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Grido (Il)


Regia:Antonioni Michelangelo

Cast e credits:
Soggetto: Michelangelo Antonioni; sceneggiatura: Michelangelo Antonioni, Elio Bartolini, Ennio De Concini; fotografia: Gianni Di Venanzo; montaggio: Eraldo Da Roma; scenografia: Franco Fontana; musica: Giovanni Fusco; in!erpreti: Steve Cochran (Aldo), Alida Valli (Irma), Dorian Gray (Virginia), Betsy Blair (Elvia), Lyn Shaw (Andreina), Mirna Girardi (Rosina), Gabriella Pallotta (Edera, sorella di Elvia), Pina Boldrini (Lina sorella di Irma), Guerrino Campanili (padre di Virginia), Piero Corvelatti (pescatore), Gaetano Matteucci (fidanzato di Edera); produzione: Spa Cinematograìca (Roma), in collaborazione con Robert Alexander Production (New York); origine: Italia, 1957; durata: 102'.

Trama:Aldo che lavora come operaio in uno zuccherificio della Val Padana, convive da sette anni con Irma: dal loro amore è; nata una bambina. Il marito di Irma è; emigrato da anni ed un giorno giunge la notizia della sua morte. Aldo vorrebbe sposare la donna, ma Irma gli confessa di non amarlo più: il suo cuore appartiene ad un altro uomo. Aldo protesta, minaccia, ma tutto è inutile, Irma non si lascia commuovere. Aldo lascia la fabbrica e il paese, e inizia con la bambina il vagabondaggio per i paesi della regione. Ritorna da Elvia, la fidanzata che aveva lasciato sette anni prima per andare a vivere con Irma, ma a casa di lei rivolge le attenzioni alla sorella Edera.

Critica (1):Il ritorno con Il grido al paesaggio de. telta padano costituisce per Antonioni I recupero di una dimensione biografia, sia di una biografia "privata" che d ma biografia "artistica", anche se, ovviamente, tale distinzione è puramente di comodo. Per quanto riguarda la prima, Antonioni ha dichiarato «Ho voluto che il paesaggio in cui [Aldo, il protagonista] si muove, usato per meglio definire uno stato d'animo, fosse il paesaggio della mia infanzia, visto con gli occhi d'uno che ritorna a casa dopo un'intensa esperienza culturale e sentimentale». Per quanto riguarda la seconda, bisognerà riferirci a Gente del Po, travagliata opera di esordio di Antonioni documentarista, iniziata nel '43 e conclusa nel '47, e anche ad uno storico articolo (Per un film sul fiume Po) apparso su "Cinema" nel '39 e corredato da alcune fotografie dello stesso Antonioni che secondo Carlo Di Carlo «rappresentano già un'indicazione figurativa precisa» e rivelano «quel gusto e quel taglio dell'immagine che appartengono poi ad Antonioni regista e soltanto a lui». Val la pena di riportare una descrizione dettagliata di queste fotografie, dovuta allo stesso Di Carlo - collaboratore ed esegeta di Antonioni, oltre che regista in proprio - per vedere da dove abbia preso avvio l'indagine antonioniana sul rapporto ambiente-individuo, e su quello realtà-osservatore inteso come un complesso rapporto di decifrazione-investimento di senso. «Le canne intrecciate delle reti da pesca sottintendono un paesaggio delimitato da spazi divisi con rigore geometrico, dove l'uomo è presente, piccolo come un punto nella distesa dell'acqua stretta dalla terra; file di alberi morti vicino a riva, presentimento del dramma quotidiano dell'acqua; pescatori in attesa di affrontare l'estensione immensa del Po che ha l'aspetto di un "paesaggio africano"; due barconi da pesca nella luce del tramonto e subito dopo, a contrappunto, barche e vapori alla riva di Pontelagoscuro, fermi nel sole della mattina, preparati ad un'altra giornata di lavoro» (cfr. Il primo Antonioni, a cura di C. Di Carlo, Cappelli, Bologna, 1973). L'assunzione di una struttura narrativa (Antonioni ricorda che durante le riprese di Gente del Po aveva provato il rammarico «di non poter dare a questa materia uno sviluppo narrativo»), che in questo caso assume le forme del vagabondaggio di Aldo dopo la conclusione, traumatica, di un'esperienza sentimentale con Irma (Alida Valli) e il tentativo, fallito, di ricomporre con altre donne (Elvia, Virginia, Andreina) la frattura prodottasi nella propria esistenza, costituisce anche, ma non solo, l'acquisizione di un supporto che permetta, attraverso contrazioni e dilatazioni, rallentamenti e accelerazioni, di portare al massimo grado di estensione e di articolazione spaziale e temporale quel rapporto tra realtà e osservatore, tra le "cose" e lo "sguardo" che costituisce il nucleo originario dell'ispirazione antonioniana e che proprio in quei luoghi aveva trovato la sua prima espressione. In tal modo il "sentimento del paesaggio" (con quanto di arbitrario, individuale, "autobiografico" esso comporta) trova una forma di oggettivazione nella vicenda narrata' senza tuttavia identificarsi totalmente e esaurirsi nelle sue determinazioni sociologiche, comportamentali, psicologiche o, specificamente, narrative. Questo nucleo non risolto, e, comunque, non risolubile nella sola dimensione narrativa resta assieme a quest'ultima uno dei due fattori di strutturazione del film, che ha senza dubbio una sua coerenza, anche se realizzata su due piani in attrito tra di loro. La dualità interna che percorre tutto il film e che, sulla scorta delle varie esegesi, può essere formulata nei termini di cronaca e autobiografia, immedesimazione nel personaggio e distacco da esso nelle "astrazioni" dello stile ecc., è senza dubbio
uno degli elementi che ne determina la forte tensione interna, ma fu anche la causa di molte incomprensioni da parte di chi pretendeva soluzioni più accomodanti e consolatorie non solo sul piano dei cosiddetti contenuti, ma anche o forse soprattutto su quello dello "stile". In effetti Antonioni con questo, che è il suo unico lungometraggio di ambientazione proletaria, proprio perché immune sia da ogni possibile tentazione populistica sia da ogni mitologia della "pura" realtà e dei suoi misteri "ontologici", può arrivare, come ha osservato Tinazzi, al punto «di chiarificazione di alcune contraddizioni, una sorta di momento di scopertura (un'autobiografia senza confessione, però) dove l'urgenza di certi momenti appare sciolta in stile».
Antonio Costa in Tradizione e innovazione nel cinema degli autori emiliano-romagnoli, Comune di Modena, 1976

