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Femmina folle - Leave Her to Heaven


Regia:Stahl John M.

Cast e credits:
Soggetto: dal romanzo"Leave Her to Heaven" di Ben Ames Williams; sceneggiatura: Jo Swerling; fotografia: Leon Shamroy; musiche: Alfred Newman; montaggio: James B. Clark; scenografia: Maurice Ransford, Lyle Wheeler; arredamento: Ernest Lansing, Thomas Little; costumi: Kay Nelson; effetti: Fred Sersen, Edward Snyder, Sol Halperin, Edwin Hammeras; suono: Thomas T. Moulton; interpreti: Gene Tierney (Ellen Berent), Cornel Wilde (Richard Harland), Jeanne Crain (Ruth Berent), Vincent Price (Russell Quinton), Mary Philips (Sig.ra Berent), Ray Collins (Glen Robie), Gene Lockhart (Dott. Saunders), Reed Hadley (Dott. Mason), Darryl Hickman (Danny Harland), Chill Wills (Leick Thome), Grant Mitchell (Carlson), Olive Blakeney (Sig.ra Louise Robie); produzione: 20th Century Fox; distribuzione: Lab 80 Film; origine: Usa, 1945; durata: 110'.

Trama:Richard Harland, un giovane scrittore, incontra su un treno una bella donna, Ellen. I due s'innamorano e si sposano. Ma col tempo Richard si rende conto che la sua vita sentimentale è diventata un inferno a causa della gelosia...

Critica (1):Ecco qui uno dei più straordinari film della storia del cinema, non di quella classica, ma di quella ancora tutta da scoprire. In pieni anni Quaranta, nel momento cruciale del film noir, Stahl realizza questo capolavoro che rovescia tutti i punti di riferimento possibili. Il triangolo crimine-amore-morte esce fuori dai binari consolidati del genere: squarcia il bianco e nero con un Technicolor da Oscar (di Leon Shamroy) che traspone i conflitti interiori in soluzioni cromatiche estreme; scaccia il noir dall’ambiente urbano per rigettarlo in uno splendido paesaggio di montagna, fuori dai labirinti infernali della metropoli e immerso fino in fondo dentro la natura (forse per esasperare le caratteristiche “innaturali” della protagonista).
Pienamente dentro la criminalizzazione della donna di quegli anni, la dark lady di Femmina folle va oltre le coordinate delle sue “colleghe” con la pistola. Non punta alla morte dell’uomo, al suo denaro, al suo potere. L’ossessione di Ellen Berent è quella del controllo, del dominio dei (sui) sentimenti. Che la spingerà a uccidere (il fratello del marito), a lanciarsi dalle scale (per abortire il figlio che ha in grembo), e infine a suicidarsi per far incriminare la sorellastra Ruth di omicidio.
Ma in questa “mostruosizzazione” della donna, oltre alle paure del maschio del dopoguerra, si intravedono, per contrasto, alcune delle linee in cui l’emancipazione femminile nei decenni successivi cercherà di “liberarsi” dal dominio maschile: rifiuto del conformismo, del ruolo di moglie e di madre, della dedizione alla casa e alla famiglia.
E il mélo, in questo splendido Leave Her to Heaven (lasciala andare in Paradiso…) si trasformò in un gelido noir, anche e soprattutto attraverso il volto gelido, etereo e bellissimo di Gene Tierney, vera “aliena” del cinema americano del dopoguerra.
Federico Chiacchiari in Squarci di cinema, Cineforum n. 364, maggio 1997

