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Balia (La)


Regia:Bellocchio Marco

Cast e credits:
Soggetto
: da un racconto di Luigi Pirandello; sceneggiatura: Marco Bellocchio, Daniela Ceselli; fotografia: Giuseppe Lanci; montaggio: Francesca Calvelli; suono: Maurizio Argentieri; musica: Carlo Crivelli; scenografia: Marco Dentici; costumi: Sergio Ballo; interpreti: Fabrizio Bentivoglio (il professor Mori), Valeria Bruni Tedeschi (Vittoria), Maya Sansa (Annetta), Jacquelin Lustig (Maddalena), Gisella Burinato (la cuoca), Elda Alvigini (Lena), Eleonor Danco (una paziente), Fabio Camilli (il mediatore), Pier Giorgio Bellocchio (Nardi), Michele Placido (Belli, un paziente di Mori); produzione: Pier Giorgio Bellocchio per Filmalbatros srl; distribuzione: Istituto Luce; origine: Italia, 1999; durata: 106'.

Trama:Il dottor Mori, psichiatra in un ospedale per malattie mentali, deve trovare una balia perché il figlio, appena nato, non si vuole attaccare al seno della madre Vittoria. In campagna sceglie la giovane Annetta, che ha da poco avuto un bambino da un insegnante sovversivo finito in prigione. La balia si presta con dedizione e successo al piccolo, suscitando la gelosia e il disagio di Vittoria. Il Mori si deve dividere tra i problemi familiari e i dubbi sul proprio lavoro acuiti dal confronto con un suo giovane collaboratore che, innamorato di una paziente rivoltosa, lascia l’ospedale e si dà alla lotta politica. Intanto Vittoria abbandona la casa non sopportando ulteriormente la presenza di Annetta, che, invece, stringe un particolare rapporto con il Mori. Costui tenta di insegnarle a scrivere e leggere per tenere una corrispondenza con il marito che le scrive dal carcere. In seguito il dottore si riconcilia delicatamente con la moglie e scopre che la balia, di nascosto, ha portato in città il proprio bambino ed ha continuato ad allattarlo; all’inizio vuole cacciarla, poi la perdona, ma suo figlio non si attacca più al seno della donna. Annetta torna in campagna mentre il Mori scrive, per lei, la lettera al marito.

Critica (1):Una volta o l’altra sarà interessante fare un’analisi delle scelte e dei modi con cui i registi si pongono di fronte ai testi letterari su cui costruiscono i loro film. E questa edizione di Cannes, che con una serie di "film da" ha sfiorato delle vette della letteratura mondiale come Melville e Proust, dandone letture di tono e di risultato completamente diversi, ci riporta anche il Bellocchio migliore, attraverso una versione affascinante e infedele di un racconto di Pirandello, La balia (che si può leggere negli Oscar Mondadori, al volume "In silenzio" delle opere dello scrittore siciliano). Dico affascinante perché la visione di Bellocchio – sostenuta dalla splendida fotografia di Giuseppe Lanci, da un’atmosferica scenografia di Marco Dentici e da un cast perfetto – è tornata alla forza e alla trasparenza dei bei tempi. E infedele perché si ha la sensazione che Marco Bellocchio, assieme alla sua giovane collaboratrice Daniela Ceselli, abbia lavorato alla sceneggiatura sul ricordo di una lettura – una privilegiata madre della borghesia inizio secolo non può allattare il suo bambino e prende una balia che con la sua naturalezza scardina gli equilibri familiari – sostituendo alla lettera del racconto pirandelliano i temi che più stanno a cuore al regista, come in un test di Rorschach al contrario. E quindi il padre non è più un ambizioso e velleitario uomo politico socialista, ma si trasforma in uno psichiatra che, al contrario di Lombroso e delle sue certezze positiviste, nutre dei dubbi circa il valore e il senso del suo lavoro – ed è interpretato con nobiltà e dolcezza da Fabrizio Bentivoglio. Valeria Bruni Tedeschi ritaglia un ritratto intenso e sofferente di Vittoria, la madre che non riesce a voler bene al suo bambino, una persona autenticamente sofferente di una malattia che si chiama incapacità di comunicare – e non la Santippe imbranata del racconto. Il marito della balia è un condannato politico e non un violento. La balia, che è Maya Sansa, una ragazza semplice e commovente che si dedica al figlio dell’altra senza riserve, nonostante il dolore per aver abbandonato il suo bambino, non farà la brutta fine che le riserva Pirandello – ma in compenso incarna il paradosso di uno scontro di classe che passa per il più intimo e tenero dei rapporti, quello tra la nutrice e il nutrito. Ancora una volta – ma senza gli spunti paradossali della stagione in cui collaborava con Massimo Fagioli – Marco Bellocchio si concentra, dietro la lettera della storia, sul rapporto tra normalità e nevrosi, tanto da incorniciare il film in un episodio "apocrifo" in cui Mori si reca a visitare, sullo sfondo di un giardino curiosamente simile a quello di Il principe di Homburg, un paziente ostinatamente chiuso nel silenzio (Michele Placido), che alla fine rinuncerà a curare. Ma mettendo il punto di osservazione della storia negli occhi dell’illuminato professor Mori che, al contrario del suo omologo letterario, nutre sentimenti autenticamente democratici, Bellocchio stende anche un suo manifesto di fede nel valore della tolleranza e del diritto di tutti a crescere. Lo sfondo su cui si muove il suo film è quello di una Roma primi Novecento percorsa da fermenti "rivoluzionari". E il rapporto che si instaura tra il padrone e la balia dopo che Vittoria – per nevrosi, per la sua incapacità ad avere un rapporto naturale col figlio, per gelosia – ha lasciato la casa, se offre alla ragazza una protezione fisica e intellettuale, consente soprattutto al suo padrone un contatto autentico con la vita, gli insegna un atteggiamento più aperto verso la condizione degli altri, lo aiuta a capire sua moglie. E chiude sotto il segno dell’ottimismo della volontà una bella storia "morale".
Irene Bignardi, la Repubblica, 20/5/1999

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Marco Bellocchio
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