Critica (2):La peculiare modernità politica del Grido in confronto alle esperienze neorealiste che lo hanno preceduto sta in qual suo agire di riflesso. Ciò vale per la transizione della società italiana fra oscurantismi centristi e decollo industriale, ma anche per la storia cinematografica in sé. Antonioni torna alle proprie origini,
ai luoghi dell'infanzia e del suo primo documentario: Gente del Po - e si riavvicina a Giuseppe De Santis. Un autore di opposta ispirazione, si dirà, tale che un paragone col ferrarese farebbe rizzare i capelli in testa, tuttavia se si confrontano i finali del Grido e di Riso amaro è facile ammettere che sono quasi identici. Come la Silvana di De Santis, Aldo muove verso il tragico epilogo da una folla in tumulto; entrambi, rispetto a questa folla unita attorno al comune interesse sociale, camminano isolati e, talora, insenso contrario. Ed entrambi hanno appena toccato l'apice di una sconfitta ampia, non solo personale: Silvana intuisce il proprio "tradimento di classe" attraverso la caduta di sogni ingannevoli, Aldo invece prende atto di una completa estraneità. Non si dimentichi che il nuovo incontro con Irma ha segnato una doppia esclusione - sentimental/familiare e sociale: la donna ha salito un gradino, vive più agiata, la sua casa si stacca dalle altre - per cui il "tradimento" sembra inevitabile. Anche il "crescendo" che si compie col salto nel vuoto scopre singolari affinità: sia in Riso amaro che nel Grido una torre si alza dalla pianura, poi c'è la salita solitaria del personaggio e, infine, l'urlo: di Francesca nel primo caso, di Irma nel secondo. Due "tradimenti", insomma, e due paragonabili, pur se altrettanto diverse scelte di punizione. Dopo di che la lontananza fra De Santis e Antonioni torna palese; e, volendo restare nei termini morali, riguarda, al di là del tradimento e della punizione, l'estremo bisogno del perdono. Mentre Silvana ritrova un'armonia da morta, e il rito pagano-contadino improvvisato dalle sue compagne - coprono il corpo con manciate di riso - allude a una rinascita, Aldo resta insepolto, cioè separato dal proprio ambiente (inteso anche come identità solidale nel lavoro) o ad esso rapportabile solo a distanza. Al punto che nell'angoscioso `crescendo" lo spettatore può seguire ora Aldo ora la gente, e, anche a tragedia consumata, quando sullo sfondo continua la corsa verso la manifestazione di protesta, domandarsi quale sia il protagonista vero del dramma. Nessun perdono, dunque, ma un contrasto, un dubbio aperto; o meglio - ecco la modernità del film, l'attrattiva "sofferente" già individuata per la scrittura che si conferma in ultima e "definitiva" istanza.
Tulio Masoni, Cineforum n. 350, 12/1/1995

