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Deserto rosso


Regia:Antonioni Michelangelo

Cast e credits:
Soggetto e sceneggiatura: Michelangelo Antonioni, Tonino Guerra; fotografia: Carlo Di Palma; montaggio: Eraldo Da Roma; scenografia: Piero Poletto; musica: Giovanni Fusco; musiche elettroniche: da composizioni di Vittorio Gelmetti; interpreti: Monica Vitti (Giuliana), Richard Harris (Corrado Zeller), Carlo Chionetti (Ugo), Xenia Valderi (Linda), Aldo Grotti (Max), Rita Renoir (Emilia), Valerio Baroleschi (il bambino); produzione: Film Duemila Cinematografica, Federiz (Roma) - Francoriz (Parigi); origine: Italia, 1964; durata: 116'.

Trama:Un incidente d'auto provoca in Giuliana uno choc che, aggravato dall'ambiente particolare in cui la professione del marito (ingegnere elettronico) la costringe a vivere, si tramuta in uno stato di continua nevrosi depressiva. Corrado, un amico del marito, si sente attratto verso la donna e tenta di aiutarla ad uscire dalla sua solitudine piena di incubi, intrecciando con lei una fuggevole ed amara relazione. Tale esperienza non fa che aggravare lo stato depressivo della donna che si vede inconsapevolmente ingannata anche dal suo figlioletto, il quale finge d'essere colpito da una grave malattia. Fallito il tentativo di porre fine violentemente alla propria esistenza senza scopo, Giuliana continuerà la sua vita in precario equilibrio tra rassegnazione e pazzia.

