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Freakbeat


Regia:Pastore Luca

Cast e credits:
Soggetto: Luca Pastore, Claudio Piersanti; sceneggiatura: Claudio Piersanti; contributo all'ideazione: Fabrizio Grosoli; fotografia: Luciano Federici; montaggio: Cristina Sardo; costumi: Francesca Piani; scenografia: Valerio Gnesini; suono: Diego Schiavo, Marco Parollo; storico del Beat e consulente musicale: Massimo Masini; archivio immagini repertorio: Cineteca di Bologna- L'Immagine Ritrovata; interpreti: Roberto "Freak" Antoni (Freak), Maurizio Vandelli (Maurizio), Sofia Fesani (Margherita), Marco Moser (Marco), Max Marmiroli (Max), Romano "VIII" Morandi (Romano "VIII"), Carlo Savigni (uomo sul treno), Ambra Borelli (proprietaria pellicceria); produttore: Roberto Ruini; produzione: Pulsemedia, in collaborazione con Legovideo; origine: Italia, 2011; durata: 77’.

Trama:Un road movie con il mitico fondatore degli Skiantos Roberto Freak Antoni, attraverso i luoghi storici del beat emiliano, sceneggiato da Claudio Piersanti e realizzato in collaborazione con Legovideo e con il contributo della Regione Emilia-Romagna, della Cineteca di Bologna e dei Comuni di Modena, Correggio e Rubiera (R.E.). Freak Antoni, intellettuale eclettico, punk sui generis e vero figlio del beat, è lavoce narrante questo viaggio di ricerca. Leggenda vuole che Jimi Hendrix registrò un mitico pezzo insieme all'Equipe 84. "Tu non crederai mica a quella stronzata lì", gli chiede qualcuno. C'è anche Margherita, la figlia di Freak Antoni, alla ricerca di questo Sacro Graal della musica. Insieme, sull'altrettanto mitico furgoncino della Volkswagen, cercheranno tracce e prove della reliquia musicale. Impossibile? Non è detto, ma intanto Luca Pastore, a proposito del film ha detto: “ Freakbeat non è un documentario e non è un film di finzione, è un esperimento: è il tentativo di raccontare in modo leggero e imprevedibile, quell'impalpabile follia anticonformista che, nata negli anni '60 sulle tracce della rivoluzione intellettuale della Beat Generation, continua ad essere alla base della non-omologazione di intere generazioni, che sono 'beat' anche senza saperlo. Freakbeat si muove assolutamente nell'oggi, senza nostalgie, ma con la consapevolezza che l'utopia e la fantasia sono ingredienti essenziali da contrapporre al funzionalismo arido che troppo spesso tenta di dominarci.

Critica (1):Presentato in concorso nella sezione Italiana.doc a Torino 29, Freakbeat di Luca Pastore sembra il frutto migliore di una stagione precisa del cinema documentario italiano, quella che negli ultimi anni tende ad allontanarsi in modo sempre più convinto dai canoni del genere. Anzi, il film di Luca Pastore dà l’idea di attraversare lo specchio e dunque di passare dall’altra parte, dal lato cioè del cinema di finzione. Un’apparenza che è dovuta alla stratificata complessità di Freakbeat di cui è protagonista Roberto Freak Antoni, intellettuale demenziale, voce storica del gruppo punk degli Skiantos (tuttora attivo) e già interprete di Beket (2008) di Davide Manuli. Con la sua personalità debordante e l’eloquio forbito quanto straniante, Antoni ha il compito di fare da cicerone, guidando lo spettatore tra meandri, effluvi e colori dell’epoca beat. La sua rievocazione è affettuosa e convinta, anche perché lui per primo è un figlio del beat, cresciuto nel modello musical-culturale angloamericano (dalla Beat generation in poi) e in quello del beat emiliano (dal primo Guccini all’Equipe 84).
Ma fin qui tutto sarebbe secondo la norma e, invece, l’eccentricità di Freakbeat viene dal modo in cui si racconta il tutto: Freak Antoni parte per un viaggio insieme a sua figlia (che in realtà è l’attrice Sofia Fesani) alla ricerca di una sorta di Sacro Graal, una leggendaria session musicale d’epoca tra l’Equipe 84 e Jimi Hendrix (chiaramente un falso). Il film allora diventa una sorta di road-movie tutto scritto e recitato con una regia che – quasi prendendo a modello Easy Rider (1968) – tende a giocare molto su stili e tecniche diverse: da un lato il resoconto del viaggio è mostrato in bianco e nero, dall’altro la falsa figlia di Antoni riprende tutto con una camerina a colori, infine in alcuni momenti appaiono chiazze di colore lisergico e improvvisi surplace visivi a mo’ di tableaux vivants (o di copertine di un album dell’epoca). Perciò più che un film sul beat, Freakbeat è un film beat, un documentario ribelle così come il mondo e il tempo passato che racconta.
radiocinema.it