Critica (2):Un po’ Attrazione fatale un po’ Obsession nella cornice di un debordante mélo hollywoodiano anni Quaranta che eccede, estremizzandole, tutte le convenzioni del genere. La storia d’amore e gelosia tra lo scrittore Richard Hartland (Cornel Wilde) ed Ellen (Gene Tierney ), ammaliante sconosciuta incontrata su un treno all’inizio del film, si rivela infatti – oltre la superficie sgargiante di un technicolor e una fotografia (Leon Shamroy) da Oscar – un sapiente lavoro sui caratteri, rimossi e sconfinamenti del melodramma classico in area noir.
Quasi subito a far calare un’ombra sul romanticismo della coppia alto-borghese è una sorta di peccato originale, Edipo irrisolto o incesto vero e proprio che ha condotto in passato ad un evento indicibile, forse il suicidio del padre. Ed è proprio sul motivo dell’ossessione edipica che si dichiara, sin dall’intenso reaction shot del primo incontro, l’ambiguità della protagonista come, di lì a poco, nella perturbante cavalcata disseminando le ceneri paterne: anticipazione da manuale dell’elemento per eccellenza melodrammatico della morte e indizio principale che prefigura il colpo di scena dell’ultimo atto, quando il mélo vira verso il legal thriller. È lì che troveremo l’ apoteosi e rovesciamento di un altro topos del genere, quello del sacrificio: è la scena del suicidio di Ellen, massimo esempio di quella rinuncia a sé per amore che ricorre in tanti cult del genere (da È nata una stella a La figlia del vento) e che qui fallisce volutamente sia come strumento di redenzione e riconciliazione finale (tra marito e moglie ma anche tra pubblico ed Ellen che si rivela per un attimo anche vittima di se stessa), sia come momento di scioglimento della storia (lui è ormai libero di trovare conforto nella cognata) per palesarsi come ennesimo colpo di teatro di una mente malata. È nella sua stessa morte infatti che Ellen mostra il volto più ferocemente calcolatore, mettendo a punto l’ultima trappola per sabotare l’altro aprendo alla fase del processo. È il punto più alto di un dramma atteso sin dall’inizio attraverso l’espediente classico della narrazione in flashback. Ed emblematizzato per mezzo dell’altrettanto classica dialettica alto/basso che si palesa durante l’affondare del fratellino disabile nel lago o la caduta abortiva di Ellen dalla grande scala domestica (come nel 1939 quella più celebre di Vivian Leigh in Via col Vento ma con l’intenzionalità criminale, assente in Rossella, che ritroveremo in Jessica Lange madre morbosa, quando “suicida” il marito dalla scala di Obsession) .
In questo lavoro meta-cinematografico al rovesciamento di tutte le marche del genere spinte all’eccesso, anche lo sfavillante technicolor diventa sospetto: patina ipocrita di normalità della società borghese (e dell’american dream) col suo mito (criminale) per eccellenza, quello della donna ideale esclusivamente dedita al marito e perno della famiglia. Un trucco cromatico manifesto dietro cui si nascondono (e quindi denunciano) colori psicologici ben diversi a partire dall’anima nera di una donna di bellezza altrettanto ingannevole – un po’ shapeshifter (da partner fatale archetipica) un po’ personaggio ombra senza (più) sfumature. Proprio negli anni post-bellici, d’altronde, diventa sempre più marcata la trasformazione cinematografica del femminino da eroina passiva del primo melodramma a protagonista forte e determinata sul modello di Rossella (qui ribaltato, ancora una volta per eccesso, in quello di dark lady). Ad “aggravarla” a posteriori alcune affinità tra il personaggio di Ellen e la vita reale della sua interprete che per quel ruolo sfiora l’Oscar, soffiatole da Joan Crawford con Il romanzo di Mildred: la nascita di una figlia disabile e l’abbandono del marito incrineranno difatti la salute psichica della diva costringendola al ricovero in clinica, all’ammissione di cleptomania e quindi al tramonto della sua stella promessa nel giardino di Hollywood. A sostenerla – nei panni di Ellen – l’avvocato Russel, il Vincent Price di futura burtiana venerazione (Vincent ed Edward mani di forbice). Scelta perfetta per incarnare l’anima più razionale (e forse l’ alter ego del regista) di un melodramma che sembra esasperarsi apposta per mostrare/processare, dalla retorica di coppia all’incesto, i tabù impliciti del genere.
Elisabetta Viti, sentieriselvaggi.it, 8/6/2016

Critica (3):

Critica (4):
(Progetto editoriale a cura di); (Progetto editoriale a cura di) Redazione Internet; Redazione Internet (Contenuti a cura di); (Contenuti a cura di) Ufficio Cinema; Ufficio Cinema
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