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Hai paura del buio


Regia:Coppola Massimo

Cast e credits:
Soggetto e sceneggiatura: Massimo Coppola; fotografia: Daria D'Antonio; montaggio: Cristiano Travaglioli; scenografia: Paolo Bonfini; costumi: Roberta Nicodemo; interpreti: Alexandra Pirici (Eva), Erica Fontana (Anna), Antonella Attili (madre di Anna), Alfio Sorbello (Bruno), Manrico Gammarota (padre di Anna), Lia Bugnar (Katia), Andra Bolea (amica di Katia), Marcello Mazzarella (Mirko), Angela Goodwin (nonna di Anna); produzione: Francesca Cima e Nicola Giuliano per Indigo Film; distribuzione: Bim; origine: Italia, 2010; durata: 90’.

Trama:Eva ha vent'anni ed abita a Bucarest. Esce dalla fabbrica per l'ultima volta – non le hanno rinnovato il contratto – e decide che è giunto il tempo di partire. La sua meta è Melfi, sperduto paese dell'entroterra meridionale italiano, noto per l'enorme insediamento della FIAT che. Trovata ospitalità da Anna, una sua coetanea che lavora alla FIAT, Eva inizia a seguire un gruppetto di donne, poi tra queste ne sceglie due, infine una sola. Eva diviene la sua ombra, ne spia ogni movimento, ne conosce alla perfezione abitudini e occupazioni. Eva è arrivata in Italia per fare i conti con il suo passato. Anna, invece, a causa delle vicende della fabbrica deciderà di affrontare un nuovo futuro...

Critica (1):Bucarest è una metropoli molto diversa da come la si immagina, così come Eva, vent’anni, dolce e orgogliosa come un’eroina della nouvelle vague, è molto diversa dall’idea che abbiamo delle “immigrate” rumene.
Eva esce dalla fabbrica per l’ultima volta – non le hanno rinnovato il contratto – e decide che è giunto il tempo di partire. La sua meta è Melfi, sperduto paese dell’entroterra meridionale italiano, noto per l’enorme insediamento della FIAT che, come uno spazio ritagliato da un altro tempo e un altro mondo, seziona i campi neri, definendo con essi una cicatrice aperta tra la civiltà contadina e quella postindustriale.
Trovata ospitalità da Anna, una sua coetanea che lavora alla FIAT, Eva inizia a seguire un gruppetto di donne, poi tra queste ne sceglie due, infine una sola e diviene la sua ombra, ne spia ogni movimento, ne conosce alla perfezione abitudini e occupazioni. Eva è arrivata in Italia per fare i conti con il suo passato. Anna, invece, a causa delle vicende della fabbrica deciderà di affrontare un nuovo futuro...

Il confronto con l’altro è diventato, fortunatamente, una costante per il nostro cinema. Quanto, però, è importante raccontare ‘gli altri’ in questo momento storico del nostro paese?
Mi piacerebbe vivere in una società in cui non si debba fare film sugli operai o sugli immigrati per parlare dei cosiddetti ‘altri’. In realtà io considero gli altri come qualcuno di noi, non come qualcuno diverso da noi per motivazioni estrinseche di religione, nascita, stato sociale e colore della pelle. Hai paura del buio racconta gli scontri e gli incontri tra sensibilità differenti e punti di contatto.
Come ha scelto le protagoniste?
In Romania ho fatto un casting molto classico dove ho incontrato un numero impressionante di attrici bravissime. In Italia, invece, ho scelto una ragazza in Lucania che non è una professionista.
E’ un film incentrato anche sull’elemento femminile?
Le donne le conosco meno degli uomini, anche se le amo di più. Un amico lo conosci, una donna, invece, non arriverai mai a conoscerla davvero. Mi piace la profondità e il mistero della femminilità. A questo, poi, bisogna aggiungere l’interessantissima quanto peculiare attitudine delle donne dell’Est Europa: il loro essere libera dall’orrenda tradizione cattolica che permea tutti noi e la loro straordinaria joie de vivre determinata dall’essere in un luogo che, come l’Italia e la Francia degli anni Cinquanta, ha appena visto finire il dramma collettivo che ha tenuto prigioniera la loro società. Per questo vivono una sorta di Nouvelle vague…
Marco Spagnoli, intervista al regista, primissima.it

La prima immagine del film è un totale all’interno di una fabbrica. Operai, macchinari, tute blu. Quasi un riallacciare istantaneamente il filo di un discorso che il cinema italiano non ha mai chiuso, quello che chiamavano “impegno civile”, quello che “poteva cambiare le cose”. Il cinema che diventa speaker del disagio che attanaglia la pancia di una società. Ma poi si capisce che la fabbrica è situata in Romania, a Bucarest, nella periferia dell’Europa e del cinema. E quindi immigrazione, storie di marginalità, rivendicazione di una povertà cronica che vuole trovare sbocco e speranza in occidente. Nell’Italia di oggi. Massimo Coppola è fin troppo consapevole di inscriversi in territori ultrabattuti dal nostro cinema, ed ha l’intelligenza di utilizzare tutta questa sovrastruttura preesistente come una sorta di acquario dove far nuotare due esistenze “attualissime”. L’immigrata rumena Eva e la precaria operaia Anna sono come due facce di uno stesso disagio, percorsi diversi che si incontrano per specchiarsi e riconoscersi, vite speculari che inabissano ogni differenza (di nazionalità, di condizione economica, sociale, persino sentimentale). È proprio in questo naturale scoprirsi “uguali” che il film di Coppola riesce a trovare una sua valenza universale ed originale. Il dolore e i dubbi profondi di queste due ragazze sono solo in apparenza legati al denaro o alla questione lavoro (bellissima la frase di Eva rivolta alla madre che l’aveva abbandonata da bambina: “quanto dolore hai comprato con questi soldi?”) allargandosi all’intera condizione del vivere immersi nel nostro presente, che ha solo come punta dell’iceberg il problema lavorativo. E allora la ricerca spasmodica diventa quella di una identità, sfuggire dall’etichetta preconfezionata di rumena o operaia per iniziare ad assecondare ciò che si è veramente (Anna, la bravissima esordiente Erica Fontana, che si rifugia in un’università).
Il film di Coppola procede per sottrazione, ricordando a tratti lo stile dei fratelli Dardenne e intavolando una costruzione visiva secchissima nella sua aderenza carnale ai corpi delle due giovani protagoniste. Una scelta stilistica molto ambiziosa che a volte cede sotto il peso di se stessa e asciuga un po’ troppo l’impatto emozionale. Ma l’importanza di questo film va ricercata nella riscoperta dei volti, in quella sincera voglia di tornare a inquadrare i sentimenti nel loro nascere e crescere, per tentare faticosamente di superare la paura di ogni buio.
sentieriselvaggi.it

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