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Bandito (Il)


Regia:Lattuada Alberto

Cast e credits:
Soggetto
: Alberto Lattuada; sceneggiatura: Tullio Pinelli, Pierro Tellini, Ettore Maria Margadonna, Oreste Biancoli, Mino Caudana, Alberto Lattuada; fotografia: Aldo Tonti; scenografia: Luigi Borzone; montaggio: Mario Bonotti; musica: Felice Lattuada; interpreti: Amedeo Nazzari (Ernesto Bruneri), Anna Magnani (Lydia), Carla Del Poggio (Maria), Carlo Campanini (Carlo Pandelli), Eliana Banducci (Rosetta Pandelli), Mino Doro (Mirko), Folco Lulli (Andrea), Thea Ajmaretti (la tenutaria Tecla), Mario Perrone (il gobbo), Amato Garbini (il tenutario), Gianni Appelius (Valligaris), Ruggero Matrigali (il negriero); produzione: Dino De Laurentiis per la Lux Film; RDL (Roma); distribuzione: Lux Film; origine: Italia, 1946; durata: 87'.

Trama:Tornato a Torino dalla prigionia in Germania, il giovane Ernesto trova la sua casa distrutta, i genitori morti e la sorella che è diventata una prostituta. Durante un diverbio con il protettore, la ragazza rimane uccisa ed Ernesto a sua volta uccide l'uomo. Incomincia così la sua carriera nel mondo del crimine, diventa capo di una banda e si distingue per il suo buon cuore ma è malvisto dagli altri...

Critica (1):I titoli di testa del film compaiono sullo sfondo di un giornale; tutta la fase dell´arrivo del treno, la stazione, lo scarico dei prigionieri, ha il ritmo serrato e la ricchezza di informazioni di un improvviso impatto con l´attualità. Dalla rapida alternanza dell´immagine del treno che procede (dopo essere uscito dall´oscurità della galleria) e dei prigionieri ammassati nel vagone, si arriva alla sosta, all´apertura e alla discesa caotica dei prigionieri che si confondono con la folla in attesa. Adottando una segmentazione dell´incipit che gli ricordiamo in altre occasioni (pensiamo all´iniziale descrizione dell´ospedale in Anna o ai rituali del trucco delle signore nell´hotel de La spiaggia), Lattuada fonde la tensione di arrivo e attesa con un quantità di segni emblematici. Intanto c´è il treno del ritorno che è lo stesso della deportazione; riconduce a casa i prigionieri e tuttavia conserva una sua particolare cupezza: la macchina nel fumo, i suoi dettagli nella successione dinamica delle inquadrature, le scritte a gesso («cercasi moglie anche usata», «abbasso Hitler - evviva Usa», «evviva l´Italia») e quella ufficiale: «Prigionieri di guerra restituiti». Il treno, insomma, si presenta nella luce della speranza e nel senso del dolore ancor vivo. L´interno «carcerario» dei vagoni nei quali pur risuona qualche euforia tra i corpi accasciati per la stanchezza, è spezzato dalla violenza in primo piano della caldaia aperta: gli uomini restano a contatto col fuoco e col fumo della guerra e la bocca accesa del forno può alludere a qualcosa di ancor più tremendo.
