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Mediterraneo


Regia:Salvatores Gabriele

Cast e credits:
Soggetto e sceneggiatura
: Vincenzo Monteleone; fotografia: Italo Petriccione; musica: Giancarlo Bigazzi, Marco Falagiani; montaggio: Nino Baragli; scenografia: Thalia Istikopoulou; costumi: Francesco Panni; suono: Tiziano Crotti; interpreti: Diego Abatantuono (serg. Lo Russo), Vanna Barba (Vassilissa), Claudio Bigagli (ten. Montini), Giuseppe Cederna (Farina), Claudio Bisio (Novente), Gigio Alberti (Strazzabosco), Ugo Conti (Colasanti), Memo Dini (F. Munaron), Vasco Mirandola (L. Munaron), Irene Grazioli (Pastorella); produzione: Gianni Minervini, per Pentafilm/AMA Film; distribuzione: Penta; origine: Italia, 1991; durata: 105’.

Trama:Rivalità, sogni e amori di un gruppo di soldati italiani, stanziati e abbandonati su una piccola isoletta greca dell'Egeo. Alla fine della guerra però qualcuno preferirà restare nell'isola...

Critica (1):(…) Vi sono almeno due aspetti curiosi in Mediterraneo. Il primo riguarda l’ambientazione durante la guerra nei Balcani e nell’Egeo, entrambe locations proibite per il nostro cinema. Pensiamo al vecchio soggetto L’armata s’agapò che costò addirittura il carcere militare al suo autore, Renzo Renzi, e al direttore della rivista che aveva osato pubblicarlo, Guido Aristarco, con un processo che negli anni ’50 mobilitò l’opinione pubblica. Pensiamo ai più recenti “incidenti” toccati in sorte al neoregista Luciano Tovoli con L’armata ritorna (1983), film che ebbe il torto di rievocare gli infausti esiti della campagna d’Albania (bell’argomento d’attualità) proprio in coincidenza con la più allegra “spedizione” italiana in Libano, attirando censure, veti, impedimenti e meritandosi soltanto un furtivo passaggio in quella stessa Tv che lo aveva coprodotto. L’ultimo film di Salvatores, premiato dal pubblico, è stato soltanto punito – a quanto sembra – con il rifiuto di finanziare altri progetti della stessa società che l’ha prodotto, ma ha infastidito quanto basta chi, erroneamente, l’ha letto come un invito alla diserzione o come una critica al “valore” delle nostre forze armate. Niente di voluto, naturalmente. Ideato ben prima della “Guerra del Golfo”, ultimato nelle riprese solo una settimana dopo l’invasione irachena del Kuwait, è capitato sugli schermi, per una sorta di ironia del destino, quando quello scacchiere ha fatto tremare e inorridire il mondo. Certo, ha così sollevato una maggior attenzione, ma certamente non ha modificato la sua sostanziale debolezza ideologica: quello che anzi si potrebbe definire un attacco alle ideologie. In Mediterraneo quasi non si parla di fascismo, l’antifascismo è del tutto assente, non basta una battuta di Mao posta in bocca ad Abatantuono a connotarlo, il generico riferimento a un’Italia da ricostruire in modo più giusto e da cambiare in modo magari radicale resta sullo sfondo o si trasforma in un’aspettativa ben presto delusa. V’è di più: non esistono nemmeno contrasti o fanatismi nel drappello di soldati posto in scena; sotto le divise alberga un pacifismo più credibile negli odierni obiettori di coscienza che in reclute o richiamati degli anni ’40. O ancora: si avverte persino un certo senso di incredulità nello scoprire che nemmeno il gallismo o un po’ di sufficienza da “popolo dominatore” sfiorano i pensieri e le azioni dei nostri baldi giovanotti proiettati di colpo in una sperduta isoletta greca. In effetti, ciò che Salvatores ha posto in scena è soltanto un’esperienza di gruppo, dove la realtà del set (lavorare per settimane in località lontane e sconosciute, vivere tensioni interpersonali, affrontare qualche disagio ambientale) non può che favorire, se non la “realtà”, almeno una certa verosimiglianza della fiction. Il Marocco di Marrakech Express o la provincia meridionale di Turnè non giocavano da meno in questo processo di identificazione/straniamento, anche se con qualche differenza: l’aspetto on the road qui sostituito dalla circolarità del luogo chiuso o il minor numero di personaggi implicati, con la conseguenza di una maggior concentrazione sui loro rapporti/reazioni. Identica pare invece, nei tre film, la sorte femminile. Guai alle donne, che sembrano tendere a dividersi tra due o più uomini, pur se per amore, ma guai anche alle donne in assoluto: o sono mentitrici (Marrakech) o sono traditrici (Turnè) o sono sbiaditi oggetti di desiderio (Mediterraneo); talmente sbiaditi che restano la foto su