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Zuppa del demonio (La)


Regia:Ferrario Davide

Cast e credits:
Soggetto: Sergio Toffetti; sceneggiatura: Davide Ferrario, Giorgio Mastrorocco; musiche:Fabio Barovero; montaggio: Cristina Sardo; suono: Vito Martinelli; interpreti: Gianni Bissaca, Walter Leonardi (voci off); produzione: Davide Ferrario, Francesca Bocca, Ladis Zanini per Rossofuoco con Rai Cinema; distribuzione: Microcinema; origine: Italia, 2014; durata: 80’.

Trama:Il film, che nel titolo riprende un termine utilizzato da Dino Buzzati per descrivere le lavorazioni dell'altoforno nel commento a un documentario, 'Il pianeta acciaio' (1964), è un viaggio nell'utopia del progresso. Utilizzando i materiali dell'Archivio Nazionale del Cinema d'Impresa di Ivrea, in cui sono raccolti documentari industriali di tutte le più grandi aziende italiane, viene raccontato l'entusiasmo che durante il secolo scorso ha accompagnato lo sviluppo tecnologico e industriale, dalle grandi opere degli anni Dieci fino alle scoperte in campo informatico e nucleare.

Critica (1):“Le cose che oggi ci appaiono orribili, allora ci sembravano bellissime, erano tempi irripetibili e felici. C’era una sorta di patriottismo del miracolo”, scriveva Giorgio Bocca nel 1964 in “Miracolo all’italiana”, una sorta di reportage attraverso l’Italia del boom economico, una società desiderosa di lasciarsi alle spalle gli spettri del passato e che sta brutalmente trasformandosi da una civiltà agricola ad una industriale nel nome del progresso.
O meglio l’utopia del progresso, come sottolinea Davide Ferrario, regista del documentario(...) La zuppa del demonio. Il termine è stato coniato da Dino Buzzati per descrivere le lavorazioni nell’altoforno de Il Pianeta Acciaio, un documentario del 1969 che può considerarsi un manifesto dell’industrializzazione e delle enormi aspettative che creò all’epoca e che non a caso si apre con un’immagine scioccante per la nostra sensibilità attuale: la distruzione di un uliveto centenario per fare posto alla fabbrica dell’acciaio che oggi porta il brand dell’Ilva.
Con un montaggio efficace che alterna immagini dei documentari del cinema industriale, oggi in buona parte conservati dall’Archivio Nazionale Cinema d’Impresa d’Ivrea, e citazioni letterarie, Ferrario restituisce con impressionante vividezza il grande sogno di un’intera generazione ai tempi un cui si affermava il paradigma dello sviluppo industriale senza limiti e condizioni. Sono anni di indiscusso ottimismo che aveva il suo fondamento nella fiducia incondizionata nelle possibilità della scienza. Perché “il progresso ha sempre ragione”, assicura il manifesto futurista di Filippo Tommaso Marinetti, è la promessa di una società più giusta, di una vita migliore, di benessere per tutti.
Eppure il regista si tiene alla larga dalla retorica del discorso politico e sociologico sull’addomesticamento brutale del mondo ecologico, lo sfruttamento di operai senza tutela, l’alienazione uomo macchina, le sofferenze degli emigranti, e prova a cogliere l’entusiasmo e “il senso di energia, talvolta irresponsabile ma meravigliosamente spericolata verso il futuro”, con cui è cresciuta l’Italia durante il processo di industrializzazione, dal ventennio fascista, con il Duce che inaugura i nuovi stabilimenti di Mirafiori, fino a oltre il boom degli anni Sessanta.
Così sullo schermo scorrono i ritratti brevi ma intensi di lavoratori lungo la catena di montaggio Fiat, dipendenti della Olivetti, operai impegnati nella costruzione di dighe, ponti, strade d’Italia. Tutti accomunati da un “sentimento di fierezza per appartenere a un’azienda, a un gruppo, a un popolo, a un’entità umana che produce una trasformazione storica”, per dirla come Ermanno Olmi, che nel cinema della fabbrica ha mosso i suoi primi passi da regista.
Su questo sfondo si capisce l’oscuramento totale subito per molto tempo dagli effetti negativi dell’industrializzazione e l’isolamento di coloro che hanno manifestato le prime delusioni nei confronti di una realtà che cresceva sempre più complessa e meno governabile di quanto si credeva. “Nei primi anni sessanta, a causa dell’inquinamento dell’aria, sono cominciate a scomparire le lucciole”, racconta la voce narrante sulle parole di Pasolini, mentre Marcovaldo di Italo Calvino, che con le tasche vuote portava la famiglia al supermarket, riflette la natura ambigua del progresso che ha accompagnato tutto il secolo scorso.
“Almeno fino alla metà degli anni 70 quando è arrivata la crisi petrolifera e contemporaneamente hanno preso piede le preoccupazioni ambientaliste”, conclude Ferrario, quando comincia a perdere credibilità l’idea di una natura perfetta, intangibile alle offese dell’uomo, che può essere sfruttata liberamente in ragione delle sue potenzialità illimitate.
Monica Straniero, cinemaitaliano.it, 1/09/2014

Critica (2):A metà degli anni ’60 – siamo all’epoca degli Apocalittici e integrati di Eco – la critica al pro­gresso colpiva l'ideologia capitalista, quel con­sumismo la cui sequela Franco Fortini denun­cia nel '68 con Le regole del gioco: “La corsa al consumo consuma ogni specie di corsa”, in cui inserisce anche il lapidario “Le macchine do­mineranno altre macchine”. E ancora, più poe­tico, il Pasolini delle “lucciole scomparse”. Poi è arrivata la crisi petrolifera e lì non si è parlato più di ideologia ma di problema concreto: in quel momento ha iniziato fermarsi l'entusia­smo di un secolo e anche noi ci siamo fermati. A quel punto si entrava in una nuova ‘era’, che non è la nostra indagine specifica. (…)
Quanto accaduto grazie allo sviluppo tecno­logico dei mezzi di comunicazione è una ri­voluzione totale. Ma non riguarda il mondo dell'industria pesante – tema di questo progetto – e soprattutto non è ancora chiaro perché ci siamo dentro. Di certo come similitudine c'è la portata della mutazione sociale: dove andremo con questa "società dell'immaterializzazione?". Se l'immaginario collettivo dai 50 a fine 70 cambiava a toni forti (abiti, macchine, oggetti…) quello dai 90 in poi è piuttosto invariato, perché più omologato. A eccezione, non a caso, dei modelli dei computer e dei telefonini.
Davide Ferrario, il Fatto Quotidiano, 3/9/2014

Critica (3):

Critica (4):
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