La discesa nella stazione ripresenta, in altra chiave ambientale, la stessa oscillazione. All´inizio è un caos festoso: richiami, saluti, abbracci, le note del «Piave», una concitazione appena venata da piccole stonature di sfondo come quella del soldato che resta seduto indifferente ed estraneo; addirittura l´informazione che si fa gioco e parodia (o anche polemica) quando Carlo si presenta con cibo e giornali: «...ho preso l´Avanti!, anche Il Popolo…— avanti popolo...». Poi la festa subisce le prime insidie dell´incertezza: un prete che non sa o non vuole rispondere sulla sorte dei parenti, i dialetti che rivelano la differenza e non soltanto l´allegria, un MP che arriva a dividere e a mettere in fila. Di qui la precarietà delle speranze si fa chiara e il dialogo fra Ernesto e Carlo nel camioncino la approfondisce per contrasto: i due uomini magnificano l´aria speciale del suolo italiano e intanto l´esterno mostra interminabili schiere di macerie, Carlo, che per scommessa aveva intonato l´acuto dell´Aida: «...un trono vicino al sol..» mostrando il bottino bizzarro di una sedia antica, è costretto a rinunciarvi per pagare il passaggio. Lo scenario della devastazione, commentato dal ritmo allegro di A tisket, a tasket (questo contrasto, riferisce divertito lo stesso regista, ebbe un grosso apprezzamento dalla delegazione sovietica al Festival di Cannes del 1946), ha poi due contrappunti decisivi per il protagonista. Il primo all´arrivo di questi nel cortile della sua casa bombardata, il secondo all´Ufficio reduci. Ancora nel sottofondo della canzonetta americana Ernesto contempla la casa distrutta; la musica è sostenuta e il giro della mdp invece lento: parte dal reduce e torna su di lui dopo un accumulo di desolazione. La scena successiva con la portinaia è fra le più vere e strazianti che il neorealismo abbia offerto, esprime cioè il massimo sentimento del dolore in una altrettanto vasta impotenza, fissando con naturalezza il protagonismo delle persone comuni nell´immane tragedia. La scena dell´Ufficio Reduci riprende con asprezza ancor maggiore che nella parte iniziale del treno l´angoscia delle esperienze appena trascorse: i reduci sono ammassati in uno stanzone, pigiati da non potersi muovere e accanto a Ernesto c´è un uomo col lager in faccia, un uomo tormentato dalla tisi, malfermo, con lo sguardo vuoto da «mussulmano». Di nuovo è l´impotenza verso un dramma troppo grande e pur tuttavia interamente subìto che ci balza davanti; la classica divisione tra affamati e affamatori (il maresciallo grasso che sta dietro la scrivania per dispensare le liquidazioni), si carica di significati contingenti e precisi anche se poi l´atto di ribellione di Ernesto rimane fatalmente solitario. Quasi un gettare all´aria le carte come nelle rivolte contadine che però sconta l´invincibile anonimato della città. Se si guarda alla riconquistata serenità di Carlo nella sua casa di montagna, non a caso evidenziata con una significativa parentesi, la città appare come un deserto affollato. La campagna ha per contro maggiori possibilità di ripresa, è più integra e lontana, politicamente, dalla logica di guerra e dalle sue conseguenze.(...) La storia produttiva de Il bandito è, stando alle testimonianze, piuttosto avventurosa. De Laurentis che trova i primi soldi da un mobiliere, ingaggia la Magnani convincendo Gualino a entrare nell'affare, Nazzari che viene scelto con esplicita intenzione commerciale (quindi antineorealista), una condizione tecnica precaria che costringe ai salti mortali il bravo direttore della fotografia Aldo Tonti. Se un'analogia con altre produzioni neorealiste abbiamo voluto segnalarla riguardo a Caccia tragica per il tema dei reduci, ve n'è un'altra che val la pena di considerare al di là dell'apparente stravaganza: con Roma città aperta. Le differenze ideologiche, intellettuali e di temperamento fra Rossellini e Lattuada scavano un abisso, eppure le affinità a distanza fra Roma città aperta e Il bandito meritano qualche attenzione.
Intanto c'è questa precarietà, il ruolo e l'improvvisazione dei procacciatori di risorse (Rossellini in prima persona in un caso, De Laurentis nell'altro), c'è la qualità espressivo-formale dei prodotti che si confonde spesso con la povertà dei mezzi (Tonti che aziona a mano gli illuminatori, Rossellini che deve ad analoghe difficoltà la suggestione di alcune sue inquadrature opache) e c'è infine la comune preoccupazione delle garanzie divistiche, perché se la Magnani si rivela al cinema con Roma città aperta, non va dimenticato che il cast del film fondatore (del neorealismo, come é stato detto) si basa sul professionismo più che sulla casualità degli attori, che Fabrizi costa caro ed occorrono vari arrangiamenti per far scendere il prezzo, che insomma li produzione del capolavoro rosselliniano si rende possibile in un quadro produttivo-distributivo ancora molto tradizionale. Nel Bandito la scelta della Magnani è già grazie a Roma città aperta, compiutamente "divistica".