una tomba (con la labile giustificazione del regista circa la difficoltà di procedere all’invecchiamento cinematografico della protagonista). In verità gli uomini stanno bene da soli, come ci ha insegnato il cinema americano della frontiera o delle downtowns, con la scusa – ovviamente cinematografica – dell’”amicizia virile”. Ci stanno benissimo i personaggi della trilogia di Salvatores: due, pur di ritardare il ritorno a casa, si allontanano per un’improbabile escursione sui monti dell’Atlante: altri due convengono che se ci si vuol bene è inutile litigare per una donna; gli ultimi due sono persino disposti a far cucina in un ristorante greco non particolarmente appetibile.Si può vincere la paura del femminino – come si può vincere la paura del deserto o del debutto o del mare – ma alla fine è sempre meglio starsene alla larga: chissà mai, potrebbe mordere.
Sotto quest’ultimo aspetto – dobbiamo ammetterlo – Salvatores è un regista “ideologico”, come lo è nel governare con mano quasi sempre ferma il suo gruppo (i suoi gruppi) o nel porsi di fronte ad ambienti insoliti leggendoli in modo inedito. Come rovescia i tradizionali scioglimenti di un plot, come si crogiola e si esalta nel gestire la lavorazione di un film a mo’ del capoguida di un viaggio in compagnia, così rifiuta una visione turistica del cinema (basta confrontare il suo Marocco con quello di Bertolucci, le sue dune “naturali” con quelle oleografiche del Tè nel deserto) e riesce a penetrare in ogni luogo con la spontaneità, l’irrequietezza e la sbadataggine di colui che abbia nel suo bagaglio una buona dose di sane letture internazionaliste o meridionaliste (guarda caso, i tre film si riferiscono ad altrettanti Sud del pianeta). Ma è sufficiente tutto ciò a determinare una vera ideologia? La risposta è negativa se si pensa a quanto la storia e le idee che la muovono siano assenti dal mondo di Mediterraneo, al punto che il giovane spettatore odierno può anche non comprenderne le coordinate cronologiche o geografiche. Ed è ancora negativa se si leggono in trasparenza dai dialoghi del film battute quali “Come si fa ad andare contro i sentimenti…” o “Mi ricorda quando finiscono le vacanze…” o se ci si sofferma sulla scritta finale (“Dedicato a tutti quelli che stanno scappando”) che più che un invito alla diserzione – così alcuni hanno voluto intenderla – , è un consiglio alla fuga da ogni responsabilità. Emblematica, in proposito, è la disponibilità tutta italiota a improvvisare ovunque e comunque una partita a pallone: un momento liberatorio di una tensione (Marrakech), momento ludico che prelude a una nuova tensione (Mediterraneo), o – in entrambi i casi – occasione un po’ corriva per amalgamare attori e spettatori.
Già, gli attori. Sono chiaramente il punto di forza del cinema di Salvatores, della sua stessa nozione di opera cinematografica. Anche se non lo confessa apertamente (a differenza di Pupi Avati, e fra i due si potrebbe anche cogliere qualche affinità), il regista ha in mente, o in atto, una propria factory: meglio, lo si potrebbe definire una sorta di piccolo imprenditore del set, per il quale gli attori sono dei semplici lavoratori, che devono essere bravi e tanto più lo sono quanto maggiormente fanno risparmiare (ed ecco il mito del “buona la prima” o magari delle riprese che procedono in ordine di copione). Il metodo Salvatores dà però i suoi frutti: basti guardare alle eccellenti prove di un Abatantuono perfettamente a suo agio (anche troppo, giacché talora calamita talmente l’attenzione sul suo “essere” da farci perdere lo “spessore” di alcune battute) o di un Giuseppe Cederna sempre funzionale sia che giochi col proprio minuto e sgraziato fisico sia che ne elevi i gesti a gloriosi atteggiamenti donchisciotteschi; senza dimenticare Bigagli e Bisio, che meriterebbero maggiore attenzione dal nostro cinema, e via via tutti gli altri, credibili o accattivanti anche quando i loro personaggi paiono più di maniera. Non tutto è chiaro, non tutto è limpido, in Mediterraneo e altrove. Ma di fronte al film di Salvatores viene voglia di parafrasare la citazione di Mao che nel film Abatantuono – con assoluta preveggenza – fa propria: “C’è molta confusione sotto il cielo, quindi la situazione è favorevole”. Bisognerebbe spiegarne il senso anche a qualche critico.
Lorenzo Pellizzari, Cineforum n. 303, aprile 1991

Critica (2):

Critica (3):

Critica (4):
Gabriele Salvatores
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