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New York, New York - New York, New York


Regia:Scorsese Martin

Cast e credits:
Soggetto
: Earl Mac Rauch; sceneggiatura: Earl Mac Rauch e Mardik Martin; fotografia: Laszlo Kovacs; supervisione e direzione musicale: Ralph Burns; canzoni originali: “Theme from New York, New York”, “There Goes the Ball Game”, “But the World Goes Round”, “Happy Endings” (Liza Minnelli); canzoni di repertorio: “You Brought a New Kind of Love to Me”, “Just You, Just Me” (Liza Minnelli), “Blue Moon” (Robert De Niro & Mary Kay Place); interpreti: Liza Minnelli (Francine Evans), Robert De Niro (Jimmy Doyle), Lionel Stander (Tony Harwell), Barry Primus (Paul Wilson), Mary Kay Place (Bernice Bennet), Georgie Auld (Frankie Harte), George Memmoli (Nicky); produzione: Robert Chartoff-Irwin Winkler Productions; origine: Usa, 1977; durata: 153' (edizione italiana: 135').

Trama:Mentre New York festeggia, il 2 settembre 1945, la resa del Giappone, il giovane sassofonista Jimmy Doyle adocchia, tra la folla riunita nel salone di un grande albergo, una ragazza, Francine Evans, e dopo un assiduo corteggiamento, riesce a conquistarla. Francine è un’ottima cantante, per cui sia lei che Jimmy trovano un impiego prima in un “night”, poi in una orchestra sempre in giro in provincia. Quando il direttore di quest’ultima si ritira, Jimmy, che ha intanto sposato Francine, ne prende il posto. Alla coppia nasce un figlio, il che, invece di renderla più unita, aggrava questi contrasti, dovuti fino allora ai caratteri, che già cominciavano a incriminarla. Da quel giorno, anche le loro carriere divergono: Francine è ormai una diva, non solo della canzone ma anche del cinema, mentre Jimmy ha un lungo periodo di oscurità. Poi, si riprende diventa anch’egli un idolo del “jazz”. Dopo qualche tempo, i due si rivedono, forse si vogliono ancora bene: ma stavolta è Francine a respingere Jimmy per sempre.

Critica (1):«New York, New York risente di certe mie letture. Non ne faccio un mistero, poiché si tratta di letture adorabili, da me ripescate per un semplice particolare o per una lunga sequenza: Leave Her to Heaven (Femmina Folle) di John M. Stahl, con Genen Tierney, Lady in the Dark (Le schiave della città) di Mitchell Leisen; The Man I Love (L’uomo che amo) di Raoul Walsh, con Ida Lupino; e diversi film di Vincente Minnelli. Persino il trucco e i costumi sono gli stessi, e la dinamica con cui gli attori recitano è assai simile. Tutto sommato mi sono divertito, avvicinandomi all’omaggio verso un tipo di cinema di cui in passato si è abusato ma di cui bisogna tener conto». L’autobiografia, come sempre: «Mia moglie Julia era incinta come il personaggio di Liza, e come pure Diahnne Abbot, la moglie di Bobby (De Niro) che canta “Honeysuckle Rose” allo Harlem Club. I nostri rapporti, le nostre difficoltà della vita coniugale, tutto ciò che ci succedeva durante le riprese è scivolato, nel film. È diventata la storia di due individui troppo brillanti, troppo bravi, che non possono in alcun modo vivere insieme. La loro carriera, la loro energia, a loro ambizione distruggono ciò che li aveva riuniti. Una storia molto semplice in fondo, che rifletteva ciò attraverso cui tutti eravamo passati e ciò che vivevamo in quel momento. Io per primo, poiché a quell’epoca vivevo nel teatro di posa. Mi sono ritrovato a mettere in scena un tipo di esistenza che conducevo e ad interrogarmi sul mio passato, sul mio matrimonio, sui miei genitori e su Dio sa cos’altro ancora!»
