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Giorno dopo giorno - Yom yom


Regia:Gitai Amos

Cast e credits:
Sceneggiatura
: Amos Gitai, Jacky Cukier; fotografia: Renato Berta; scenografia: Thierry François, Miguel Markin; montaggio: Nili Richter, Ruben Korenfeld; suono: Michel Kharat; musica: Philippe Eidel, Josef Bardanshvilly; costumi: Heifi Boham; interpreti: Moshe Ivgi (Moshe), Hanna Maron (Hanna), Yussef Abu Warda (Yussuf), Dalit Kahan (Didi), Juliano Merr (Jule), Anne Petit-Lagrange (la dottoressa), Nataly Atiya (Grisha), Gassan Abbas (Nadim), Shmuel Calderon (Menahem), Keren Mor (Mimi); produzione: Agav Films, Cinema Factory; distribuzione: Mikado Film; origine: Israele / Francia, 1998;; durata: 106'.

Trama:Moshe è alle prese con una crisi matrimoniale: lui e la moglie Didi non si sopportano più: sul loro matrimonio pesa anche il tradimento di lei con Jules, migliore amico di Moshe. Poi ci sono la madre di Moshe possessiva e affettuosa, il padre che sta trattando con un uomo d'affari ebreo che vorrebbe comprare la sua terra per realizzare un complesso turistico, e Mimi catatonica sorella di Didi. Tra un grottesco week-end trascorso a ripassare l'ABC della vita militare e una rapina in banca in cui finisce coinvolto anche Moshe, tra un tradimento e l'altro, si arriva al clou della vicenda: la morte improvvisa della madre...

Critica (1):Yom yom in ebreo “giorno dopo giorno” [...] è la seconda parte di una trilogia (Devarim, presentato nel 1995, è la prima parte [...]) dedicata alle tre grandi città: Tel Aviv, Haifa e Gerusalemme [...]. Il film costruisce una serie di specchi ove possiamo osservare la realtà dell’odierno Israele, turbato dalle scintillanti immagini della guerra e della pace e sotto la minaccia costante di una visione apocalittica. La trilogia evita espressamente la descrizione mitica per privilegiare delle piccole storie quotidiane, laconiche ma commoventi. Haifa. Moshe è un quarantenne ipocondriaco che lavora nel panificio di famiglia. Sposato, più o meno felicemente, con Didi, ha una relazione con Grisha e fantastica sul suo medico. Con Jule, l’amico d’infanzia, condivide il disordine della sua vita, un ossessivo terrore della morte e ogni più intimo segreto; ignora però che hanno anche una donna in comune. La madre Hanna, un’ebrea, si sente ancora obbligata a metter odine nella vita del figlio. Il padre, Yussuf, ora chiamato Yussef, un arabo israeliano, si chiede se sia giusto vendere il terreno su cui è la casa dei genitori per far posto a un centro commerciale israeliano. Come per ogni eroe comico, il problema di Moshe è sopravvivere. La madre lo chiama Moshe, il padre Moussa, altri Mosh… come stupirsi che non sappia né chi è né dove va?
Dal catalogo della 55^ Mostra Internazionale del Cinema di Venezia, 1998

