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C'era una volta a New York - Immigrant (The)


Regia:Gray James

Cast e credits:
Sceneggiatura: James Gray, Richard Menello; fotografia: Darius Khondji; musiche: Chris Spelman; montaggio: John Axelrad; scenografia: Happy Massee; arredamento: David Schlesinger; costumi: Patricia Norris; interpreti: Marion Cotillard (Ewa Cybulski), Joaquin Phoenix (Bruno Weiss), Jeremy Renner (Mago Orlando), Dagmara Dominczyk (Belva), Angela Sarafyan (Magda Cybulski), Jicky Schnee (Clara), Elena Solovej (Rosie Hertz), Maja Wampuszyc (Edyta Bistricky), Ilia Volok (Voytek Bistricky), Antoni Corone (Thomas MacNally), Dylan Hartigan (Roger), Joseph Calleja (Enrico Caruso), Kayla Molina (Sonya), Michael Morana (Michael il vagabondo); produzione: James Gray, Anthony Katagas, Greg Shapiro, Christopher Woodrow per Keep Your Head- Kingsgate Films-Wild Bunch-Worldview Entertainment; distribuzione: Bim; origine: Usa, 2013; durata: 117.

Trama:1921. In cerca di una nuova vita e inseguendo il 'sogno americano', Ewa Cybulski e sua sorella salpano alla volta di New York dalla loro terra d'origine, la Polonia. Quando raggiungono Ellis Island, i dottori scoprono che Magda è malata e le due donne vengono separate: una viene messa in quarantena, l'altra lasciata andare. Ma Ewa si trova sola e spersa nella Grande Mela, alla ricerca di un modo per ricongiungersi alla sorella. Incontra allora Bruno, uomo affascinante ma malvagio, che la trascina in giro di prostituzione. Le cose cambiano da quando arriva Orlando, l'elegante prestigiatore cugino di Bruno: lui le fa recuperare la sua autostima e una speranza in un futuro migliore, ma Ewa non ha fatto i conti con la gelosia di Bruno...

Critica (1):Quello di James Gray è sempre stato un cinema ancorato alle figure retoriche, costantemente attraversato da oggetti e personaggi simbolici in grado di rimandare a qualcosa di apparentemente molto distante da loro. Dalla sineddoche (intesa come"parte per il tutto") rappresentata dalla Little Odessa del suo esordio, datato 1994 che valse al regista (a soli venticinque anni) il Leone d'argento alla Mostra di Venezia, alle allegorie del recente Two Lovers del 2008, in cui le essenze delle due donne, vertici di un triangolo con in mezzo il protagonista, riposavano all'intemo di forme plastico-concrete: la bellezza fragile e luccicante di Michelle (Gwyneth Paltrow) in un anello con diamante; la sicurezza protettiva e fedele di Sandra (Vinessa Shaw) in un guanto. Sembra quasi che in The Immigrant James Gray si sia sostituito al Leonard di Two Lovers e abbia scelto la seconda strada: la sicurezza, senza troppi rischi, e di questa (come il personaggio di Joaquin Phoenix nel film precedente?) si sia accontentato. Ambientato nella NewYork dei primi anni Venti, il film ha per protagonista Ewa (Marion Cotillard), una ragazza polacca che, insieme alla sorella Magda (Angela Sarafyan), decide di emigrare negli Stati Uniti in cerca di fortuna. Arrivate a Ellis Island, le due saranno costrette a separarsi: Magda, affetta da tubercolosi, viene messa in quarantena. Rimasta sola in una terra sconosciuta, Ewa finirà tra le grinfie di Bruno Weiss (Joaquin Phoenix), un uomo, apparentemente, senza scrupoli che la costringerà a prostituirsi per potersi mantenere. La sua unica speranza di salvezza è rappresentata da Orlando (Jeremy Renner), un mago che cercherà in tutti i modi di aiutarla. Nel corso della sua carriera, il regista newyorkese, arrivato al suo quinto film, ha sempre raccontato la fine del sogno americano, in particolare dal punto di vista di quegli immigrati europei (di prima, seconda o terza generazione) che s'illudevano di trovare la terra promessa sull'altra sponda dell'Atlantico. Ispirandosi ai racconti dei suoi nonni, arrivati negli Stati Uniti dalla Russia durante il grande esodo post Prima guerra mondiale, Gray mantiene un'ineccepibile coerenza tematica con le sue opere precedenti (nonostante la differente ambientazione temporale) cercando di dare alla vicenda di Ewa una portata universale. Grazie al suo stile elegante e curato fino al minimo dettaglio, come si può facilmente evincere dalla precisa ricostruzione storica e dall'efficace fotografia di Darius Khondji (che vanta nel curriculum titoli come Seven di David Fincher o Amour di Michael Haneke), l'autore riesce a nascondere (almeno in parte) i diversi passaggi a vuoto di una pellicola ridondante che, per quanto ben fatta, sa troppo di già visto.
L’utilizzo di figure retoriche è ancora presente ma, rispetto ai voli simbolico-allegorici precedenti, in The Immigrant a risaltare sono anafore e ripetizioni che ribadiscono, minuto dopo minuto, le difficoltà e i tanti incidenti di percorso che è costretta a subire un'immigrata negli Stati Uniti, d'inizio secolo e non solo. La narrazione pulsante di I padroni della notte (We Own the Night, 2007) ha lasciato spazio alla calma piatta di un film che si limita soltanto ad accennare il ruolo che hanno avuto, in quell'America, gli spettacoli a basso prezzo, con le loro ballerine di burlesque (o, meglio, del vaudeville) e i loro illusionisti. Avrebbe potuto partire da qui, il bravo James Gray, ma non ha voluto rischiare: il guanto, non il diamante, dato a uno spettatore (totalmente passivo) in attesa di un interrogativo sguardo in macchina della bella protagonista che, in questo caso, non arriverà mai.
Andrea Chimento, Cineforum n. 525, 6/2013

Critica (2):

Critica (3):

Critica (4):
(Progetto editoriale a cura di); (Progetto editoriale a cura di) Redazione Internet; Redazione Internet (Contenuti a cura di); (Contenuti a cura di) Ufficio Cinema; Ufficio Cinema
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