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Luci del varietà - Luci del varietà

Regia:Lattuada Alberto
Cast e credits:
Collaborazione alla regia: Federico Fellini; soggetto: Federico Fellini; sceneggiatura: Tullio Pinelli, Federico Fellini, Alberto Lattuada; collaborazione alla sceneggiatura: Ennio Flaiano; fotografia: Otello Martelli; scenografia e costumi: Aldo Buzzi, montaggio: Mario Bonotti; musica: Felice Lattuada (canzoni di Roman Vatro e Mario De Angelis); interpreti: Peppino De Filippo (Checco Dalmonte); Carla Del Poggio (Liliana "Lilly" Antonelli), Giulietta Masina (Melina Amor), Carlo Romano (avvocato Enzo La Rosa), Follo rulli (Adelmo Conti), Dante Maggio (il cantante napoletano), Chello Durante (l'impresario), Franca Valeri (la coreografa ungherese), Silvio Bagolini (Bruno Antonini), Giulio Cali (il mago Edison Will), Gina Mascetti (Valeria Del Sole), John Kitzmiller (il trombettista John), Carlo Bianco (il pianista russo), Italo Dragosei (la guardia notturna), Alberto Lattuada (il buttafuori), Giacomo Furia (un giornalista), Joseph Falletta (il pistolero Bill), Alberto Bonucci, Vittorio Caprioli (i comici dei nightclub), Fanny Marchiò (la soubrette), Mario
De Angelis (il pianista dell'orchestrina), Renato Malavasi (l'albergatore), Vanja Orico (la chitarrista), Enrico Piergentili (il padre di Melina), Marco Tulli (un impresario), Tanio Boccia (l`uomo d'oro); produzione: Mario Ingrami per la Film Capitolium (Roma), distribuzione: C.Nazionale; durata: 100'; anno: 1951.
Critica (1):Lattuada tenta, assieme a Fellini, una iniziativa tanto atipica quanto rischiosa; la compartecipazione alle spese di produzione per il film Luci del varietà (1951). I finanziamenti - dopo il rifiuto di Carlo Ponti, che inizia a girare contemporaneamente Vita da cani sullo stesso argomento - vengono da tre parti: il Credito Cinematografico della Banca Nazionale del Lavoro, la casa produttrice Capitolium-Film (nella persona di Mario Ingrami) e Lattuada stesso. Parte della troupe viene pagata da Lattuada insieme a Carla Del Poggio (protagonista) e Fellini (co-regista), mentre gratuitamente lavorano anche Giulietta Masina (come attrice), il padre di Lattuada, Felice (per la musica) e la sorella Bianca (per l'organizzazione), realizzando così un singolare esempio di produzione cooperativistica. Per la distribuzione Lattuada si appoggia alla Fincine, che sottoscrive il contratto fornendo la quota del "minimo garantito". Iniziano così le riprese, dopo un lavoro di sceneggiatura compiuto sulla base dei ricordi personali di Fellini (era stato varie volte in tournèe con la compagnia di varietà di Aldo Fabrizi) e degli appunti presi da Lattuada assistendo ai numeri del varietà romano di Altieri. La storia di Dalmonte è quella di un individuo sempre uguale a se stesso: nella prima sequenza, in treno adocchia Liliana e la convince a entrate nella compagnia; alla fine svanito il sogno d'amore e di successo rivolge nello scompartimento la parola a un'altra bella ragazza: "E' attrice lei? No! Eppure sarebbe il tipo...". La storia ricomincia uguale a se stessa, rivelando i meccanismi di funzionamento di un modello di spettacolo in cui all'immobilità di un ruolo (il capocomico) corrisponde l'intercambiabilità di altri (la soubrette). L'avanspettacolo di Luci del varietà riproduce a un livello più "basso" il sistema di leggi che governa l'universo teatrale descritto, nello stesso anno, dal film di Mankiewicz Eva contro Eva, dove il passaggio delle consegne dalla vecchia attrice (Bette Davis) alla nuova diva (Anne Baxter) e poi alla "starlet" (Marilyn Monroe) configura un universo retto da regole rigide: la precarietà di alcuni ruoli (le attrici) e la stabilità di altri (il giornalista) non modifica il tipo di teatro che si fa, anzi ne garantisce la sopravvivenza. Non diversamente, anche se in ambiente differentemente caratterizzati e geograficamente circoscritto, le leggi dell'avanspettacolo assorbono, utilizzano e rigettano gli artisti secondo le esigenze del momento: è la sorte che toccherà presumibilmente a Liliana in un ipotetico (ma prevedibile) seguito del film, dopo aver goduto dell'interessamento dell'impresario Adelmo Conti (Folco Lulli, in una parte simile a quella di George Sanders nel film di Mankiewicz). Dalmonte resta invece al suo posto, dopo aver appena sfiorato il mondo del varietà della metropoli ed esserne stato estromesso. La fine della storia segna la sconfitta del tentativo di acquisire un nuovo ruolo (cioè diventare un impresario importante) e il ritorno alla condizione iniziale, ma conferma anche la pervicace volontà di proseguire il gioco. Dalmonte continuerà a cercare la sua attrice in ogni bella ragazza e prolungherà l'autocompiacimento fregiandosi degli appellativi di "grande fantasista", "fucinatore d'ilarità", "paralizzatore delle platee".
Intorno a lui, e come lui, i componenti della compagnia perpetuano nella vita di ogni giorno il comportamento spettacolare: nella cena a casa dell'avvocato (Carlo Romano) l'euforia collettiva per un momento altro dallo spettacolo copre la realtà di una serie di atti speculari a quelli della finzione: il fachiro addenta la carne allo stesso modo con cui sgranocchia la lampadina sul palcoscenico, Liliana balla nella cucina con una treccia d'aglio a mò di collana, il napoletano imbraccia la chitarra e esegue un numero del suo mesto repertorio. Questo mondo piccolo e ristretto, ripiegato su se stesso, tanto limitato nelle ambizioni (Melina vuole mettere da parte i soldi per aprire una salumeria) quanto sfrenato nell'immaginazione (la messa in scena del balletto hawaiano, dei grattacieli americani, dell'India misteriosa) è rappresentato criticamente disseminando il racconto di veloci notazioni che colmano i vuoti di una struttura narrativa estremamente duttile e diversificata a seconda della situazione da presentare. "Tutta l'Italia artistica si accorgerà dei nostri successi, tutta l'Italia artistica!". Il patetico grido di Dalmonte resterà senza risposta e assumerà il senso di una profezia amara e ironica: gli antieroi di Lattuada e Fellini, apprezzati dalla critica, risulteranno sgraditi al pubblico, anche in virtù del fallimento della casa distributrice proprio al momento del decollo del film. Lattuada pagherà i debiti per alcuni anni, preoccupandosi anche di salvare il negativo del film che altrimenti sarebbe andato perduto.
Claudio Camerini, Alberto Lattuada, Il castoro cinema 1981
Critica (2):
Critica (3):
Critica (4):
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