Ma al di là delle somiglianze della conngiuntura economica ci preme sottolinear che in entrambi i casi assistiamo a una efficacissima commistione drammaturgica. L'intensità e la "verità" di Roma città aperta risiede probabilmente in un anomalo bilanciamento di convenzioni linguisti che: al "realismo" e alla crudezzza, fanne da contrappeso il bozzetto, i microintrecci il melodramma. Dove la verità delle cose avrebbe soltanto funzionato da specchio, brani di fiction offrono la possibilità di indovinare e di interpretare. Un forma assai impura, quella di Rossellini, che in Lattuada troviamo invece più determinata. Mutuando dagli esempi francesi e americani del nero, il regista stacca dalla prima parte neorealista una sorta di intermezzo poliziesco. Ed è, tutto sommato, un intermezzo giocoso anche se prende l´avvio dai bruschi cambi di inquadratura che descrivono la doppia morte di Maria e del suo protettore. Il passaggio è segnato dalle scarpe di Ernesto, riprese ancor sporche di fango durante la colluttazione ma poi nuove e lucide nel sensualissimo movimento orizzontale che ci introduce alla tresca fra il novello fuorilegge e la cinica Lydia. Da questo momento fino alla spietata uccisione di un ostaggio da parte della banda, l´avventura di Ernesto è vissuta in una specie di alleggerimento musicale (anche se le ferite continuano a sanguinare), una festa illusoria che il reduce interpreta fra beffa e romantica ansia di giustizia. Quasi un sogno populista significativamente concluso, dopo che a passo di danza sono stati ripuliti i ricchi profittatori e che gli spari si sono accordati alla pirotecnica di Capodanno, con la distribuzione del bottino ai poveri di «ringhiera» nelle note del Guglielmo Tell. In questa parte intermedia l´aggancio neorealista sembra del tutto abbandonato in favore di altri consolidati moduli di genere. Tuttavia, se vogliamo trovare un archetipo del carattere che Nazzari fisserà qualche anno più tardi con Matarazzo in quello che assai correttamente è stato definito neorealismo d´appendice, dobbiamo rifarci proprio al Bandito. Non è tanto la porta stretta che consente all´attore di cambiare pelle dopo la consacrazione del ventennio (casomai tale compito lo avrebbe assolto il precedente Un giorno nella vita di Blasetti), quanto la sfaccettatura di un nuovo tipo che va formandosi: l´uomo del dopoguerra sempre in bilico fra la rinascita individuale (che avviene perlopiù attraverso il lavoro in una società insidiata dalla disoccupazione) e il fallimento, fra la pace della famiglia (dopo lo sfascio della guerra) e l´illegalità, fra la disperazione e il riscatto (religioso) dei sentimenti. Con ciò non intendiamo dire che Il bandito va collocato, magari come antesignano, nel neorealismo d´appendice; piuttosto ci sembra il caso di sottolineare l´ampiezza delle costanti neorealiste e la loro possibile coniugazione con gli standard linguistici più collaudati. (…) Viene da chiedersi, durante la visione de Il bandito, cosa spinga Ernesto all´attaccamento per la «nipotina» che non ha mai visto. La prima risposta è che la guerra porta come conseguenza fra le più gravi lo smembramento delle famiglie. Tutto il film è segnato dai lutti familiari e dai vuoti che lasciano: Ernesto ha perso tutti, la portinaia il figlio, il maestro elementare che viene assurdamente passato per le armi supplica i fuorilegge in nome della propria famiglia. Quando poco sopra dicevamo che lo scatto drammatico dovuto al ritrovamento della sorella da parte di Ernesto e alla morte di lei amplia la visuale rispetto alla semplice oggettività naturalistica, intendevamo riconoscere il valore della «forzatura» dal punto di vista dello scavo e dell´analisi. Attraversando l´intermezzo pìcaro il film congiunge naturalismo e melodramma nell´unica sintesi sentimentale del rimorso. Ernesto è attaccato alla nipotina sconosciuta perché rappresenta l´unico simbolo di resistenza e di autenticità in un disastro al quale egli stesso, magari poco convinto, ha contribuito. Quando lo sguardo di Ernesto compie il giro completo sulle rovine della propria casa è come se nella paradossale allegria di A tisket, a tasket risuonasse un´altra (colpevole) futilità: quella che poco prima lo aveva spinto a contemplare la città distrutta vagheggiando la speranza che la catastrofe avrebbe procurato lavoro per anni e anni. Dunque la bambina, proprio perché lontana e astratta, è vissuta come un sogno, come qualcosa di inviolato su cui anche la guerra non ha potuto infierire.
