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Angoscia (L') - Angustia


Regia:Luna Bigas

Cast e credits:
Soggetto e sceneggiatura: Bigas Luna, fotografia: Josep Maria Civit; musica: J. M. Pagan; montaggio: Tom Sabin; scenografia: Felpe e Paco; costumi: Consol Tura; suono: Er est Blasi; effetti speciali: Paco Teres; interpreti: Zelda Rubinstein (Alice, la madre), Michael Lerner (John), Talia Paul (Patty), Angel José (l'assassino), Clara Pastor (Linda), Isabel Garcia Lorca (Caroline), Nat Baker (il professore), Edward Ledden (il dottore); produzione: Pepòn Coromina per Samba P.C./Luna Films; distribuzione: Penta Classic.; origine: Spagna 1987; durata: 89'

Trama:Un infermiere di una clinica oculistica uccide i clienti per impossessarsi dei loro occhi. Si tratta solo di un film, proiettato in un cinema dove un maniaco, di li a poco, incomincia a sparare sul pubblico. Due giovani spettatrici ne escono indenni, ma per ritrovarsi faccia a faccia col maniaco del primo film.

Critica (1):Dopo il successo di Almodóvar, i distributori stanno cercando di fare il bis con Bigas Luna, catalano in odore di scandalo. Ben venga, comunque il ripescaggio di questa Angustia di tre anni fa, che precede lariedizione diBilbao e l'uscita di L’ età di Lulu, prodotto da Rizzoli. Concepito per un mercato internazionale (esterni girati negli Usa, copia in lingua inglese), Angustia si pone all'interno degli orizzonti di un genere - l'horror - che rinuncia di sabotare o di manipolare alla maniera di un Almodóvar. Mentre quest'ultimo fa sempre il verso ai generi, e ne fa saltare i meccanismi per accumulo delirante degli stereotipi, Luna ne esplora il funzionamento dall'interno, con lucida coscienza narratologica. L'approccio di Almodóvar è tanto emotivo e barocco quanto quello di Luna è analitico e distaccato. Con tutto ciò, Angustia è fruibile come horror molto più immediatamente di quanto, poniamo, Matador lo sia come thriller. Luna non cerca particolari sofisticazioni formali e tiene certamente come modello quegli autori (Mario Bava, Jesus Franco, Hershell Gordon Lewis) che Almodóvar invece può solo citare come frammenti riprodotti materialmente all'interno del film. Mentre il look e l'imagèrie di Angustia sono un po' retrodatati e naif, con il maniaco che strappa gli occhi la madre opprimente, la costruzione narrativa si colloca in un filone di smontaggio del racconto che va da RobbeGrillet a Ruiz. Il racconto si svolge su due piani: la storia di John il maniaco è solo un film proiettatato in una sala dove, a sua volta, si aggira un altro maniaco che inizia a fare strage di spettatori. Tra i due maniaci (le due storie) vi è un rapporto speculare, non solo perchè entrambi hanno complessi edipici irrisolti e il secondo, quello "vero" spesso sembra rivolgersi al suo simile sullo schermo, ma anche perchè il secondo inizia ad agire proprio quando John entra in un cinema per mietere vittime. In Angustia quindi sono rappresentate due sale che si rispecchiano: ma nella sala del film di secondo grado (metadiegetico) viene proiettato a sua volta un vecchio film di fantascienza con un mostro - in senso metaforico - preistorico, che funge da terzo livello di rispecchiamento. Nei momenti conclusivi, infatti le immagini alternano o sovrappongono vertiginosamente tre sequenze di panico: quello degli spettatori nella sala "vera"; quello degli spettatori nella sala metadiegetica; quello degli abitanti della città minacciata da mostro in bianco e nero. La suspense si costruisce quindi secondo una logica di mise en abîme: da quando ci viene mostrata la sala in cui viene proiettato il film di John (e nessun indizio faceva presupporre che si trattasse di un racconto di secondo grado) ci aspettiamo che la finzione del film nel film trabocchi nella sala e coinvolga gli ignari