Critica (3):Lo sviluppo del film è lineare. Si potrebbe forse parlare di una spontaneità imbrigliata e fatta costruzione. Si delinea subito l'elemento strutturale costante del prologo, come una cifra che condizioni per lo spettatore l'ulteriore svolgimento del film. Nel Grido è l'annuncio della morte del marito di Irma, la decisione della donna di fare la scelta. È una sorta di molla, dal punto di vista psicologico, narrativo, stilistico. Sotto il primo aspetto, si dipana l'urto con una consuetudine in cui i sentimenti si sono sedimentati, come una dose vitale di cui è impossibile liberarsi: dopo l'abbandono, Aldo non può sfuggire al ricordo di Irma. È la trama delle abitudini messa a repentaglio, un taglio netto operato dal caso, che trasferisce la situazione particolare in una condizione ontologica. L'«insuperabile singolarità dell'avventura umana» sfugge al nostro controllo. (…) Dal punto di vista narrativo, si può dire sia un film del dopo, della ricerca vinta in partenza. Stilisticamente, ricerca e fatalità diventano tensione e predisposizione, le due forze del film. Dietro vi è l'influsso dell'ambiente, che si avverte sin dall'inizio: Aldo segue Irma nei suoi luoghi, le luci e le cose di tutti i giorni. Sull'ambiente, con la nota di fondo di un'incrinatura radicale, si svolgono gli «incontri» di Aldo. Ancora personaggi femminili, diversi aspetti di una sola intuizione. La coerenza sentimentale di Irma è la condanna di Aldo. Poi Virginia, la benzinara, una provvisorietà opposta e complementare a quella del protagonista: e la loro contrapposizione ha risonanze vive, precise. Oppure Andreina, la prostituta, la disponibilità e la condanna, il vivere ai margini del mondo; o Elvia, il passato irrecuperabile. Compartecipe, la figlia Rosina, testimone e «innocente», la condanna sin dall'inizio, la lesione (quando assiste alla scena d'amore del padre).
La struttura passa attraverso vari momenti: a) il «salto» iniziale, l'elemento di disturbo; b) i rapporti tra Aldo e Irma, che culminano nella scena del litigio in piazza (gli altri, l'indifferenza). Stilisticamente vi è già l'osservazione degli atti quotidiani rivisti alla luce della loro profonda incrinatura; c) il vagabondaggio di Aldo; d) gli incontri. Il contrappunto è rappresentato da Rosina, la testimone. I tentativi di inserimento e di recupero, lo scacco, la progressiva marginalità al mondo; e) il nuovo scontro col vecchio ambiente, lo sfondo irrimediabilmente estraneo (il lavoro, la solidarietà perduta). Forse è un elemento che può fungere da catalizzatore di tipo intellettualistico; f) la chiusura. Il film si ricompone, resta il grido.
Lungo tutto il percorso, il ricordo diventa dimensione del presente. Il tempo si amplia, Elvia e Irma ne rappresentano la perdita. Narrativamente sembrano sciogliersi i «nodi». I ritorni, gli addii sono senza strazio. Antonioni avverte ancora, però, il bisogno del contrappunto (Edera e il fidanzato, Aldo e Irma, le storie parallele) sino a farcene sentire alle volte la forzatura. Altre volte, invece, si distende e inventa una soluzione stilistica efficace, come nella festa da ballo.
L'unità stilistica del film è data dallo stemperarsi della storia come supporto narrativo, nella ricerca della consonanza di un tema dominante con la sua risoluzione in forma; il crescendo dell'opera è un mutar di
corda. La solitudine sembra distaccarsi, perde il senso del casuale, diventa dramma; e tale passaggio avviene gradualmente. Era necessaria dunque la modulazione continua di un'ossessione, col rischio (cosciente e coerentemente sostenuto) che quel distacco significativo che si voleva raggiungere si rivelasse invece qualcosa che stava prima, un dato a priori che spingeva ad assolutizzare l'esperienza.
È un film che si snoda (incontri, cose, personaggi) anziché concentrarsi in un pieno drammatico, sono articolazioni di quegli stati d'animo in forma di rappresentazione di cui ha parlato Renzi a proposito del primo Antonioni. Il crescendo è sí nei fatti, nelle punte emergenti, ma anche nei vuoti, nelle «assenze» di dramma, nella coloritura soggettiva, nel tempo che è là. Per questo era indispensabile - come in altri casi, e ancor piú - creare un'atmosfera diffusa. Occorreva sfuggire la predisposizione, quella che, non casualmente, lo stesso Antonioni rimproverava al Carné di Quai des brumes nel suo saggio del 1948.
Sul filo conduttore dell'emblematico vagabondaggio di Aldo si innestano i temi dell'individualismo antonioniano: il «disancoraggio», il crollo delle sicurezze, l'inquietudine, l'indifferenza, il sesso. Il caso e il destino si intersecano, vi è il senso di una vita che scorre e si drammatizza, in modo impalpabile e pur evidente. Il ricordo è ineliminabile, il passato preme e chiude. Quello che conta nel film è il presente (non vi sono infatti flash-backs). Il tempo individuale rompe col tempo storico, e questo è il nucleo drammatico. I sentimenti vivono la precarietà della non prevedibilità: «allora questi anni... non era vero niente», dice Aldo a Irma, di fronte alla rivelazione e lei: «Era tutto vero fino a quattro mesi fa»; e poco dopo, ancora Irma: «Sto tanto male che non riesco nemmeno a parlare... Ma cosa posso farci? Ormai è come se non dipendesse piú da me». Aldo, ha detto un critico, è schiavo delle passioni, ma probabilmente è qualcosa di diverso; si tratta dell'impossibilità di dare coerenza ai propri sentimenti, di conciliarli col tempo e col luogo; la laicità drammatica di Antonioni è in questa mancanza di dimensione.
Giorgio Tinazzi, Michelangelo Antonioni, Il Castoro Cinema, 10/1976

Critica (4):
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