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Casinò - Casino


Regia:Scorsese Martin

Cast e credits:
Soggetto: Nicholas Pileggi; sceneggiatura: Nicholas Pileggi, Martin Scorsese; fotografia: Robert Richardson; montaggio: Thelma Schoonmaker; scenografia: Dante Ferretti; costumi: John A. Dunn, Rita Ryack; effetti: Paul J. Lombardi, Craig Barron, Paul Rivera, The Effects House, Matte World, Digital K.N.B. Effects Group; interpreti: Robert De Niro (Sam "Ace" Rothstein), Sharon Stone (Ginger McKenna/Rothstein), Joe Pesci (Nicky Santoro), James Woods (Lester Diamond), Frank Vincent (Frank Marino), Pasquale Cajano (Remo Gaggi), Kevin Pollak (Phillip Green), Don Rickles (Billy Sherbert), Vinny Vella (Artie Piscano), Alan King (Andy Stone), L.Q. Jones (Pat Webb), Joseph Rigano (Vincent Borelli), John Bloom (Don Ward), Melissa Prophet (Jennifer Santoro), Bill Allison (John Nance), Gene Ruffini (Vinny Forlano), Dominick Grieco (Americo Capelli), Erika von Tagen (Amy Rothstein da grande), Oscar Goodman, Catherine Scorsese (madre di Piscano), Jerry Vale, Jayne Meadows, Steve Allen, Frankie Avalon, Dick Smothers (senatore; Phillip Suriano (Dominick Santoro); produzione: Universal Pictures-Syalis Da-Légende Entreprises-De Fina-Cappa; distribuzione: Cineteca Griffith; origine: Usa-Francia, 1995; durata: 178’.

Trama:Sam Rothstein, l'allibratore preferito dal boss della mafia di Kansas City, viene nominato direttore di un grande Casinò a Las Vegas, aggirando con un cavillo la necessaria licenza. Gli affari prosperano e la mafia gli affianca come guardaspalle il temibile Nicky Santoro. Frattanto Sam si innamora di una prostituta, Ginger McKenna e decide di sposarla. Avuta una figlia, Sam si infatua della donna fino a depositare a suo nome 25.000 dollari in una cassetta di sicurezza. Ma costei è ancora innamorata e legata a Lester Diamond, suo ex protettore ed amante che la ricatta, finché Sam, un giorno li sorprende e fa picchiare l'uomo. Per vendicarsi, Ginger circuisce Nicky il quale frattanto, espulso da tutti i locali della città per le sue violenze, ha costituito una propria banda di rapinatori. Il licenziamento del nipote di un politico locale porta Sam in tribunale dove viene trovato senza licenza; ma la mafia lo ripresenta al Casinò come direttore artistico. Intanto l'FBI indaga sia sul denaro che esce nascostamente dal Casinò e finisce nelle tesche della "mala" di Kansas City, sia sulla love story tra Nicky e Ginger, che vuole i dollari di suo marito e il divorzio, e arriva a rubare le chiavi della cassetta di sicurezza, uscendo dalla banca con i soldi mentre Sam assiste impotente al suo arresto da parte dell'FBI. Tutti al processo se la cavano, e il boss ordina un repulisti generale in cui anche Nicky e il fratello Dominick vengono massacrati e sepolti vivi dai loro ex compagni di rapine. Mentre Ginger, alcolizzata da tempo, muore per overdose, Sam, che è scampato ad un attentato, nascostamente ritorna a Kansas City al suo vecchio mestiere di allibratore.