spettatori, rappresentati secondo i più convenzionali stereotipi della vittima (si veda la coppia di ragazzine, con la dura che non si lascia impressionare e la pavida che per prima percepisce che, in sala, c'è qualcosa che non va). Come Demoni di Lamberto Bava, ma con maggiore coerenza, Angustia gioca sul rispecchiamento tra le sale della finzione e quella vera, in cui siamo seduti noi. Dapprima il coinvolgimento è bloccato: quando si scopre che la storia del maniaco era solo un film (nel film), si incomincia a guardare con distacco, a valutare come citazioni consapevoli quei segnali che rimandavano, con enfasi un po' sospetta, agli orizzonti di un genere: Particolarmente stranianti sono le sequenze in cui alle immagini del film metadiegetico si accompagnano i commenti off degli spettatori, questa volta tenuti fuori campo. Ma proprio su questa rappresentazione (e fenomenologia) di un pubblico fittizio si innesta il rispecchiamento dello spettatore vero, che ripiomba in una finzione forte (la storia del secondo maniaco), che perdipiù allude al suo statuto attuale. Anche l'insistenza sul tema dello sguardo, con gli ammiccamenti d'obbligo a Buttel, agisce in questo senso. Occhi strappati e operazione oculistiche sono simboli di un interdetto (edipico) della visione, la cui colpevolezza si vuole estendere anche allo spettatore, voyeur non più invulnerabile. Luna tiene ben distinti i due piani della finzione e due sono le infrazioni metalettiche: voglio dire che, di norma, la finzione del film secondo non trabocca nella storia - cornice, con le eccezioni che seguono. La prima è l'ossessiva sequenza dell'ipnosi (dal montaggio a raffica degno di un Jesus Franco), in cui al destinatario effettivo (ma fittizio) - John - se ne sostituisce un altro, (più) reale - il pubblico nella sala. L'ipnosi, inoltre, finisce col disturbare fisicamente anche il pubblico reale, noi. La rappresentazione rispetta ancora i canoni della verosimiglianza, anche se si può dedurre che sia stata quell'ipnosi metadiegetica a scatenare lo spettatore omicida. Più forte è la metalessi finale, quando John si rivolge dallo schermo alla ragazzina e sembra piantarle un bisturi nell'occhio. Con tipica indecisione tra sogno e realtà, il sangue che dapprima vediamo scompare una volta che la vittima è stata portata all'aperto. Che i personaggi di una finzione (di secondo grado) possano comunicare col mondo reale (cioè con la finzione di primo grado) è espediente vecchio come il cinema, né è necessario tirare in ballo i soliti Buster Keaton e Woody Allen. Luna si serve della metalessi da una parte per introdurre una dimensione fantastica, e virare così il thriller verso l'horror; dall'altra, per simbolizzare l'isotopia (greimasianamente: elemento semantico la cui ripetizione garantisce la coerenza del senso) che regge il film: quella della comunicazione silmultanea tra esseri separati nello spazio. Così come madre e figlio comunicano telepaticamente, anche il film metadiegetico sembra trasmettere pressanti messaggi al pubblico che gli sta di fronte. Luna si diverte a volgere al negativo l'utopia di Cocteau del Cinema come sogno collettivo. Certo è solo un gioco, ma, per la sua lucidità, lo preferisco a quello di horror che non distinguono più tra livelli di realtà e si limitano a mescolarli contradditoriamente (vedi Nightmare 5). È solo quando stiamo sognando di sognare (diciamo: di vedere un film) che siamo sul punto di svegliarci (cioè di ricadere in un altro film).
Alberto Pezzotta, Segno Cinema, n. 46 nov./dic. 90

Critica (2):

Critica (3):

Critica (4):
(Progetto editoriale a cura di); (Progetto editoriale a cura di) Redazione Internet; Redazione Internet (Contenuti a cura di); (Contenuti a cura di) Ufficio Cinema; Ufficio Cinema
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