primo Ministro portoghese), Carloto Cotta (traduttore), Fernanda Loureiro (proprietaria del gallo); produzione: O Som E A Fúria-Shellac Sud-Komplizen Film-Box Productions-Arte France Cinéma- Arte/Zdf-Rtp-Rts Radio Télévision Suisse-Srg Ssr-Agat Films & Cie; distribuzione: Milano Film Network; origine: Portogallo-Francia-Germania-Svizzera, 2015; durata: 125'.

Trama:Una notte europea tra l'incanto delle narrazioni di Sherazade con le sue storie da "Le mille e una notte" e la prosa della verità sulla crisi economica e sociale del Portogallo. Tre film per un unico percorso. Nel primo episodio, Sherazade racconta le preoccupazioni che affliggono il Paese: "Si racconta, o re beato, che in un triste Paese tra i Paesi, dove la gente sogna sirene e balene, la disoccupazione dilaghi. In alcuni posti, le foreste bruciano di notte, malgrado la pioggia; uomini e donne sono impazienti di gettarsi in mare in pieno inverno. A volte ci sono animali che parlano, ma è molto improbabile che qualcuno li ascolti. In questo Paese, dove le cose non sono quel che sembrano, gli uomini di potere passeggiano sui cammelli e nascondono erezioni continue e vergognose. Aspettano di riscuotere le tasse per poter pagare un certo mago che...". E vedendo sorgere il sole, Sherazade si tace.