Critica (2):Yom Yom (Giorno per giorno) è il titolo di questo film e insieme il senso e il modo del suo svolgersi in tondo, in una ossessione senza uscita. È una formula da ripetersi all’infinito, come accade negli arabescati titoli di testa e come ribadisce la prima sequenza con la camera fissa sulla schizofrenia di Mimi spinta dal demone dell’apatia a moltiplicare gli stessi gesti senza senso (e poi a tempestare chiunque gli stia davanti di domande insensate in un insensato dialogo sul nulla). Ma anche come ribadiranno le nevrosi dei protagonisti, dalla bulimia alimentare e sessuale di Moshe, alla cronica necessità di trasgressione di Jules. Sono tutti impigliati nella stessa ragnatela, tutti presi nel circolo vizioso mentale di una società (quella israeliana) che non riesce a liberarsi dai suoi fantasmi, forse perfino legittimati da ciò nella loro inettitudine a vivere “normalmente” (quante volte Moshe e Julien ripetono: «Sono tutti pazzi» o «Viviamo circondati dai pazzi»?). Anche se lo sguardo di Gitai è soprattutto concentrato sullo sbandamento esistenziale perenne di Moshe, alle prese con un pesante senso di non appartenenza (non per niente il padre arabo lo chiama Moussa e la madre ebrea Moshe; il padre stesso dovrà arrabbiarsi più di una volta con chi “ebraizza” il suo nome) e condannato a non avere figli (è un ibrido alla ricerca di un’identità... ).
Yom Yom è un film visceralmente politico (vedi il finale con la matta che canta: «Nulla può farci tornare dall’abisso... Cantate un canto di pace») che sceglie un tono efficacemente grottesco ma finisce per scivolare in qualche superflua faciloneria, come la macchietta dell’ebreo affarista, con la sua casa che è un vero e proprio monumento al kitsch più lussuoso e con i suoi progetti di radere al suolo interi vecchi quartieri (arabi) per costruirci alberghi e supermercati; o come il tormentone del contratto che il padre di Moshe è sempre sul punto di firmare (ma lui, che vive trincerato nel silenzio, vorrebbe almeno conservare un pezzo della sua terra, un po’ delle sue radici) e che alla lunga finisce per suonare un po’ idiota (sarebbe bastato quel colloquio tra lui e Mimi in cui la nevrotica per eccellenza, nel suo perenne vagare nell’oceano delle domande possibili, azzecca quella “pesantemente ovvia”: «Gli ebrei sono potenziali acquirenti dei territori arabi?»; risposta: «Ti sposerai presto?»).
Le occasioni di divertimento (spesso amaro) non mancano. Vedi ad esempio lo “stage” militare dei poveri Moshe e Julien, insieme a una combriccola di altri sfigati di mezza età, costretti ad esercitazioni idiote in un’atmosfera demenziale tipo colonia estiva: «Sembriamo dei bambini che si mettono a giocare ai cowboy a quarant’anni». O il momento in cui scopriamo che Moshe non potrà neppure fare i funerali alla madre perché lei ha «voluto donare il suo corpo alla scienza» e lui non trova miglior modo di sfogare il suo dolore che saltando addosso alla dottoressa e cimentandosi in un goffo corpo a corpo sul pavimento di una sala medica.
E non mancano neppure le trovate intelligenti. Come la versione catatonica di un Grande Fratello (le mille telecamere collegate allo schermo davanti a Mimi) ridotto a “guardone” senza più stimoli, controllore di uno stato di nulla apparente, incapace perfino di dare l’allarme per una rapina che si consuma sotto lo sguardo annoiato di chi vorrebbe essere da tutt’altra parte. O come la scelta di una regia che o si fissa sui primissimi piani dei suoi protagonisti (lasciando anche che una voce fuori campo rimanga senza volto per diversi lunghi istanti), sui volti di individui concentrati solo su se stessi (la politica? Meglio non pensarci ... ), o si lascia trasportare da movimenti circolari e pendolari che amplificano il senso dello Yom Yom.
Il gusto per la bella immagine patinata o per il piano sequenza legnoso sono un ricordo del vecchio cinema di Gitai. Qui, ad esempio, nella sequenza del compleanno della madre, la mdp si mette a disegnare una spirale che abbraccia i personaggi in arrivo sulla scena senza badare ai fuori fuoco o ai corpi che ne attraversano lo sguardo, oppure si incolla alle figure di un rapporto sessuale e lo accompagna in un su e giù ossessivo e mortificante.
Il problema semmai è che qua e là Gitai ricasca nel difetto del voler dire troppo (senza accontentarsi di quanto la messinscena per immagini già esprima) e soprattutto pecca per mancanza di intensità. Non riesce a tener alta la tensione e si accontenta di giocare su quell’unica idea cine‑narrativa in un film paradossalmente dispersivo. Se vogliamo richiamarci a un tipo di cinema “politico” d’autore (perché comunque di questo si tratta) cui il suo sembra tendere, a Gitai forse mancano la concisione e il ritmo di Paskaljevic (La polveriera) e la grinta e l’originalità di Pintillie (Terminus Paradis).
Fabrizio Tassi, Cineforum n. 387, sett. 1999

Critica (3):

Critica (4):
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