Critica (1):Una città finta, fatta solo di case da gioco e di luci al neon faraoniche e straripanti che fanno durare il giorno ventiquattr'ore, immersa in mezzo a un deserto (quello del Nevada) disseminato di tombe ignote e anonime e di buche in attesa di cadaveri. Las Vegas negli anni '70, paradiso in terra per la mafia e i suoi uomini e "impiegati", prima di trasformarsi, negli anni '80, in una specie di Disneyland per adulti, dove i bambini giocano nel galeone dei pirati mentre i genitori passano il tempo ai tavoli del black jack o alle slot machine. Una città che è comunque lontano da casa, tranne che, forse, per Bugsy Siegel (che la fondò nei primi anni '40). Lontano da casa per Ace e per Nicky (che ogni tanto nella narrazione tornano «da noi, a casa»), probabilmente per Ginger (che quasi di sicuro una casa non l'ha mai avuta, in giro da quando aveva tredici anni con il giocatore-gigolo-magnaccia Les Diamond), certamente per Martin Scorsese, che si sposta, come raramente accade, da New York, per andare a soppesare la tenuta dei suoi "bravi ragazzi" e del suo cinema all'urto di una realtà artefatta ed esasperata, senza miti e senza familiarità. Una città talmente stereotipata da sovrastare qualsiasi stereotipo umano la abiti, talmente sopra le righe, notturna, vistosa, volgare, da far sembrare il grossolano microcosmo familiare di Quei bravi ragazzi lastricato di buon gusto e di sentimenti onorevoli, talmente meccanica, insonne, professionale, da far scolorire i lucidi, incruenti "omicidi" perpetrati dalla buona società newyokese di fine secolo in L'età dell'innocenza. Una macchina per far soldi, un meccanismo a orologeria. Martin Scorsese va al West e crea il suo film più cupo, inappellabile, disperato: freddo come il gelo lucido che attanaglia Re per una notte e L'età dell'innocenza, violento ed estremo come i colori squarciati e irrealistici che siglano Taxi Driver, percorso dalla tragedia dell'impossibilità amorosa come Toro scatenato e dal senso di religiosità inappellabile e disperato di Mean Streets. E naturalmente matematico, morale e paranoico come Quei bravi ragazzi.
Quei bravi ragazzi è stata la citazione ricorrente a proposito di Casino, in parte per le affinità tematiche delle sceneggiature di Pileggi (basate in entrambi i casi su personaggi e avvenimenti reali) e per la somiglianza dei due personaggi interpretati da Joe Pesci, in parte, forse, per le voci off che percorrono entrambi i film. Ma Casino non è un remake più violento del film del 1990; non è una semplice riproposta di temi mafiosi, ambienti abbagliati dal lusso fasullo e personaggi che vivono freneticamente sopra le righe. Casino appare, in questo momento, come una sorta di "summa" del cinema di Scorsese: non il suo film migliore (ma come si fa a classificare il lavoro di un regista che non ha mai sbagliato un film?), ma il suo film più astratto, teorico, arrischiato. Un film che rifiuta di "raccontare" una storia, di affezionarsi davvero almeno a uno dei personaggi, che si nega ostinatamente a una qualsiasi aspettativa di narrazione lineare, che si spezza costantemente in una sontuosa, tragica, delirante visione del mondo: un mondo come guardato attraverso un caleidoscopio, che solo a tratti, all'improvviso e per un momento, si concretizza in una composizione dai lineamenti percettibili, per poi riesplodere in una gimkana di colori, musiche, grida, dadi, dita spezzate, omicidi, gioielli, insegne al neon. Un film di tre ore che non si concede un attimo di pausa, che per un'ora e quaranta ha il ritmo e la scansione affannata di un incipit, che mescola con noncurante perfezione la secca durezza del gangster movie, l'opulenza luccicante del mélo anni '50, lo scatto nervoso e ironico della New Hollywood newyorkese degli anni '70.
Qui, lo stile è tutto; il luogo comune e l'autocitazione sono a un passo, ma il geniale occhio d'autore di Scorsese (e il suo coraggio visionario), piuttosto che evitarli, li affronta di petto e li fa levitare in una sfera che è ormai totalmente, stupendamente onirica. La composizione, così, si distacca da qualsiasi modello di cinema tradizionale, "narrativo", dalla linearità in flashback che ancora segnava Quei bravi ragazzi: la macchina da presa, instancabile, mobilissima, capace di tutti i trucchi, segue ormai esclusivamente la scansione del cervello di Scorsese (anzi, sembra direttamente incorporata nel suo cervello), e il montaggio di Thelma Schoonmaker ne sottolinea i ritmi, gli scarti, le ellissi, le imprevedibili connessioni, in una sorta di ricognizione delle tecniche del montaggio classico. Così, lo stile diventa il mondo raccontato, la frenesia, la freddezza, la fulminante superficialità, l'immoralità diffusa, lo scintillio della superficie al posto del calore dei rapporti, la città finta per gente finta, travolta dalla propria stessa colorata apparenza e dal proprio divorante professionismo (e, se proprio vogliamo cercare, sotto sotto, i discorsi tematici, vien fatto di pensare che, sotto sotto, Scorsese non stia parlando solo dei gangster che dissipavano la vita