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Cose di questo mondo - In this world


Regia:Winterbottom Michael

Cast e credits:
Soggetto
: Tony Grisoni; sceneggiatura: Tony Grisoni; fotografia: Marcel Zyskind; musiche: Dario Marianelli; montaggio: Peter Christelis; interpreti: Jamal Udin Torabi (Jamal), Enayatullah (Enayat), Imran Paracha (agente di viaggi), Hiddayatullah (fratello di Enayat), Jamau (padre di Enayat) Wakeel Khan (zio di Enayat), Abdul Ahmad (sposo), Allah Bauhsh (Farid), Mirwais Torabi (fratello maggiore di Jamal), Amanullah Torabi (fratello minore di Jamal); produzione: Bbc, Film Council, Revolution Films, The Film Consortium, The Works; distribuzione: Mikado; origine: Gran Bretagna, 2002; durata: 88’.

Trama:Jamal e Enayatullah sono due cugini pakistani che vivono a Peshawar, al confine con l’Afghanistan. La totale assenza di prospettive del campo profughi in cui sono accolti spinge la famiglia di Enayatullah a organizzare per lui un viaggio della speranza a Londra

Critica (1):(...) Con Cose di questo mondo (meglio il titolo originale In This World, meno paternalistico, meno Jacopetti Movie) c’è il rischio di accodarsi al vergognoso accanimento mediatico, viscido e famelico sia nei confronti degli aggressori che degli aggrediti, dei guerrafondai che dei pacifisti, è notevole. Proveremo ad evitarlo per non incorrere né nella cattiva coscienza della commozione e della pietà a buon mercato né nel cinismo piccolo borghese di un presunto realismo politico.
Non è criticamente molto proficuo utilizzare per Winterbottom la categoria di autore. Piuttosto discontinuo, come testimonia la diversificata accoglienza che i suoi film hanno avuto nel nostro Paese (dopo l’infatuazione per Butterfly Kiss, Jude e Go Now, gli entusiasmi paiono smorzati), il regista britannico sembra dare il meglio di sé quando le varie componenti dell’apparato produttivo funzionano al meglio. Non si tratta tanto di una disponibilità finanziaria illimitata quanto della sicurezza di poter contare su di un affiatato lavoro di équipe. Tipico esempio di questo approccio è quello delle produzioni televisive, specie anglosassoni. Non a caso Winterbottom ha iniziato proprio dal piccolo schermo dove sembra aver fornito anche le prove migliori. E Cose di questo mondo è stato, come detto, prodotto dalla televisione (Bbc) e realizzato con mezzi assolutamente “leggeri”, potendo così contare su decine di ore di girato.
Il professionismo di Winterbottom è fuori discussione. Non è semplice affrontare argomenti di questo tipo senza incappare in clamorosi fallimenti, ma la “scuola britannica” (basti confrontare la Bbc alla Rai) riesce ancora a fornire prodotti di qualità, politicamente corretti, ma non faziosi. Da questo punto di vista la coerenza del film viene meno solo in rare occasioni: ad esempio, nelle sequenze accompagnate da una colonna sonora “sbagliata” e gratuita, che enfatizza un’immagine già piena di suoni ed emozioni. Anche la voce fuori campo risulta talvolta troppo artificiale, ma la scelta era in parte obbligata in quanto l’aleatorietà della sceneggiatura e lo stile da reportage necessitavano di un inevitabile incoraggiamento didascalico per lo spettatore.
L’opzione per il mezzo ultraleggero digitale si rivela un vantaggio. Non solo per il senso di immediatezza, ma soprattutto perché la forma espressiva si coniuga con la scelta dell’improvvisazione e del reclutamento di attori non professionisti in una generale concezione del film come performance che la troupe stessa deve compiere. Si tratta appunto del viaggio: i cineasti compiono il medesimo cammino dei profughi. Così nella confusa sequenza notturna del passaggio della frontiera per approdare in Turchia l’assenza di illuminazione artificiale pone gli operatori, e la telecamera, sullo stesso piano dei fuggiaschi: al buio, in mezzo alla neve, senza una direzione, ma procedendo tentoni attirati da isolati bagliori e messi in fuga da spari e grida. La povertà dei mezzi, in sostanza, non si avverte, viene anzi giocata in “positivo”.
Altro esempio riuscito può essere individuato nell’angosciante odissea in container da Istanbul a Trieste durante la quale la maggioranza dei profughi, ad eccezione di Jamal e del neonato, perderanno la vita: ancora il buio che si mescola alle urla, alle inascoltate richieste di aiuto, ad un senso di insostenibile claustrofobia. Questo soffocamento è stato preparato nel corso film dalla progressiva “chiusura” dell’orizzonte e del cielo, dall’utilizzo di mezzi di trasporto sempre più opprimenti: i due protagonisti passano dal cassone posteriore, aperto, dei pick-up circondati dalla maestosità del deserto a luoghi sempre più angusti (pullman, camion) fino all’autentica camera della morte che li farà approdare in Europa. E Jamal per arrivare in Inghilterra dovrà passare nell’asettico tunnel della Manica: lo spaesamento e la deterritorializzazione sono totali.
L’efficacia e la suggestione del lavoro compiuto sul sonoro si evidenziano nella sequenza finale: la preghiera di Jamal per l’amico scomparso scorre ossessiva sul nero dei titoli di coda come un ammonimento che accompagna lo spettatore mentre abbandona la sala e ritorna alla tranquillità occidentale. La visita alla moschea offre pure una chiave interpretativa sul complesso del film: se nel corso del viaggio Enayatullah è il personaggio più legato alla tradizione, alla preghiera, nel finale Jamal, attraverso il ricordo dell’amico, riscopre un legame con le proprie origini. Una notazione questa (il ritorno alle radici per il consolidamento di un’identità che tende ad essere negata dal Paese in cui si è ospiti) che evidenzia la causa di molte situazioni a rischio dove l’immigrato è obbligato a schierarsi, per sopravvivere, su posizioni difensive, a volte reazionarie, che culturalmente non gli apparterrebbero (...)
Alberto Zanetti, Cineforum n. 425, 5/2003

Critica (2):

Critica (3):

Critica (4):
Michael Winterbottom
(Progetto editoriale a cura di); (Progetto editoriale a cura di) Redazione Internet; Redazione Internet (Contenuti a cura di); (Contenuti a cura di) Ufficio Cinema; Ufficio Cinema
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