Critica (2):Non è semplice dare una definizione del Beat, soprattutto se si vuole andare al di là della sua connotazione strettamente musicale. Cos’è il Beat o meglio il fenomeno Beat per te?
Al di là del fatto che 'beat' è un termine talmente ampio da riuscire ad includere Allen Ginsber, Gregory Corso e Caterina Caselli, per quanto mi riguarda non è altro che una delle etichette che ciclicamente si danno all'eterno sforzo che ogni generazione fa per ribellarsi alla precedente e per chiedere un mondo diverso e possibilmente migliore. In questo senso, pur essendo nella sua accezione più 'alta' un importante fenomeno culturale e in quella meno intellettuale un semplice fatto di costume, ha delle fortissime connotazioni generazionali, così come il punk (che non è stato assolutamente solo un fatto musicale od estetico). Beat è una forma di ribellione particolare, basata principalmente sulla fantasia e la condivisione, tanto quanto il punk era basato sul nichilismo e sull'isolazionismo. Per me si tratta di movimenti artistici in tutto e per tutto, importanti esattamente come il futurismo, il surrealismo o la pop-art, anche se la critica d'arte 'ufficiale' non si è quasi mai occupata di questi fenomeni, relegandoli appunto al costume o alla sociologia.

Come è nata l’idea di Freakbeat?
Prima di tutto mi è stato proposto di fare un documentario sul beat in Emilia, che è la culla del beat italiano. Inizialmente ho cercato di immaginare più un 'documentario-beat' che un documentario 'sul' beat. Alla fine il lavoro si è sviluppato verso un film che è difficile definire ancora 'documentario', e il cui soggetto non è neanche più il beat vero e proprio ma piuttosto l'anticonformismo e il bisogno di immaginazione e di non-omologazione che ogni generazione cerca di esprimere, il tutto raccontato con la massima leggerezza possibile, senza riflessioni socioantropologiche o storicismi. Alla fine abbiamo raccontato, insieme a Claudio Piersanti che ha sceneggiato il film, una piccola storia paradossale e 'fuori tempo', sullo sfondo di una realtà così arida e cinica come quella che ci tocca di vivere oggi. Il beat è diventato un sottotesto/sottofondo, un sogno/pretesto per raccontare di uno spaesamento, di un rifiuto di diventare 'adulti', di una incapacità di adattamento, di un tentativo di ritrovare frammenti di umanità, di un bisogno di sognare e ricordare. Abbiamo cercato di sfiorare questi temi attraverso un viaggio né eroico né denso di avvenimenti fondamentali, frammentario, a volte un po’ surreale, altre volte semplicemente normale.

Qual è l’eredità più grande che ci ha lasciato il Beat in Italia?
Il beat in Italia è stato sopratutto un fenomeno di costume, quasi totalmente privo della profondità culturale che ha avuto negli Stati Uniti, a parte pochissime eccezioni. Eppure nonostante ciò è stato dirompente, ha segnato forse per la prima volta una globalizzazione del concetto di 'cultura giovanile' che fino ad allora era sconosciuto nel nostro paese. L'Italia era un paese bigotto e clericale: il beat ha portato la liberazione sessuale, il femminismo, il pacifismo. Il beat italiano è forse, nel bene e nel male, il segnale più forte del passaggio da un'Italia arretrata e povera ad un paese più consapevole. Nel bene, perché questo fenomeno ha aperto la strada alle grandi trasformazioni culturali e politiche degli anni '70; nel male perché ha aperto la strada ad un consumismo di nuova generazione, non più limitato ai beni primari ma basato su bisogni nuovi, culturali, estetici, etc...