Critica (1):Questo film non è un adattamento del libro «Le mille e una notte, anche se si ispira alla sua struttura. Le storie, i personaggi e i luoghi raccontati da Sherazade sono la rielaborazione di fatti accaduti in Portogallo tra l'agosto del 2013 e il luglio del 2014. In quel periodo, il Paese era ostaggio di un programma di austerità economica attuato da un governo evidentemente privo di giustizia sociale. Di conseguenza, quasi tutti i portoghesi si sono impoveriti». Mette subito le cose in chiaro Miguel Gomes, regista portoghese classe 1972, con il suo monumentale trittico Le mille e una notte - Arabian Nights, presentato al Festival di Cannes 2015 all'interno della Quinzaine des Réalisateurs, al Torino Film Festival 2015 e arrivato anche nelle nostre sale grazie alla Milano Film Network.
Tutto parte con la chiusura di uno storico cantiere navale, a cui si unisce senza soluzione di continuità un'invasione di vespe asiatiche che minaccia di mettere in ginocchio la locale industria del miele: un documentario sulla crisi, forse, era l'idea iniziale dell'autore portoghese che però, una volta trovatosi di fronte a tali tragedie, si accorge che quello spunto non può bastare. In anni in cui il cinema documentario sta guadagnando sempre più terreno (sia a livello mediatico che produttivo), Gomes decide di fare un passo indietro. Ancorarsi al cinema del reale per raccontare la realtà non gli sembra la via giusta. La crisi economica ha mille volti, mille cause, mille conseguenze e mille protagonisti, il regista portoghese non riesce a comprenderla fino in fondo e proprio per questo getta la spugna. Gomes, ancor prima che raccontarlo, è interessato a capire il fenomeno di cui si vorrebbe occupare: la sua è un'indagine conoscitiva prima ancora che espositiva. Per comprendere la realtà, dunque, non si può pensare di riproporla esattamente come questa si presenta, ma è necessario analizzarla e osservarla da un nuovo punto di vista, da un'ottica diversa.
La finzione può essere allora la strada giusta? Nemmeno, perché la pura astrazione non può essere adeguata a narrare in chiave unicamente simbolica una situazione tanto drammatica. «Non si può fare un film militante che dimentica la militanza e inizia a evadere dalla realtà. È tradimento, disimpegno, dandismo»: è la voce narrante dello stesso Gomes a metterci in guardia sull'impossibilità di fare il film che dovrebbe nascere dalle sue mani. L'unica soluzione per il regista è allora fuggire, abbandonare il set dimostrando la propria inadeguatezza, sopraffatto da un'idea che non può realizzarsi in realtà. Ma la troupe, preoccupata di non avere più un lavoro, lo raggiunge e lo condanna, seppellendolo nella sabbia. Gomes allora, come Sherazade, chiede clemenza offrendo in cambio una serie di storie meravigliose.
Da questo prologo ha inizio Le mille e una notte - Arabian Nights, film diviso in tre volumi (Inquieto, Desolato e Incantato) a loro volta divisi in diversi capitoli che raccontano allegoricamente la realtà odierna. Ed è impressionante quanto Gomes – che già aveva mostrato il suo grande talento in Tabu (2012) – riesca a essere allo stesso tempo lucido, debordante, sopra le righe, scentrato e cristallino nella sua denuncia, pur lavorando su registri decisamente diversi da un volume all'altro. Nel primo lungometraggio, Inquieto, punta su una vena deliziosamente grottesca, fin dal titolo del primo episodio (Gli uomini che ce l'hanno duro) che mette a nudo la classe dirigente, ironizzando spietatamente sulla stupidità di coloro che detengono il potere. Il secondo volume, Desolato, è forse quello più compiuto e importante del trittico: a prevalere è la finzione, e la scena del processo a una banda di ladri è forse il momento più alto dell'intera opera di Miguel Gomes. Nell'ultimo, Incantato, c'è il vero incontro tra i due narratori – lo stesso regista e Sherazade – e l'ultima, citatissima, amata od odiata, parte di circa un'ora e mezza dedicata a un gruppo di disoccupati che allevano fringuelli.
Per raccontare la crisi odierna, sembra dirci il regista, non ci si può più affidare a un modello prestabilito o a una struttura narrativa già esistente. In un momento storico in cui al cinema si discute molto su dove finiscano i limiti del documentario e inizino quelli della finzione, Gomes semplicemente se ne infischia e mescola il tutto a proprio piacimento, senza preconcetti o forzature teoriche, puntando su una sarabanda narrativa difforme e inclassificabile. Se il mondo di oggi è privo di certezze e segnato costantemente da crisi che sono prima identitarie che materiali, Gomes risponde creando un'opera monstre che trova la sua identità proprio nel fatto di non averne alcuna. E colpisce come il regista riesca a trasmettere riflessioni molto serie senza, paradossalmente, prendersi mai (o quasi mai) troppo sul serio. Tutto questo, Gomes, lo fa con una semplicità disarmante, una messinscena a tratti amatoriale ma mai banale, disinteressata a guardarsi allo specchio e determinata unicamente a raccontare qualcosa. Raramente nel cinema degli ultimi anni si è visto un film tanto libero e desideroso di vivere pienamente la gioia del racconto puro.
Ogni episodio si trasforma nel tassello di un mosaico anarchico e omogeneo, leggero e profondissimo, magnetico e respingente. Forse la sua grandezza sta nel fatto che Gomes – caso più unico che raro nella contemporaneità – sia un autore che non si mette al di sopra dei fatti narrati ma, anzi, si sente inadeguato a raccontarli, come esplicita attraverso la sua fuga iniziale. Gomes si pone nella posizione di un cantastorie che rischia di perdersi all'interno del suo racconto, forse si dimentica delle parti, forse è a tratti incerto su come le stesse debba-no proseguire. La sua presenza si sente eccome, ma la sua posizione non è tanto diversa da quella dello spettatore che cerca di spiegarsi la realtà contemporanea, senza riuscirci.
Questa particolare struttura narrativa non può però prescindere dal bombarda-mento di informazioni che tutti noi viviamo quotidianamente. Internet, televisioni, giornali radio, social network, video, post, commenti, like, foto: aggiornamenti in tempo reale che per sfidare la velocità della luce e giungere sui nostri dispositivi un secondo dopo che il fatto ha avuto luogo, rischiano di mostrarci solamente una parte del fenomeno, una mezza verità. La coralità di voci, le molte finestre a cui costantemente facciamo riferimento per cercare di scorgere il mondo, non restituiscono mai una realtà attendibile e completa a trecentosessanta gradi: ognuno si costruisce la propria verità cercando di assemblare in un unico grande mosaico quante più informazioni e fonti è riuscito a raccogliere. Tutti parlano, in pochi si informano. All'interno di questo labirinto dunque è decisamente arduo sapersi orientare e cercare di formulare un pensiero critico preciso e lineare. A maggior ragione, se l'argomento indagato è spinoso e complesso come la crisi economica, o meglio, gli effetti che la crisi economica ha avuto su un'intera nazione quale il Portogallo.
Se nella seconda metà del Novecento si è dibattuto a lungo su come (e se fosse possibile) rappresentare l'Olocausto, col nuovo millennio tale dibattito ha assunto una nuova forma, con riferimento all'11 settembre e alle conseguenze traumatiche del crollo delle Torri gemelle: una crisi identitaria e a una proliferazione di incertezze che, da quando i media sono in campo, probabilmente non è mai esistita. Ora, con Le mille e una notte - Arabian Nights, il testimone della staffetta passa alla crisi economica e a un dramma che, nel film, parte soltanto dal Portogallo per allargarsi al mondo intero.
Come rappresentarla? Con narrazioni parziali e monche, con uno stile che parte dal reale per raggiungere la pantomima, il teatro, la finzione prima di tornare al reale nuova-mente e mescolandosi ad esso. Essere costretti a doverne parlare, sentire come un dovere il tentativo di raccontarla perché, proprio come Sherazade, non c'è altra strada per potersi sal-vare la vita. Il regista costruisce quindi un mondo parallelo al nostro, un universo dettato da leggi lontane da quelle reali ma assolutamente verosimili. Se la realtà che ci circonda si è fatta col tempo sempre più rarefatta, impalpabile e menzognera, probabilmente per comprender-la al meglio ci si deve mettere al suo servizio, analizzandola con le medesime caratteristiche che la identificano. Ecco il perché di una simile ricostruzione scenica: se non riusciamo più a distinguere il vero dal falso, il reale dal verosimile, l'assurdo e il grottesco dal comune e dal quotidiano, allora non c'è via migliore se non restituire il tutto senza filtri, ma tramite favole subordinate a un'immaginazione scarna ma coinvolgente. Gomes utilizza così l'assurdo per risultare concreto, in un gioco costantemente ambivalente, ossimorico senza volerlo essere, grigio e variopinto allo stesso tempo. E, come è sempre accaduto nella storia, bisogna guardare al passato (il muto per Tabu, un'antica raccolta di novelle in questo caso) per dare vita al cinema del futuro.
Andrea Chimento, Cineforum n. 554, 5/2016

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Critica (3):

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(Progetto editoriale a cura di); (Progetto editoriale a cura di) Redazione Internet; Redazione Internet (Contenuti a cura di); (Contenuti a cura di) Ufficio Cinema; Ufficio Cinema
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