New York, New York è stato girato interamente in teatro di posa. Ventidue settimane di lavorazione senza locations. Questa scelta radicale implica un approccio antirealistico, in antitesi con il “cronachismo” e l’immediatezza dei film precedenti. «Si è trattato di un lavoro “sentimentale”, di una rivisitazione di alcuni degli aspetti più convenzionali di Hollywood. Tutto in New York, New York è convenzione, nel significato più puro del termine. Voi sapete che ho sempre amato girare in scenografie reali. Di solito, non ho idee preconcette. Ho in testa certe inquadrature ma le visualizzo interamente solo sul posto. Per New York, New York, era necessario che avessi tutto in testa, che tutto fosse previsto in anticipo. Al mattino, arrivando sul set e scoprendo le scene costruite durante la notte, dovevo talvolta ripensare le mie inquadrature, adattarle ad elementi che non avevo previsto. A livello di découpage, ho sovente adottato lo stile dell’epoca: campi medi, piani americani, piani ravvicinati, primi piani di una medesima scena. Quando sorgeva una difficoltà, mi rifacevo alla buona vecchia “grammatica” cinematografica d’altri tempi».
Come ha scritto Alain Masson, l’allusione al musical è singolarmente ricca e diversificata. L’affollamento coreografico di Times Square evoca i numeri creati da Busby Berkeley nei primissimi musical Warner del 1929. Subito dopo, la grandiosità della Moonlit Terrace fa pensare a Broadway Melody (oltre che, per dettagli scenografici, alle numerose scene che vedono le “Big Bands” all’opera nelle biografie anni ’50 dei jazzisti celebri). L’atmosfera notturna delle strade è la stessa di Cover Girl, È sempre bel tempo, Un giorno a New York - anche se quest’ultimo a dire il vero è più svolto sul versante della solarità diurna. Proseguendo ancora, in ordine sparso: Judy Garland scopertamente rifatta nel numero di sua figlia Liza che canta inquadrata dal riflettore nello studio deserto; i battibecchi e i duetti voce/strumento simili a quelli di tante “commedie con canzoni” interpretate da Doris Day; la gesticolazione “inventiva”, prossima allo stile coreografico di Eugene Loring, che richiama Funny Face (Cenerentola a Parigi).
Spesso il musical ha valicato la linea di demarcazione tra commedia e melodramma, assumendo accenti e strutture di quest’ultimo, soprattutto nelle biografie di musicisti (il discorso vale anche per altri periodi più lontani della storia musicale, come l’Ottocento romantico), a cui la storia privata del protagonista Jimmy Doyle appartiene. Masson cita The Jazz Singer, Funny Girl. Si può aggiungere un titolo citato da Scorsese stesso, Man with a Horn (Chimere) con Kirk Douglas. Questo particolare “transgenere” ha caratteri propri: il primo tempo del racconto, notevolmente più lungo che in un normale musical perché comprende l’invecchiamento fisico del protagonista: un’idea iniziale di predestinazione al genio suscettibile di essere negata, frustrata e infine riconfermata; un tirocinio lento e faticoso verso la gloria, costellato di sacrifici in cui gli stessi avvenimenti gioiosi hanno un valore transitorio laddove il musical li pone a coronamento del lieto fine. «Il funzionamento estetico – è sempre Masson che parla – della biografia musicale può essere descritto così: si tratta di prendere in prestito dalla commedia musicale delle “quinte” (il backstage musical) il suo universo convenzionale, che giustifica con poca spesa i numeri musicali, e di mettere in contrasto questo piccolo mondo strettamente normalizzato con una verosimiglianza più ampia e lenta, che si presenti come l’autenticità del vissuto. Così si spiega il carattere centrale dell’irruzione del destino, della “sfortuna che bussa alla porta in modo del tutto inatteso”, indispensabile intrusione della serietà nella sceneggiatura di questi film. Nella storia del musical ne sono stati effettivamente prodotti alcuni, nei momenti in cui è apparso necessario respingere