Ma c´è un altro fatto, assai più inquietante, che illumina il rimorso del giovane: l´incesto virtualmente consumato nel postribolo con Maria. Quando Ernesto si specchia nel ritratto della sorella la disperazione assume la crudezza divoratrice di un lampo, qualcosa di insospettato e terribile che si rivela a entrambi. Dopo non potrà esservi per Ernesto che la ricerca di un riscatto radicale, di una espiazione portata fino alle conseguenze più estreme. Ecco perché la scelta banditesca, nell´evidenziare l´impossibilità a rimuovere la guerra ed anzi prolungandola, porta ben presto i segni del suicidio riparatore. La parte finale del film ci riporta a un clima bellico, come se lo scenario appena liberato ripiombasse improvvisamente nella tragedia. Gli scontri a fuoco tra le colline, l´imboscata, le uniformi danno il senso aspro di una guerra rivisitata, rivissuta da una memoria recente. È qui, in un ambiente veritiero e improbabile insieme, che Ernesto si offre alla morte. Mani in tasca guarda verso la parete della montagna, la mdp cogliendolo di tre quarti, fa un movimento curvo in approssimazione finché la schiena viene ad occupare quasi interamente l´inquadratura. In tal modo si ha l´impressione di un doppio schiacciamento: del corpo contro la parete impenetrabile e della mdp contro il corpo. Così Ernesto va contro l´oscurità, contro la più completa mancanza di uscite dando la schiena al mondo intero. Un suicidio, il suo, che nel restituirgli un barlume di pura individualità, mantiene però il segno della guerra, ossia si svolge nei modi di un´esecuzione. L´immagine patetica che scopre il giocattolo anziché la pistola nella sua mano riversa si carica allora di un senso che non può essere limitato al semplice effetto melodrammatico. Lungo il tortuoso percorso morale e drammaturgico che abbiamo tentato di esaminare la «verità» neorealista e le convenzioni della fiction si sono misurate con l´esigenza più profonda di interrogarsi sui perché della guerra. Il bandito è davvero il film del dopo, della disperazione e di un rimorso anche collettivo. In questo la materia prima dell´innovazione neorealista rimane anche sul piano drammaturgico egemone, informa in ultima istanza l´intera costruzione. E Lattuada dimostra, col talento e la verità della professione, di saper prendere sul serio la Storia.
Tullio Masoni, Cineforun n. 267, settembre 1987

Critica (2):Il dopoguerra di Lattuada comincia con le riprese degli esterni de Il bandito (1946) in una Torino devastata dai bombardamenti. Data la mancanza di mezzi, il film è girato senza "colonna guida": la sorella di Lattuada, Bianca, al suo esordio come segretaria di edizione, stenografa i dialoghi durante le riprese. Con i film di questi anni Il bandito condivide la precarietà delle condizioni di realizzazione: le riprese "au plein air", la limitatezza delle apparecchiature, le difficoltà economiche. Ma si fermano qui le analogie: con Il bandito Lattuada realizza il suo film neorealista, dà un'interpretazione personale e singolare di un modo di fare cinema che, pur non muovendosi ancora nel solco di una "tradizione" neorealista, si rifà implicitamente al modello di Roma città aperta. Il pericolo di una immediata canonizzazione del neorealismo come modello da imitare é indicato nella bella recensione di Antonio Marchi ("La critica cinematografica", 10 dicembre 1946), che riporta le parole di un anonimo uomo di cinema: "Roma città aperta non deve indurci in inganno; guai se lo credessimo un esempio di linguaggio. Non bisogna imitare questo film veramente importante, ma bisogna allontanarsi da lui con la velocità del suono, tapparsi le orecchie al canto che da lui proviene e considerare il problema solamente sotto l'aspetto dell' inizio Il bandito si muove sulla scia di questo prototipo. Il ritorno di Ernesto (Amedeo Nazzari), reduce dalla prigionia in Germania, nella sua Torino è visto attraverso un "occhio realistico": la macchina da presa si mescola alla folla chiassosa dei reduci che scendono dal treno, si muove orizzontalmente seguendo ora l'uno ora l'altro, registrando incontri gioiosi e drammi personali, felicità e delusioni, affastellando i piani e sovrappopolando di corpi l'inquadratura. E' tutto in questa prima sequenza il neorealismo de Il bandito: un prologo, un'atmosfera, una situazione, l'inizio di una storia. Poi Lattuada inizia il suo gioco di incastri, alterna visione oggettiva