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Garage Olimpo


Regia:Bechis Marco

Cast e credits:
Soggetto e sceneggiatura
: Marco Bechis, Lara Fremder; fotografia: Ramiro Civita; musiche originali: Jacques Lederlin; montaggio: Jacopo Quadri; scenografia: Romulo Abad, Jorge Sarudiansky, Esther Musatt; costumi: Caterina Giargia; interpreti: Antonella Costa (Maria), Carlos Echevarria (Félix), Pablo Razuk (Texas), Enrique Piñeyro (Tigre), Marcelo Chaparro (Turco), Adrian Fondari (Rubio), Miguel Oliveira (Nene), Dominique Sanda (Diane), Chiara Caselli (Ana), Paola Bechis (Gloria); produzione: Amedeo Pagani, per Classic Srl./Paradis Films/Nisarga/Rai/Telepiù; distribuzione: Istituto Luce; origine: Italia / Francia / Argentina, 1999; durata: 98'.

Trama:Argentina. Sono gli anni della dittatura militare. Maria ha diciotto anni, è una militante e insegna a leggere e scrivere ai poveri di Buenos Aires. Catturata dall’esercito viene rinchiusa nel Garage Olimpo dove, al pari di altri detenuti, subisce tortura. Il suo aguzzino è Félix, un ragazzo che viveva come pensionante sotto il suo stesso tetto. Uno sguardo dall’alto apre il movimento di progressiva penetrazione e discesa nell’inferno argentino della dittatura militare. Prima il mare, poi Buenos Aires con i suoi quartieri moderni e con le sue poblaciones, si svolgono rapidamente fino a diventare strade piene di gente, un autobus dove un ragazzo passa una borsa a una giovane, un appartamento protetto da sgherri armati che tra poco, o tra molto, quella giovane farà saltare in aria.
In un altro punto della città, sicuramente prima, l’obiettivo (l’occhio?) della mdp cala su un’altra ragazza che insegna a un gruppo di adulti. E poi, di tanto in tanto, altre immagini dall’alto, di giorno o di notte, riprendono, in un ampio abbraccio, una quotidianità assoluta che contrasta drammaticamente con quello che c’è sotto. Un campo di concentramento che si dipana, come un budello, negli anfratti di un enorme garage. Questo girone infernale che la normalità della professione di torturatore (si timbra il cartellino all’inizio e alla fine del proprio turno di "lavoro") rende ancora più agghiacciante, si apre o – dipende dalla prospettiva – si chiude al mondo grazie a una porticina anonima, insignificante, invisibile quasi. Tra il dentro e il fuori, tra il sopra e il sotto, le soluzioni di continuità sono solo apparenti.

Critica (1):Garage Olimpo è proprio un film fatto di profondità nel senso più abissale del termine, un film che chiede, fin dove sia possibile, di non far caso alle cornici spaziali o alle consequenzialità temporali, ma di essere guardato come tentativo forte di costruire un campo visionario in cui lasciar fluire, accanto alle violenze della Storia, l’ossessione di catturare le immagini di quella Storia. Marco Bechis, che in Alambrado aveva reso palpabile la rarefatta e gelida limpidezza della Patagonia, che ne aveva imprigionato e ricompattato le vastità, le solitudini e le soffocate inquietudini sensuali nella metafora della recinzione, riproponendo così una sorta di sguardo sul mondo dalla posizione privilegiata di chi è spettatore consapevole di esserlo, in questo suo toccante film cambia prospettiva. Rincorre con lucidità e con coscienza teorica la possibilità che il cinema ha di "vedere e di comprendere". Il passaggio, che è essenzialmente estetico, non incrina l’esigenza etica ma, paradossalmente, la pone in primo piano e presenta una questione risolvibile in termini che sono teorici prima ancora che poetici.
Nelle sue note di regia al film Marco Bechis spiega così il percorso che ha seguito: "Ho voluto documentare il mio rapporto con quell’esperienza e quindi ridare immagini a delle vicende che non ne hanno nemmeno una. I desaparecidos non hanno immagini. La domanda che mi sono posto è stata: quali immagini? Qualunque immagine va bene? Evidentemente no. E questo problema è stato un’ossessione ad ogni inquadratura. Secondo me l’immagine ha una sua etica. Cosa significa? Che un’intenzione può essere tradita dall’immagine che si usa perché l’immagine ha dei codici propri che non sono quelli della scrittura. Allora quali immagini per descrivere un campo di concentramento?". Già l’espressione "usare l’immagine" apre una via di interpretazione per questo film poiché presuppone un’idea di cinema che cerca di svelare il proprio essere a partire da un aspetto che è, appunto, innanzitutto estetico. In un suo recente libro Flavio De Bernardinis propone con chiarezza quale sia la questione essenziale del cinema quando scrive che esso "è innanzi tutto arte meccano-performativa, apparato tecnologico in azione, immagine prodotta in movimento che scandaglia il mondo e i suoi infiniti particolari, obiettivamente, senza che tale interiorizzazione pervenga a deformare l’apparenza delle cose". E completa l’inevitabile percorso che congiunge il sentire, soggettivo, dell’uomo con quello, oggettivo, della macchina, affermando che tocca poi al regista, all’uomo "visionare, inquadrare, montare", ordinare quello che la macchina ha visto. Garage Olimpo diventa quindi vera testimonianza etica anche perché si interroga continuamente sulla necessità di trovare questo filo che lega l’immagine catturata a quella selezionata, ricucita, mostrata. In questo senso, la scelta di ogni sequenza risponde non solo alla privatissima esigenza del pudore, ma alla lucidità intellettuale di chi sembra credere che il cinema sia anche, come sosteneva Serge Daney, arte del mostrare. Marco Bechis ha fatto un film crudo ed emozionante perché qualunque immagine obbliga a vedere quello che c’è al di là di essa e tutto il carico disperato e drammatico che la sostanzia. Mostrare forse è far vedere con gli occhi del cuore e della mente insieme, costringere a stupirsi di riuscire a vedere quello che non scorre sullo schermo. Quello che accade dietro alle porte di ferro chiuse un attimo prima della tortura e quello che accade subito dopo l’apertura del portellone dell’aereo in volo sull’oceano, noi lo abbiamo sicuramente visto.
Attilio Coco, Segnocinema n. 102, marzo-aprile 2000

