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Farewell (The) - Una bugia buona


Regia:Wang Lulu

Cast e credits:
Sceneggiatura: Lulu Wang; fotografia: Anna Franquesa Solano; musiche: Alex Weston; montaggio: Matt Friedman, Michael Taylor; suono: Gene Park; interpreti: Awkwafina (Billy), Tzi Ma, Zhao Shuzhen (Nonna Nai Nai), X Mayo, Hong Lu, Hong Lin; produzione: Big Beach Films, Depth Of Field, Kindred Spirit; distribuzione: Bim; origine: Usa-Cina, 2019; durata: 98'.

Trama:Billi, nata in Cina e cresciuta negli Stati Uniti, ritorna a malincuore a Changchun e scopre che all'amata nonna Nai-Nai restano poche settimane di vita. Ma l'unica a non saperlo è proprio la nonna. I familiari, per farla felice, decidono di riunirsi e tornare da vari angoli del mondo per improvvisare un matrimonio. Mentre Billi si muove su un campo minato di aspettative e consuetudini familiari, scopre che in realtà c'è davvero tanto da celebrare: la possibilità di riscoprire il Paese che ha lasciato da bambina, la sorprendente vitalità della nonna e la certezza dei legami profondi che, nonostante tutto, resistono.

Critica (1):A memoria, la quasi totalità dei film che hanno come tema la bugia hanno come luogo di svolgimento la famiglia, come se ci fosse una diretta proporzione tra la grandezza dell’affetto e la grandezza delle menzogne. Su questa proporzione, Lulu Wang fonda il suo secondo lungometraggio, The Farewell.
“Basato su una vera bugia” (raccontata dalla stessa Wang prima in forma letteraria e poi come script), come recita un cartello all’inizio, il film racconta di una famiglia cinese – in parte emigrata negli USA – che pur di non dire alla nonna che sta morendo di tumore inventano l’improbabile matrimonio del giovane nipote per avere la scusa di vederla tutti insieme, un’ultima volta.
Lo scheletro della commedia degli equivoci si copre di una sostanza che richiama la commedia indipendente, quella che aggiorna il cinema post-alleniano con tocchi estetici hipster (...).
The Farewell è un film che fonda il suo fascino proprio sul concetto di mescolanza, perché parte da radici cinesi che danno forma a un albero americano, in cui cova lo spaesamento dell’esiliato e quel senso di vuoto e di ricerca di un posto alla base di tutto il cinema a cavallo di mondi e paesi: Wang lavora con una certa finezza sulla cultura, il senso di appartenenza, gli scontri sociali e soprattutto intimi di chi ormai, come la sua protagonista, come lei stessa, sono stranieri ovunque.
L’idea vincente è tradurre queste contrapposizioni – narrative, culturali, estetiche, politiche – attraverso la grande metafora della bugia come motore familiare, che si autoalimenta fino a diventare incontrollabile.
È ancora più essenziale alla riuscita del film il ruolo di filtro che dà la protagonista, Awkwafina, donna americana di origini cinesi e sudcoreane che ha studiato il cinese per poi darsi al rap e diventare attrice: il modo in cui incarna i temi stessi del film nella sua sola biografia rendono efficace e molto espressivo il suo percorso di ragazza alla ricerca di sé.
Certo, non si può negare che nel crescendo di bugie e sentimenti, Wang si affidi a una certa ruffianeria per dosare le risate (esilarante il gioco a tavola durante il finto matrimonio) con le lacrime.
Ma basterebbe la zampata finale, prima dei titoli di coda, per ristabilire il senso del film: tutto è bugia, anche i sentimenti. Anche il cinema.
Emanuele Rauco, cinematografo.it

Critica (2):

Critica (3):

Critica (4):
(Progetto editoriale a cura di); (Progetto editoriale a cura di) Redazione Internet; Redazione Internet (Contenuti a cura di); (Contenuti a cura di) Ufficio Cinema; Ufficio Cinema
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