Critica (1):Una nevrosi è alla base del film di Antonioni. Il soggetto è ormai noto: Giuliana, la protagonista ha subito uno shock, e da allora l'angoscia la vince, l'insicurezza – totale, in certi istanti – e dall'altra parte una insoddisfazione perenne, una aspirazione quasi vorace a una impossibile comunicazione e comprensione col tutto, sono i due poli di riscontro delle sue crisi. Alle quali gli altri rispondono con altri sintomi di nevrosi: l'instabilità e l'irrequietezza di Corrado innanzitutto, e poi l'adattamento e l'indifferenza del marito; l'adattamento pauroso del bambino, per cui forse la lacerazione provocata dall'inserimento in un mondo industrializzato e dominato dalle macchine non c'è più ed egli è già un personaggio di fantascienza, del mondo di domani; le smanie erotiche del gruppo degli amici nella riunione nel capanno. L'insicurezza si manifesta ancora, sia pur diversamente, anche nel mondo della fabbrica, col personaggio dell'operaio che era in clinica con Giuliana, e con quello della moglie, per cui il rimedio è il morboso attaccamento alle abitudini, al paesaggio e all'ambiente familiare, alle quattro mura protettrici. Cosa c'è di nuovo in questo film che ci permetta di indicare in Antonioni una qualsiasi evoluzione? Si assiste alla proiezione del Deserto rosso - costruito peraltro con una coerenza stilistica ammirevole - continuamente colpiti da impressioni e ricordi di altri suoi film: l'inizio è Il grido, la riunione è Le amiche e L'avventura, le antenne che captano i rumori delle stelle corrispondono ai pali delle Olimpiadi nella scena notturna dell'Eclisse, e la nave che innalza la gialla bandiera del colera corrisponde all'intervento improvviso della morte col personaggio dell'ubriaco dello stesso film; ecc... I temi, d'altronde, sono più o meno gli stessi, anche se lo sfondo è cambiato. C'è semmai il ritorno a un arco narrativo che era del Grido, con il personaggio centrale del disadattato, dell'individuo in crisi, intorno alla cui vicenda il film viene pezzo a pezzo costruito. C'è anche l'aver scelto decisamente a protagonista un personaggio che è nettamente, decisamente patologico. E c'è naturalmente l'uso del colore, che è magistrale, essenziale al racconto in modo tale che ci è ormai impossibile pensare a un nuovo film di Antonioni che non sia a colori. Ma tutto questo non è sufficiente ad allontanare l'accusa di ripetersi e di non aggiungere nulla al già detto con la precedente trilogia. La formula incomprensibile sulla nave, il marinaio che parla una lingua sconosciuta e con cui Giuliana non riesce a intrattenere neppure un discorso di gesti, arrivano addirittura da Bergman e da sollecitazioni meno antonioniane. La scena d'amore, con la sua conclusione sull'inutilità dell'erotismo come soluzione alla crisi, non è nuova neanch'essa (ed è la meno riuscita del film, forse a causa della cattiva interpretazione della Vitti). Ma, dice il regista, in questo film si opera il passaggio da una trilogia basata sui rapporti tra gli individui, e si cerca di vedere invece con più precisione il contesto, il rapporto uomo-società, anzi più precisamente individuo-fabbrica, individuo-società industriale. La nevrosi è insomma legata all'ambiente, e questo legame indicato con più precisione che nei film precedenti. Dobbiamo riconoscere ad Antonioni di aver raggiunto queste ambizioni? Ci pare, in definitiva, di no. Riconosciamo e stimiamo il suo sforzo di uscire dall'impasse cui ormai l'Eclisse lo aveva portato, gli riconosciamo anche una intelligenza registica e delle illuminazioni poetiche che lasciano vedere come questo film difficile, scabroso, contorto e complesso, non segni affatto l'arrivo a un punto morto e alla sterile ripetizione di se stesso, ma ponga anzi le premesse per una ricerca ulteriore: Antonioni non si ferma, per fortuna, e dalla sua faticosa e sofferta disperazione è escluso il pericolo dell'aridità o del compiacimento cui è arrivato, ad esempio, l'ultimo Bergman. Senza dire poi che questa disperazione è laica e atea, e tale resta e ci è quindi vicina anche nel Deserto rosso.
Rinnovando fiducia ad Antonioni, non possiamo contemporaneamente non prendere atto delle limitazioni di questo film come delle svolte ambiziose e assai critiche su cui esso cerca di agganciarsi. Ci riferiamo in particolare a quella parte del suo discorso che riguarda direttamente la fabbrica e la società industriale. È illuminante in proposito l'intermezzo della favola, che nel momento della massima ansia Giuliana racconta a suo figlio, per ritrovare essa stessa un momento di quiete. Episodio narrativamente bellissimo, poiché apre il film a un livello diverso, ne allarga e solleva il discorso, e in esso, in questo rimpianto per una "età dell'oro" in cui era la natura e non la fabbrica a circondare l'uomo, e le rocce cantavano e il meraviglioso interveniva quotidianamente con pagana poesia nella vita umana, il discorso antonioniano si riallaccia a una delle illusioni più tipiche dei nostri intellettuali, al contrasto industria-natura che domina ad esempio in un romanzo come il Memoriale di Volponi, che viene fuori in molte altre scelte e in molte altre lotte. Non a caso Antonioni mostra - come è suo solito - due libri tra le mani dei protagonisti: e di essi uno è il banale breviario dell'intellettuale italiano avanzato, il Diario di uno scrutatore di Calvino. Nel finale poi, quando Giuliana si aggira col figlio apparentemente pacata tra gli altoforni e i serbatoi e le ciminiere della fabbrica questa illusione ritorna. Gli uccellini, dice Giuliana hanno imparato che il fumo della ciminiera è avvelenato e vuol dire morte, e sono fuggiti lontani. Ma dove, infine? È a questa domanda che Antonioni non può rispondere. La fabbrica e la società industriale sono realtà cui non si sfugge col sogno, o com'evasione dell'eroe di Jessua. Il regista non arriva o non sa arrivare oltre, e per questo il suo discorso resta limitato non nuovo, e tutte le illusioni che lo pervadono non sono risolte in una visione chiara - sia pure negativa e dubitativa - del rapporto dell'individuo con la società in cui agisce e vive. E forse quel che questo film può dare di più è proprio da cercare nel senso di questa impotenza - ancora - ad affrontare questo nucleo, per sceverarlo e districarlo. È il segno di uno stato di crisi e disorientamento e di una visione che è essa stessa critica e disorientata. [...]
Goffredo Fofi, Quaderni Piacentini n. 17-18