Quanto ha contato in Freakbeat il fatto che tu stesso sei un musicista? E come musicista anche tu devi qualcosa al Beat?
'Musicista' nel mio caso è una parola grossa... Io vengo dal punk, e la mia idea di musica si basa principalmente sul rumore puro, sull'aggressione sonora. Il punk deve ovviamente molto al beat, perlomeno sul piano del bisogno di sovvertire le regole. Intanto entrambi i movimenti avevano un'uniforme: i capelli lunghi nel beat e cortissimi nel punk; i vestiti colorati nel beat e il nero assoluto nel punk. L'apparente antitesi si spiega col fatto che i beatniks si sono ribellati ai loro genitori che vestivano di grigio e portavano i capelli corti, mentre i punks si sono ribellati ai loro genitori 'capelloni', e quindi si sono rapati i capelli... Anche musicalmente il punk è figlio del beat: ci sono molti gruppi dell'epoca beat che sono a tutti gli effetti protopunk, la non necessità di saper suonare 'bene' è un elemento che li avvicina. Gli stessi Beatles, ammesso che li si possa definire beat, hanno elementi di anarchismo sonoro assolutamente coraggiosi, specie sui lavori più sperimentali (White Album su tutti). Ma per il film il campo era ristretto al beat italiano, molto più 'educato'. Devo confessare che non avevo mai esplorato molto il beat italiano, ma devo dire che sono rimasto in qualche caso folgorato da alcune cose che ho sentito o che ho risentito con maggiore attenzione alla luce del lavoro che si stava facendo.

Perché hai scelto Freak Antoni come protagonista principale? E qual è stato il suo contributo durante la ricerca e la scelta dei materiali?
Freak, al di là di essere stato un punk sui generis ed un vero figlio del beat (sia musicalmente che culturalmente, visto che il suo stile come scrittore ha più di un punto di contatto con la Beat Generation), incarna perfettamente il concetto di non-conformismo e rappresenta un prototipo intelligente, ironico e molto personale, di 'ribelle'. È davvero un 'teppista soffice', come si autodefinisce. Inoltre ha un'età anagrafica perfetta per fare il 'padre infantile', il genitore contro il quale, per quanto ci si sforzi, è quasi impossibile ribellarsi. Era quindi il soggetto perfetto per interpretare il ruolo di un padre con pelliccia e occhialini psichedelici che trascina la sua figlia part-time nella ricerca di una session perduta fra l'Equipe84 e Jimi Hendrix: non credo che ci fossero molti altri personaggi con quel fisique du role... Il suo contributo, più che sulla scelta dei materiali (ce ne sono pochi nel film, ma scelti accuratamente), si è sviluppato sul piano direi 'filosofico', nel senso che la sua esperienza personale e la sua provenienza culturale gli consentivano di sviluppare in modo naturale i concetti e le parole-chiave sulle quali si basava il film.
(...)
In questo road movie attraverso i luoghi storici del beat emiliano e i vari protagonisti dell’epoca, qual è l’episodio / l’incontro che maggiormente ti ha emozionato?
Tutti i personaggi sono stati di una disponibilità e di una gentilezza assolute: spero che il film non li deluda troppo, visto che li abbiamo 'usati' al di fuori del contesto che forse si sarebbero aspettati. Comunque l'incontro più importante è stato senz'altro quello con Freak, che non conoscevo personalmente e che per molti motivi è diventato uno dei miei eroi.

Come definiresti il tuo film che usa un linguaggio al confine tra il documentario, il cinema di finzione e il videoclip musicale?
Odio le definizioni: so che molti lo definirebbero una 'docufiction', cosa che un po’ mi raccapriccia... È un film, e mi piacerebbe che tutti i film fossero definiti semplicemente 'film', al di là delle percentuali di finzione, documentario, videoarte, videoclip, etc. etc. che contengono: magari così ci si abituerebbe a vedere tutto senza filtri, e non sarebbe più così difficile andare al cinema e vedere opere diverse fra loro per forma, sostanza, linguaggi, generi...
(Intervista al regista Luca Pastore, cinemaitaliano.it)

Critica (3):

Critica (4):
(Progetto editoriale a cura di); (Progetto editoriale a cura di) Redazione Internet; Redazione Internet (Contenuti a cura di); (Contenuti a cura di) Ufficio Cinema; Ufficio Cinema
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