a Las Vegas negli anni '70, ma che la sua sia una gigantografia tragica del mondo in generale, di Hollywood e del suo cinema, e anche del mondo più "piccolo", quotidiano, all'apparenza incolore). Ma il "piccolo", e in particolare il piccolo borghese, non abitano l'universo di Scorsese, un erede esplicito della tradizione romantica, che ha sempre bisogno di vocazioni, ossessioni, "eroi" più grandi della vita, automi pazzi persi dietro a un sogno di potenza annichilente, per riuscire a esprimere il proprio io disperato, la propria personale vocazione al martirio. A ogni film che fa, Scorsese dà l'impressione che, se non facesse cinema, se non conservasse il cinema del passato, se non si rifugiasse nella visione del cinema, sarebbe già perso, finito, in un angolo di una sua mean street, impazzito per il dolore di vivere.
Scorsese ha sempre amato paragonare i suoi film ai capolavori del passato che ama di più: Taxi Driver e Sentieri selvaggi, L'ultimo valzer e Scarpette rosse, Toro scatenato e Rocco e i suoi fratelli, ecc., ecc. Ora, non so a cosa paragoni Casino, a parte i molti classici sovietici che cita nelle interviste. Di sicuro però, pensando all'opera di uno dei suoi maestri, Michael Powell, Casino fa venire subito in mente I racconti di Hoffmann. Tematicamente, niente di più distante: gangster di Las Vegas e demoniache passioni romantiche ottocentesche. Ma stilisticamente, entrambi i film sono un volo nell'abisso dei loro autori, una metodica ricognizione nel loro bricà-brac visivo e mitologico. Ed entrambi, sono completamente disinteressati alla "forma" che ci si aspetta da loro. Powell prese di peso un'opera, "muovendola" con tutto il suo repertorio di trucchi (disegni, dissolvenze, primi piani, voli improvvisi della macchina da presa e un uso del colore antinaturalistico e stordente, allora davvero magici), stipandone le inquadrature di bambole, doppi, automi, diavolerie, trasformazioni e trasgressioni. Scorsese, invece, ha preso una storia di malavita, l'ha trasformata in un'opera, una sterminata coreografia di comparse e cadaveri, sottolineata dalla voce narrante dei due protagonisti e illuminata dallo splendore e dai movimenti di una "prima ballerina" (Ginger, la terza protagonista) che non ha voce narrante, e, anche lui, l'ha stipata delle proprie ossessioni ricorrenti: stragi cruente e deliberatamente iperrealistiche (non dimentichiamo che già ai tempi di Taxi Driver puristi e benpensanti si erano sentiti oltraggiati dalla violenza e dal sangue della strage finale), esasperata iconografia cristiana (quell'Ultima cena su sfondo nero alla quale sembrano perennemente seduti i vecchi padrini mafiosi, ma anche, in parte, quel "martirio" esemplare cui sono sottoposti Nicky e suo fratello), l'escalation della volgarità e dell'avidità, segnalata dai cambi d'abito di Ace e Ginger (52 per De Niro, 40 per Sharon Stone), dalla crescente assurdità cromatica degli abiti di Ace, dal tripudio di gioielli massicci e scintillanti, la paradossale, casalinga bonomia dei parentadi mafiosi, una divinità bionda, fragile come l'argilla e sostanzialmente inaccessibile al protagonista, i giri ossessionati e instancabili di occhi, telecamere e microfoni che spiano gesti e movimenti, il fascino metallico dell'ambientazione urbana, e poi lampadari, mascherini, coni di luce che isolano un personaggio, fermoimmagine, Louis Prima e Bach, sguardi in macchina, polpette al sugo, una mamma italoamericana (la sua, che interpreta la mamma di Artie Piscano), regolamenti di conti repentini, protettori luridi e atticciati (James Woods sembra il ritratto, appena ripulito, del magnaccia Harvey Keitel che stazionava per strada in Taxi Driver), gli scatti di follia omicida di Joe Pesci, bar, ironia e cocaina. Non c'è un'inquadratura uguale alle altre, una ripresa scontata, una sequenza nella quale Scorsese non "inventi" qualcosa, dagli angoli di ripresa impossibili (come la "soggettiva" della narice che aspira la cocaina) alla steadycam che accompagna l'esattore della mafia nel suo giro nel ventre dorato del Tangiers.
Ciononostante, nonostante la sua incessante attività ritmica, visiva e musicale, Casino è tutt'altro che un'esibizione solo "tecnica" e superficiale. Casino è se mai un film sulla superficie, che travolge e condiziona tutto il resto, un film sull'apparenza che regola la vita (e in fondo lo era già L'età dell'innocenza). E nonostante l'essenzialità elementare con cui Scorsese tratteggia le psicologie dei suoi protagonisti (ma, in fondo, John Ford non aveva bisogno di raccontarci per filo e per segno chi era il comandante Nathan Brittles), Casino è soprattutto la storia dell'ascesa e del crollo repentino di un piccolo scommettitore che trova il paradiso in terra e che lo perde. Casino dà tutto quello che promette nella breve scena pre-titoli e negli allucinati titoli di testa di Saul ed Elaine Bass: De Niro salta per aria, attraversa tutte le luci di Las Vegas e finisce tra le fiamme dell'inferno.
Emanuela Martini, Cineforum n. 353, 4/1996

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