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Uomini di Dio - Des hommes et des dieux


Regia:Beauvois Xavier

Cast e credits:
Sceneggiatura: Etienne Comar, Xavier Beauvois; fotografia: Caroline Champetier; montaggio: Marie-Julie Maille; scenografia: Michel Barthélémy; costumi: Marielle Robaut; interpreti: Lambert Wilson (Christian), Michael Lonsdale (Luc), Olivier Rabourdin (Christophe), Philippe Laudenbach (Célestin), Jacques Herlin (Amédée), Loïc Pichon (Jean-Pierre), Xavier Maly (Michel), Jean-Marie Frin (Paul), Abdelhafid Metalsi (Nouredine), Sabrina Ouazani (Rabbia), Abdallah Moundy (Omar), Olivier Perrin (Bruno), Farid Larbi (Ali Fayattia); produzione: Why Not Productions-Armada Films-France 3 Cinéma; distribuzione: Lucky Red; origine: Francia, 2010; durata: 120’.

Trama:Un monastero in mezzo ai monti del Maghreb, anni '90. Otto monaci cistercensi francesi vivono serenamente in mezzo alla popolazione musulmana di un vicino villaggio, aiutando le persone con la medicina e dando loro ciò che manca e di cui hanno bisogno. Tuttavia, il massacro di un gruppo di operai stranieri porta scompiglio e panico tra gli abitanti del villaggio. Le autorità locali cercano di dare ai monaci una protezione, ma costoro rifiutano la proposta e poco tempo dopo ricevono la visita di un gruppo integralista, capeggiato da Ali Fayattia, che rivendica di essere l'autore del massacro. Da quel momento la vita dei monaci non sarà più la stessa e il frate priore del convento, padre Christian, ben presto sarà costretto a riunire i suoi confratelli per prendere una determinata presa di posizione...

Critica (1):Des hommes et des dieux mette in scena un episodio reale, avvenuto nel 1996 durante la guerra civile algerina. L’azione si svolge quasi interamente nel monastero di Tibéhirine, tra le montagne dell'Atlante. Qui otto monaci trappisti francesi vivono, pregano, aiutano la popolazione musulmana da cui sono apprezzati e amati. Il loro superiore è Christian (lo spirituale Lambert Wilson, già visto in un altro film in concorso, La princesse di Montpensier di Tavernier); l'anziano Luc (un grande Michel Lonsdale) esercita la medicina; ciascuno degli altri sei è caratterizzato nelle sue mansioni quotidiane con pochi tratti giusti e coerenti. Quando terrore e violenza bussano alla porta dell'eremo, devono decidere se restare o salvarsi. Adottano la prima delle soluzioni; opzione già implicita, del resto, nella rinuncia a se stessi fatta al momento di vestire il saio. La scelta si rafforza di giorno in giorno, col crescere e il moltiplicarsi delle minacce: resteranno a prestare aiuto alla gente del luogo, malgrado l'ostilità non solo dei terroristi, ma anche delle autorità e dell'esercito governativo. Tuttavia i frati non vanno affatto scambiati per gli otto samurai del Signore: esprimono titubanze e paure molto umane, compiendo un itinerario dove ciascuno dichiara il proprio parere su cosa è meglio fare, alcuni lo rettificano fino alla risoluzione finale che sarà unanime e definitiva. La sceneggiatura e la regia di Xavier Beauvois non sono al servizio di una storia edificante da proiettare negli oratori, né di un martirologio in lode di una pretesa superiorità cristiana. Gli uomini del convento (ricostruito in Marocco, dove le riprese si sono svolte per motivi di sicurezza, dallo stesso scenografo di Un profeta) e i musulmani del villaggio si rispettano a vicenda, nella vita quotidiana come nella fede che professano. È vero che, come afferma una frase del filosofo Blaise Pascal citata nel film, non si massacra mai con tanta gioiosa convinzione come quando si tratta di religione. Eppure dell'eccidio dei trappisti (che non vediamo nel film, ma di cui ci informa un cartello finale), a lungo attribuito al Gruppo Islamista Armato, non sono stati accertati né modalità né esecutori. Ma la soluzione del mistero non è lo scopo del film, che vuole raccontarci non la morte, ma la vita degli otto monaci.
Roberto Nepoti, La Repubblica