Critica (2):Raccontare una tragedia collettiva, tutto sommato recente, come quella dei desaparecidos sotto il tallone della dittatura militare argentina non era facile per motivi politici quanto cinematografici. I primi: la superficialità del nostro rapporto con la storia, fatta di emozioni e di slogan provvisori, presto sostituiti da altri, e la tendenza a fare di tutt’erba un fascio, a dimenticare; i secondi, il modello del cosiddetto cinema politico, e se all’italiana o all’americana non cambia (ma molto più monotono e ritualistico quello all’italiana), per cui contano le identificazioni dello spettatore in personaggi e storie esemplari, di forte ricatto emotivo, per un veloce scarico di coscienza, e il modello di un certo abuso declamatorio del cinema politico argentino che ha origine, se non sbagliamo, nella retorica sia nazionalista sia peronista. Ebbene, non fosse che per aver evitato questi due scogli, queste due facili e consunte maniere, il film di Marco Bechis è già qualcosa di raro, di nuovo. Quella che narra è la piccola storia qualsiasi di una ragazza arrestata e torturata, che parla, che si piega per sopravvivere al rapporto con uno dei suoi aguzzini, giovane proletario qualsiasi che ella già conosceva e che si dice innamorato di lei, che tenta inutilmente la fuga da quel “Garage Olimpo” che è uno dei tanti luoghi dove i militari svolgono il loro “lavoro” di repressione e tortura, che muore infine come tanti suoi connazionali giovani.
In questa piccola storia “qualsiasi” Bechis individua e descrive un nodo che è centrale all’esperienza del secolo. È quello che, in un grande reportage sul processo Eichmann, Hanna Arendt definì, “la banalità del male”. A nostra memoria solo in una scena di un film recente di Otar Iosseliani, Briganti, e in un racconto di Aleksandr Tisma (Scuola di empietà) “la banalità della tortura” era stata narrata con altrettanta agghiacciante chiarezza; e solo in un vecchio film polacco, La passeggera di Andrzej Munk, il rapporto tra carnefice e vittima era stato scandagliato con altrettanta agghiacciante evidenza e, a suo modo, semplicità.
Ma soprattutto Bechis divide nettamente il “sopra” e il “sotto” della storia, quello che è visibile e quello che non si vuol mostrare, la parte bassa del potere che, anche in situazioni cosiddette normali (un paese in pace, con un governo democratico), presiedono al rapporto con gli indesiderabili e i reietti. Il modo in cui la città continua la sua vita, mentre a fianco della normalità, ma proprio a fianco e talora a vista di tutti se solo si volesse vedere, si violenta e si opprime, è quanto più impressiona del film, perché non riguarda soltanto le situazioni estreme. Bechis ha scelto la camera a mano e la luce reale per il sotto e il basso, e la normalità del cinema per il sopra e il normale. Questo film senza ricatti ha il merito di ricordarci verità che dimentichiamo e che ci riguardano: la banalità del male come rischio costante di ogni burocrazia nella sua attività di controllo e repressione.
Goffredo Fofi, Meravigliosa desaparecida, in Panorama, 11/2/2000

