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Don Chisciotte - Don Quixote


Regia:Pabst Georg Wilhelm

Cast e credits:
Soggetto:
dall'omonimo romanzo di Miguel De Cervantes; sceneggiatura: Alexandre Arnoux, Paul Morand, Fernand Crommelynck; fotografia: Nikolas Farkas, Paul Portier; musica: Jacques Ibert; montaggio: Hans Oser; scenografia: Andrei Andreiev; assistente alla regia: Jean de Limur; interpreti: Feodor Chaliapine (Don Quixotte), Dorville (Sancho Panza), Renée Valliers (Dulcinea), Mady Berry (moglie di Sancho), Mireille Balin (la Duchessa), Vladimir Sokoloff, Charles Martinelli, Charles Léger, Arlette Marchal, Jean de Limur, Pierre Louis, Pierre Labry, Léo Larive, René Donnio, Mafer, Genica Athanasiou; produzione: VANDOR/ NELSON/ WESTER; origine: Francia, 1933; durata: 84'.

Trama:Ossessionato dai suoi libri sulla cavalleria, don Chisciotte parte all’avventura con Sancho Panza e combina guai ovunque in nome dell’amata, inesistente, Dulcinea. Il duca locale, invece che arrestarlo, vuole curarlo con una messinscena.

Critica (1):Don Chisciotte (Don Quichotte, 1933), nasce sotto il segno del compromesso. L’universo metaforico del sogno-feticcio che infor­mava la struttura di Atlantide si contrae fin quasi a scomparire. In Atlantide tutto passa attraverso il diaframma di uno sguardo indiretto. La percezione di un reale, che l’immagine continua implacabile a mistificare, filtra attraverso l’ingannevole illu­sione documentata dal feticcio: il viso dell’amante agonizzante di Antinea appare come un frammento distorto nell’immagine sfoca­ta che ci rimanda il vetro di un bicchiere e l’obiettivo si chiude impotente attorno a questo nuovo definitivo tradimento della materia. Siamo lontani dal “meraviglioso” surrealista dell’Age d’Or riflesso dallo specchio-cielo su cui navigano lente le cupe nuvole di Buñuel. La camera non si spalanca sul mondo ma è il mondo a comprimersi nello spazio circoscritto della stanza, microcosmo-carcere cui le pareti a specchio conferiscono un’ambi­gua, mortuaria suggestione. La concezione che informa Don Chisciotte sembra voler prendere le distanze da qualunque residua ipostasi espressionista. Sparisce ogni eco velleitaria della lezione di Archipenko: Pabst non inserisce “specchi nella creazione plastica per sfumare l’ordine spaziale” (Kurtz). S’impone un tentativo di sistemazione organica delle notazioni sparse che compongono il suo eclettico estetismo. Riaffiora il principio informativo della mirabile ouverture di Dreigroshenoper: là l’obiettivo indugiava sulle marionette, figurazioni di un sogno abbandonato nel teatrino di piazza coi fantasmi di un’età perduta; qui i personaggi degli antichi roman­ces, le ossessioni letterarie del Cavaliere dalla Triste Figura, si rianimano come in un gioco di ombre cinesi. Dal codice miniato che Chaliapine sfoglia le figurine si rialzano per baluginare un attimo davanti agli occhi di chi, assorto a contemplarle, le sta inconsciamente richiamando in vita. Pabst è nuovamente tentato dall’afflato epico. Costretto a rias­sestare il bilancio fallimentare di un film non suo (nei progetti originari la regia doveva essere affidata a Chaplin e la colonna sonora a Maurice Ravel), costretto a lavorare sulla traccia di una sceneggiatura preesistente (non gli fu concesso di girare gran parte del materiale preventivato), assistito da pochi colla­boratori fidati (tra cui Lotte Reiniger, alla quale si deve la visualizzazione dei disegni animati all’inizio e al finale), il regista condensa nell’icasticità della “visione” la brulicante materia del romanzo. Sottolinea vigorosamente l’estraneità del protagonista a un mondo che non è in grado di accettare attraverso lo straniamento del canto: il grande Chaliapine, scelto per il suo passato di glorio­so interprete lirico, illustrerà la sua solitaria visione inte­riore non con le strazianti invettive del malinconico eroe di Cervantes ma coi versi aulici e magniloquenti approntati da Jacques Ibert sulla scorta del celebre spartito di Massenet. Nasce così una strana opera per musica e immagine. Il melodramma, finora inteso nell’accezione deteriore di polverosa convenzione, diviene il materiale reattivo, l’ultimo disponibile all’illusio­ne. Le frasi smozzicate, amplificate nell’assurda retorica di un francese elevato a mistico canto gregoriano (la voce roboante del basso lo cadenza in disperato vaniloquio), si trasformano in grande artificio verbale, massimo risultato estetico che Pabst può affidare a un sonoro cui non ha mai cessato di rimproverare una deplorevole mancanza di senso. Alla luce di questo inedito straniamento si assembla il materiale figurativo. Gli attori, a eccezione del protagonista, si negano in quanto interpreti per assimilarsi – profili e forme, immagini di un’antica “persona” – alla statica perfezione del décor. L’eco del palazzo di Antinea traluce nella scala marmorea, invasa dai riverberi del chiaroscuro, del castello in rovina di Don Chi­sciotte, budello a spirale, antro di un mago rinascimentale che ha perso, col suo potere, ogni concreta incidenza sul visibile. Come singoli quadri staccati, sciolti da ogni sudditanza col libro che li conteneva, si susseguono gli episodi celebri la cui sequenza è ancora informata al basilare principio costitutivo dell’espressionistico “dramma a stazioni”. Ma, al di là del preziosismo figurativo dell’immagine e di episodici trasalimenti, si finisce per rinunciare a una bruciante disamina del destino umano, preferendole il gioco prospettico dei “magici” effetti a degli espliciti rimandi a una ricchissima letteratura del dissenso, solo a tratti capace di rinviare all’attualità ango­sciosa del momento storico. Così, dopo la tenzone col gregge di pecore, la tentata lapidazione da parte dei galeotti e l’insperata conclusione del torneo (dove Don Chisciotte riesce a disarcionare il pavido Carrasco, il pretendente di sua figlia, grottesca immagine-simbolo di quella scorbacchiata cultura accademica su cui si riversavano gli strali di Molière), l’umiliazione progressiva dell’eroe, trova il suo culmine figurativo nella sequenza del carro: imprigionato come una belva feroce, Chaliapine offre ai passanti l’immagine degradata della colpevole devianza alla norma. Mirabile intuizione discesa dal teatro di Valle-Inclàn, che sarà utilizzata in seguito da Orson Welles quando, all’inizio di Otello, farà seguire ai funerali del Moro la gabbia che con­tiene l’omicida Jago squassato da un impotente furore.
Enrico Groppali, Pabst, Il Castoro Cinema 1983

Critica (2):

Critica (3):

Critica (4):
Georg Wilhelm Pabst
(Progetto editoriale a cura di); (Progetto editoriale a cura di) Redazione Internet; Redazione Internet (Contenuti a cura di); (Contenuti a cura di) Ufficio Cinema; Ufficio Cinema
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