a visione soggettiva, accosta elementi contrastanti, procede a blocchi compatti nella narrazione, combina generi diversi. Dopo la visione di una Torino distrutta dalla guerra (con una "soggettiva" dal camion che lo porta verso casa), Ernesto giunge al suo rione. La macchina da presa lo inquadra in campo lungo all'entrata di uno stretto vicolo che conduce al cortile della sua abitazione. Ernesto avanza, si avvicina fino a essere inquadrato in primo piano, poi volge lo sguardo verso destra. La macchina da presa prosegue il movimento del capo e inizia una panoramica che, appena uscito di campo Ernesto, diviene "soggettiva": è lo sguardo del reduce che scopre la sua casa distrutta. La panoramica trascorre su muri cadenti, pareti devastate, finestre ridotte a buchi nel muro, rovine ancora fumanti, e torna, completando un giro di 360 gradi, sul volto di Ernesto, rivenendo visione "oggettiva", "occhio cinematografico". Con un analogo passaggio da visione oggettiva a visione soggettiva é descritta un'altra scoperta di Ernesto: la prostituzione della sorella Maria. nella stanza di un bordello Maria (Carla Del Poggio) sbuca da una tenda alle spalle di Ernesto. La macchina da presa inquadra il primo piano dell'uomo che si volta di lato, poi ne prosegue il movimento con una panoramica velocissima di 180 gradi fino a inquadrare la figura intera di Maria. Il duplice movimento oggettivo-soggettivo senza soluzione di continuità (cioè senza stacchi di montaggio) in entrambe le sequenze presiede al parte del racconto in cui Ernesto apprende la dolorosa realtà del dopoguerra (la casa in rovina, la morte della madre, la sorella prostituta), trasforma lo sguardo del mesto nello sguardo dell'oggetto rappresentato, crea una tensione drammatica legando indissolubilmente, all'interno della storia, soggetto e oggetto della visione. Man mano che il racconto procede, la ricerca di una funzionalità espressiva adatta per ogni differente situazione tiene conto dei generi più disparati, facendo della costruzione del film una successione di blocchi narrativi stilisticamente autosufficienti. La rapida ascesa di Ernesto all'interno della banda capeggiata da Mirko (Mino Doro) é sintetizzata dal lento trascorrere della cinepresa sul corpo di Ernesto sdraiato sul letto: prima le scarpe lucide, poi i pantaloni gessati, il panciotto, l'orologio sopra il polsino della camicia, i capelli lustri di brillantina, il bicchiere di whisky. La comunicazione di un mutamento avvenuto nel protagonista prelude a un cambiamento di registro nel film, che da questo momento si muove nel solco tracciato dalla "gangster-story", tenendo presente, in più di un momento, il modello di Scarface: l'entrata nella banda e la progressiva ascesa, la conquista dell'amante del capo, l'accenno a una deviazione incestuosa dell'amore per la sorella (in una delle prime sequenze, Ernesto la segue per strada fino al bordello, senza averla riconosciuta, attratto solo dalla bellezza del suo corpo), la morte di lei, la conclusione tragica con l'uccisione del protagonista. Ma la scelta "americana" non é gratuita: rientra in quella continua e più generale ricerca di una funzionalità espressiva che Lattuada sviluppa per raggiungere il massimo di pertinenza nell'esposizione di fatti e personaggi: se all'inizio il regista fa del "reduce" il personaggio centrale ai un racconto frequentemente soggettivizzato, personalizzato dallo sguardo del protagonista, ora colloca il "bandito" all'interno di una storia dove la rappresentazione si oggettivista, dove l'inquadratura struttura i propri segni sui modelli hollywoodiani, dove la geometrizzazione dei gesti e dei comportamenti, sistematizzata nel codice del "gangsterfilm", prelude all'inevitabilità della conclusione drammatica. Lo stesso linguaggio e spigolosa, come nella sequenza della rapina, dove Ernesto, pistola in mano, "invita" a consegnare i valori: "Le signore abbiano la bontà di consegnare i gioielli. Ai portafogli pensiamo noi. Camminare in circolo. Al secondo giro chi non ha consegnato tutto ci rimette la pelle. Avanti, camminare, camminare!".

Claudio Camerini, Alberto Lattuada il Castoro Cinema 1982

Critica (3):

Critica (4):
(Progetto editoriale a cura di); (Progetto editoriale a cura di) Redazione Internet; Redazione Internet (Contenuti a cura di); (Contenuti a cura di) Ufficio Cinema; Ufficio Cinema
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