Critica (2):La vicenda di Deserto rosso, l'ultimo film di Michelangelo Antonioni ha il merito d'una semplicità lineare. Una donna, moglie d'un industriale di Ravenna, in seguito ad un incidente automobilistico, s'è ammalata di nervi. Dire che è nevrotica è dir poco; siamo quasi al limite della follia. La signora soffre soprattutto d'un sentimento continuo di paura. Tutto le incute spavento: la fabbrica del marito, la salute del figlio, la propria solitudine, i rapporti con la gente, la natura e le cose. Capita a Ravenna un giovane industriale alla ricerca di tecnici per impiantare una fabbrica in Argentina. Costui, che pare soffrire anche lui della stessa angoscia, fa un po' di corte alla donna la quale, in un momento di crisi (ha temuto che il figlio si fosse ammalato di paralisi infantile) gli cede. Ecco tutto.
A ben guardare è l'adulterio tradizionale (diciamo così) di tipo borghese. L'adulterio cioè consumato per inquietudine bovaristica. Questo non è nuovo in Antonioni il quale viene dalla borghesia e ne interpreta la crisi. Nuovo semmai è il ricorso esplicito alla nevrosi cioè ad una condizione morbosa che interessa più la medicina che la cultura, con la correzione però di proiettarne i sintomi su uno sfondo, appunto, culturale. Così Deserto rosso è la descrizione d'una nevrosi che, come avviene sovente oggi, s'innesta direttamente nella situazione storica dell'alienazione di origine capitalistica e industriale. Semplice malattia ai tempi di Charcot, la nevrosi, nel film di Antonioni, diventa facilmente condizione umana. Gli è che mentre la nevrosi è rimasta quella che era, la storia o quello che di solito si chiama storia, s'è mossa e l'ha investita d'un significato che un tempo non aveva.
Il paragone con certi film di Bergman potrebbe tuttavia illuminarci sopra il carattere specifico dell'operazione di Antonioni. Si vedrebbe allora che Antonioni è più moderno di Bergman nel senso di rappresentare e far parte d'una società nella quale il processo dissolutivo è più avanzato che in quello del regista svedese. Anche Bergman descrive una nevrosi: ma pur non cadendo in una caratterizzazione clinica di tipo positivistico e conservando le implicazioni culturali, mette una distanza oggettiva di specie naturalistica tra lui e il personaggio. In Deserto rosso, invece, Antonioni s'identifica con la protagonista. In realtà non è il personaggio di Antonioni ad avere paura bensì, sia pure con le attenuazioni e i filtri propri dell'arte, Antonioni stesso. Diremo con questo che Antonioni è nevrotico? Non lo diremo certamente, diremo piuttosto che non c'è in lui né la volontà né l'aspirazione a mettersi fuori della nevrosi, cioè a dare un nome alla crisi storica che purtuttavia egli indica chiaramente come la vera causa della malattia. Con ostinazione Antonioni si tiene dentro i limiti del suo personaggio: vuol farci credere che non ne sa un punto più della sua adultera borghese. In questo modo riesce è vero a sfuggire alla tentazione ideologica: ma rischia però di cadere nell'astrazione d'un continuo stupore di specie onirica.
Nel film di Antonioni ci sono due realtà, quella degli uomini e quella delle cose. Nelle cose è trasferita l'angoscia degli uomini i quali, forse per questo, risultano, rispetto alle cose, svuotati, casuali, descritti in aneddoti di scarsa incisività.
Nessun volto umano in Deserto rosso è così mistico e reale come i pezzi di muro, i tubi, le cartacce e gli altri innumerevoli oggetti sui quali l'obbiettivo di Antonioni indugia con una attenzione meditabonda, luicida, delirante. Gli è che Antonioni vede il mondo attraverso gli occhi della protagonista; e questa mentre ha rapporti nutriti con le cose, non ne ha nessuno con gli uomini. Antonioni non vuole sporcarsi le mani con la psicologia, questa fangosa facoltà soltanto umana; e così si dedica con passione alle cose. Senza dubbio Deserto rosso è il film italiano nel quale il colore è stato adoperato sinora con maggiore eleganza, capacità plastica, maestria: senza dubbio Antonioni non aveva mai fatto dire alle cose, ci si consenta il bisticcio, tante cose. Ma come nelle rappresentazioni della pittura informale e della decorazione musulmana, si direbbe talvolta che in Deserto rosso la figura umana sia di troppo. Tant’ è che le parti più belle sono quelle, come per esempio la sequenza della favola, in cui l'azione, già tenue, s'interrompe del tutto. Monica Vitti è, con bravura e intensità, la protagonista e bisogna riconoscere che la sua nevrosi è credibile e al tempo stesso non compromette la sincerità e violenza del breve rapporto d'amore. Accanto a lei Richard Harris, l’amante, una parte difficile, riesce ad essere molto efficace
Alberto Moravia, L'espresso, 1/11/1964

Critica (3):Nono film di Antonioni, e il suo primo a colori, in funzione soggettiva (fotografia di Carlo Di Palma) come espressione di una realtà dissociata e con ambizione di trasformarlo esso stesso in racconto come "mito della sostanziale e angosciosa bellezza autonoma delle cose". Come nei 3 precedenti film con Monica Vitti, la donna è l'antenna più sensibile di una nevrosi comune nel contesto della società dei consumi e della natura inquinata. Leone d'oro alla Mostra di Venezia.
Il Morandini – Dizionario dei film, Zanichelli

Critica (4):
(Progetto editoriale a cura di); (Progetto editoriale a cura di) Redazione Internet; Redazione Internet (Contenuti a cura di); (Contenuti a cura di) Ufficio Cinema; Ufficio Cinema
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