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Dea del '67 (La) - Goddess of 1967 (The)


Regia:Law Clara

Cast e credits:
Sceneggiatura
: Clara Law Eddie L. C. Fong; fotografia: Dion Beebe; musiche: Jen Anderson Jen Anderson; scenografia: Nicholas McCallum; montaggio: Kate Williams; interpreti: Rose Byrne (BG), Nicholas Hope (Nonno), Rikiya Kurokawa (JM), Elise McCredie (Marie); produzione: Still Life pictures, Trix Films; distribuzione: Fandango; origine: Australia, 2000; durata :118'

Trama:JM è un giapponese che sbarca in Australia per realizzare il suo sogno: acquistare una Citroën DS del '67 (DS si pronuncia in francese come déesse, dea) color salmone. Incontra GB una giovane australiana cieca che pare avere un torbido passato che gli fa da guida in un road movie attraverso i paesaggi lunari e desertici del New South Wales.

Critica (1):La Citroën DS 19, che in francese si pronunciava Déesse e cioè la Dea, apparsa nel 1955, fu l’auto dalla tecnologia avveniristica, una sorta di astronave a quattro ruote, che accompagnò sulle strade francesi e europee gli anni del mito dello spazio, quando il design aerodinamico veniva utilizzato anche per i portacenere e i ferri da stiro. Ma come mai, si chiede un informato articolo del quotidiano del festival Biennale News, essa fu così poco utilizzata dal cinema? La risposta potrebbe essere che la DS, così apparentemente futurista, era in realtà un’auto tutt’altro che scattante e veloce: le sue sospensioni “idropneumatiche” la obbligavano a una interminabile attesa prima di partire e la sua ripresa lasciava molto a desiderare. Quasi inutilizzabile nei film d’azione (in Diabolik di Mario Bava era surclassata dalla assai più cinematografica Jaguar) fu in realtà soprattutto, produttivamente e culturalmente, un’auto di stato e di regime, buona per le parate del generale De Gaulle, che la sua carrozzeria salvò anche dalle pallottole di un attentatore. Ma la Deésse può diventare, oggi, un’auto da road movie, lento, divagante e un po’ fuori dal tempo, come quella, dall’incredibile color salmone, che appare nel film di Clara Law intitolato appunto The Goddess of 1967. Un pretesto, comunque, anche se per acquistarla, per la bella cifra di 35.000 dollari, un giovane giapponese un po’ maniaco (ha in casa un intero zoo di serpenti e altri rettili che nutre con topi surgelati) parte apposta da Tokyo e raggiunge l’Australia, dove qualcuno ne ha conservato un esemplare in perfetto stato che sembra appena uscito dalla fabbrica. Ma è solo l’inizio di una serie di incontri con personaggi ai limiti della credibilità, di episodi sconcertanti, di flashback sfuggenti: se il road movie è quasi per definizione un contenitore di storie e frammenti che si incontrano casualmente in un percorso senza meta, The Goddess of 1967, fatto di scarti improvvisi, di eventi che restano in sospeso, di figure grottesche ed estreme, non sembra neanche “un” film ma una serie di esercizi di messa in scena, come se la regista si ponesse deliberatamente degli ostacoli, inventando delle situazioni narrative “impossibili”, per vedere come riesce a superarli. In ogni caso non c’è dubbio che quello che più le interessa nel lavoro del film è la sua qualità visiva e sonora: immagini e colori contrastati e metallici, inquadrature asimmetriche, suoni ed echi amplificati, musiche ambiental-minimaliste, recitazione straniata. E che il racconto, e il film, vadano dove vogliono. Ma fra un giapponese amante dei lucertoloni, un pugile ambulante, una ragazza cieca che per proteggersi gira con una pistola e una mutanda a lucchetto, un nonno pedofilo transgenerazionale (molesta la nipote come già aveva fatto con la figlia) che ora vive in fondo a una miniera come un Orco, il personaggio-sintesi è proprio lei, la Dea assurda e inverosimile, avanguardista e metafisica, eppure esistita ed esistente.
Alberto Farassino, La Repubblica, 3/12/2000

Critica (2):Alla Law, al suo ottavo lungometraggio, già in concorso a Venezia nel 1993 con Temptation of a Monk, australiana di adozione, da qualche anno, ma culturalmente apolide, il merito di un film paradossale e ambiguo, difficile da incasellare in un “genere”; il perno, su cui ruota lo script è la mitica Citroën modello DS (Déesse, appunto, in francese, dunque, “divina”), macchina fascinosa e resistente, che gli appassionati di automobilismo dovrebbero conoscere; (da profano, so solamente che nasce nel 1955, design di Bertoni e che fu protagonista involontaria in un fallito attentato al presidente francese Charles De Gaulle).
JM (Rikiya Kurokawa), un giovane giapponese solitario, amante dei serpenti, è un tale adorante di un modello DS del 1967, da mettersi in contatto con un venditore australiano, che accettando la transazione ed il prezzo, lo spinge verso uno strano viaggio in Australia. Ma al suo arrivo scopre che il venditore è morto, il “possesso” della Ds sembra sfumato, ma una strana ragazza cieca, BG, lo informa che il vero proprietario dell’Automobile che JM vorrebbe acquistare è suo nonno, Grandpa (Nicholas Hope, noto per Bad Boy Bubby di Rolf de Heer, presentato a Venezia, qualche anno fa). Insieme, per andare da Granpa, JM e BG intraprendono un viaggio nel deserto australiano, attraversando città minerarie abbandonate, tra silenzi, piccole confessioni di BG sul suo rapporto, intessuto di misticismo, con la madre, Marie (Elise McCredie, attrice e regista di Strani attacchi di passione, uscito di recente), flashback improvvisi. Inevitabilmente tra i due iniziano malcelati riti di seduzione, in un gioco speculare intrigante, ma al contempo “sterile”: entrambi, pur giovanissimi, sono ammalati di ricordi: dal passato, non c’è salvezza.
Vincenzo Mazzaccaro, Cinema Zip

Critica (3):

Critica (4):
Clara Law
(Progetto editoriale a cura di); (Progetto editoriale a cura di) Redazione Internet; Redazione Internet (Contenuti a cura di); (Contenuti a cura di) Ufficio Cinema; Ufficio Cinema
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