Critica (2):In Francia non c'è giornale che non abbia usato la parola "miracolo". Un po' perché si parla del martirio dei sette monaci francesi trucidati dagli integralisti a Tibhirine, in Algeria, nel marzo 1996. Un po' perché è raro che un film austero e esigente come Uomini di Dio venga visto in poche settimane da due milioni e mezzo di spettatori.
Eppure è andata proprio così. Gran premio della Giuria all'ultimo festival di Cannes e ora designato a concorrere per la cinquina degli Oscar, il film di Xavier Beauvois ha conquistato un pubblico immenso, a Parigi come in provincia, attirando gente di ogni età e condizione, credenti e non credenti, cristiani e islamici. Tutti sedotti da una storia rievocata con la limpidezza, la semplicità, la profondità del grande cinema.
Naturalmente non c'è trucco. Uomini di Dio, in Italia da venerdì 22 grazie alla Lucky Red, deve il suo successo unicamente alle sue qualità. E alla forza di un messaggio davvero universale che può essere letto dalle prospettive più diverse (fra gli estimatori del film figura il presidente Sarkozy, e fra pochi giorni ci sarà pure una proiezione riservatissima in Vaticano).
L'unica cosa che manca al film di Beauvois, se vogliamo, è il lato dell'inchiesta. Des hommes et des dieux, questo il titolo originale, non si avventura infatti sul terreno minato delle ipotesi intorno alla fine dei sette monaci sequestrati dagli integralisti (che per qualcuno furono uccisi non dai terroristi ma dai servizi segreti algerini, mentre per altri rimasero vittime di un bombardamento dell'esercito). In compenso ricostruisce la loro vita nel monastero dando tutto il suo significato a ogni gesto, a ogni momento, a ogni scelta, piccola o immensa, compiuta da quegli uomini nei mesi precedenti la loro morte.
Perché restare, sapendo a cosa andavano incontro? Per la stessa ragione per cui erano andati fin lì, fra i monti dell'Atlante, a portare una parola di fede – e assistenza medica e materiale – nel cuore di un paese islamico. È questo il cuore del film: da quando i terroristi irrompono la prima volta, armi in pugno, proprio nella notte di Natale, al giorno in cui un altro gruppo li porta via sotto la neve, Beauvois segue i suoi monaci, i loro umanissimi dubbi, la paura di aver paura o di agire per orgoglio, l'arrovellarsi sulle ragioni profonde delle loro scelte, senza trascurare un secondo i doveri quotidiani, l'orto, le preghiere, il rapporto con la popolazione di quel paesino («Voi siete il ramo, noi gli uccelli», dice un'algerina a un monaco rovesciando la sua metafora. «Se andate via non sapremo più dove poggiarci»).
Dietro un successo tanto fenomenale c'è insomma un messaggio di profonda riconciliazione. Ma anche la capacità di porre in modo molto diretto e concreto domande fondamentali sulla fraternità, il rispetto dell'ambiente e del diverso, il senso del sacrificio, in una prospettiva mai confessionale, dunque capace di far breccia in agnostici e credenti.
E poi ci sono le mille piccoli felici "coincidenze" che hanno segnato la lavorazione, tanto che alla fine lo stesso regista, dichiaratamente ateo, ha finito per interpretarle come "segni" di un'attenzione superiore. Fino a rinunciare alla scena che mostrava le teste dei monaci decapitati, dopo aver visto cadere improvvisamente (miracolosamente?) la neve in pieno marzo, neve che si ritrova in un'altra scena chiave del film. «Sarò un miscredente, ma ho i miei limiti», ha detto Beauvois. E l'inquadratura horror non è mai stata girata.
Fabio Ferzetti, Il Messaggero, 16/10/2010

Critica (3):

Critica (4):
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