Critica (3):Il ricordo che lascia Garage Olimpo rimane col tempo, come una macchia, come la sporcizia. È molto diverso dal sentimento di indignazione che ci lascia appagati e soddisfatti con noi stessi; e’ qualcosa di più duraturo, qualcosa che si attacca alla pelle e fatichi a mandare via. È la nausea. Il film di Bechis è di un realismo che annienta, che demolisce, ma lo è in un modo diverso, indiretto. Più si avvicina ai fatti veri e meno risulta reale. Nell’allontanarsi dal giornalistico, nel cercare una forma di rappresentazione meno debitrice nei confronti della “realtà”, verso il particolare aneddoto, risulta più brutale e credibile nei suoi effetti. La maggior parte del film si articola su queste storie vere. L’attentato contro il capo della polizia federale realizzato da un amica della figlia, l’appropriarsi dei figli e dei beni dei desaparecidos, le liste della Chiesa o quantomeno quelle dei cappellani militari, il caso di Mario Villani che, detenuto nell’ESMA si vide obbligato a scegliere tra riparare una picana o permettere che si utilizzasse un metodo di tortura ancor più brutale; tutti questi episodi, e molti altri, costituiscono per la maggior parte Garage Olimpo. Tuttavia, indipendentemente dalla diversa realizzazione dei singoli episodi, questi non bastano a spiegare il profondo disagio e il senso di vergogna col quale lo spettatore finisce di vedere il film. Il segreto della riuscita di Bechis è altrove, in una forma di rappresentazione dell’orrore che non ha come unico merito il pudore, ma quello di aver trovato un modo per renderci partecipi della nostra catastrofe morale. Uno dei motivi di questa riuscita è nel tono scelto per raccontare la storia. La vita nel “Garage Olimpo” è raccontata come se fosse un luogo di lavoro qualunque, buio, triste e burocratico: un luogo per il quale tutti siamo passati almeno una volta. La relazione tra Maria, la detenuta desaparecida, e Félix, suo carceriere e torturatore, prende la forma surrealista di una storia da ufficio. Come nel vecchio cinema argentino, i protagonisti conducono una vita grigia, dividono il lavoro con gente simile a loro ma avida ed egoista, il capo è scialbo e un po’ autoritario, la routine consiste nell’arrivare, timbrare il cartellino e valutare il malumore del capo e l’unica possibilità di sfuggire a questo orizzonte è lasciarsi coinvolgere emotivamente dalla persona che può alleggerire anche per pochi minuti la sensazione di soffocamento e “reclusione”. Che questa struttura quotidiana sia applicata a un campo di concentramento, che i colleghi innamorati siano in realtà torturatore e torturata, che la posta in gioco non sia la qualità di vita dei lavoratori ma la loro stessa umanità, provoca un doppio effetto di familiarità e spavento che accrescono l’orrore. C’è un altro elemento che trasforma Garage Olimpo in un esperienza che annienta. Il film comincia con un piano aereo, la prima cosa che si vede dall’alto sono le acque marroni del Rio della Plata. Saranno anche nell’ultima immagine e il loro riferimento è inequivocabile: uno dei modi per far sparire i corpi delle persone sequestrate era quella di gettarli nel fiume da un aereo, ancora vivi, appena anestetizzati. Pero’ Bechis inframezza tutta la narrazione con altri piani aerei della città di Buenos Aires. Queste immagini della nostra città dall’alto in un’epoca che si inserisce tra il 1976 e il 1978, che apparentemente non hanno alcuna giustificazione, provocano l’effetto di coinvolgerci tutti, cosa che certamente non e’ facile da accettare. Si vede una città riconoscibile, le auto si muovono lungo le strade principali, le luci negli edifici, nelle piazze, l’Obelisco. Una città nella quale non si vedono persone, ma nel cui movimento si scorge la normalità della vita quotidiana. In una di queste case illuminate c’ero io. Preoccupato per l’università, infastidito per la censura nel cinema, dipendente dal calcio. Quella che sento non e’ una colpa che si risolve col tempo: non c’è niente che avrei potuto fare in quell’epoca e che potrebbe permettermi di vedere Garage Olimpo senza sentirmi ugualmente miserabile. Perché è la vergogna profonda di essere argentino, di essere umano, di appartenere alla specie capace di una condotta simile. Siamo macchiati, lo saremo sempre. Garage Olimpo rinnova questa vergogna e io, personalmente, gliene sono grato.
Gustavo Noriega, El Amante-Cine, Buenos Aires, settembre 1999

Critica (4):
(Progetto editoriale a cura di); (Progetto editoriale a cura di) Redazione Internet; Redazione Internet (Contenuti a cura di); (Contenuti a cura di) Ufficio Cinema; Ufficio Cinema
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