l’accusa di frivolezza che pesava sulla commedia musicale: alla sua nascita, alla sua morte e in maniera ancor più significativa durante la seconda guerra mondiale» («Positif», n. 199). È proprio ciò che ha fatto Scorsese. Legando strettamente la vita professionale di Jimmy e Francine alla loro storia amorosa (uno studio sulla coppia che dilata la verve dimostrata in alcune scene di film precedenti, come il corteggiamento di Ben in Alice), il regista giustifica il suo ripudio di una delle regole elencate: quella del genio creativo. I suoi due protagonisti non sono mai presentati come creatori, se non nella modesta elaborazione a due del «tema di New York» che fa da motivo conduttore; sono semplicemente continuatori di stili e tradizioni preesistenti, anche se Jimmy appare “rivoluzionario” nel suo intransigente rifiuto dei clichés di arrangiamento orchestrale ancora in auge nei primi anni del dopoguerra. Se dunque arte e vita si assomigliano, svanisce quel conflitto che provocava la partecipazione dello spettatore: il contrasto, privato della tensione, diventa puramente convenzionale. Ma Scorsese, rappresentando vite drammaticamente esemplari e insieme staccate dalle norme della convenzione, riesce a fare un passo in più: tramuta la convenzione in forma, grazie (appunto) al rifiuto della verosimiglianza, che ottiene ricreando tutto in ambienti artificiali, posticci.
Sugli aspetti “tecnici” della parte musicale scrive Adriano Villaschi: «Scorsese ha dimostrato di conoscere bene la materia. La presentazione dei due personaggi avviene in un quadro che identifica con estrema precisione il mondo dello swing: le sale da ballo e la radio sono stati i veicoli sociali con cui questo genere di musica si è diffuso e nei confronti del quale non è tanto importante l’attenzione da parte dell’ascoltatore quanto la partecipazione all’atmosfera più o meno elettrizzante che il colore orchestrale e soprattutto il ritmo era capace di creare. Sono queste stesse scene a tracciare i segni caratteristici dei due personaggi. L’uno dimostra di capire il senso di quella musica, saltella, chiacchiera, a tutto pensa meno che ad ascoltare; di lei non si indovina certo la professione fino a quando non si mette a cantare durante il provino che segue il loro incontro ad indicare il diverso livello in cui vive la propria professionalità. Siamo ancora di fronte ad uno Scorsese estremamente preciso quando il protagonista, una volta sfasciata la sua big band, torna dai vecchi amici a cercare lavoro. Vediamo per la prima volta un De Niro mansueto che chiede ai colleghi (tutti neri) di poter suonare, preoccupandosi subito di saggiare fino a che punto il colore della sua pelle sia un, ostacolo. La sequenza di battute che ne segue (“e tu entra dalla parte di servizio”/”allora sei dei nostri”) è molto indicativa dell’aria che respiravano in quegli anni i suonatori di Jazz» («Cinemasessanta», n. 119).
Infine, va segnalato un particolare curioso che mostra ancora una volta come ogni frammento trovi il suo posto nell’armonia d’insieme che è l’universo-Scorsese. Dai dati biografici di Georgie Auld, il «factotum» musicale del film, si apprende che egli fece parte nel 1937 dell’orchestra del trombettista Bunny Berigan, lo stesso che esegue la canzone «I Can’t Get Started» in The Big Shave. Maurizio Porro ha definito New York, New York «un’altra cantata, come Mean Streets, come Taxi Driver, sugli individui che, cibandosi solo del proprio io, non riescono ad emergere a una vita civile se non nella prospettiva della finzione. Così come i protagonisti degli altri film di Scorsese reagivano all’incombente violenza della società organizzata con altrettanta violenza, questi due artisti, cani sciolti nel grande parco della luce al neon, rispondono al resto del mondo isolandosi nel loro lavoro, chiudendosi in un io affamato solo di soddisfazioni individuali. La musica è l’alibi di due coscienze infelici» («Letture», 12, 77).
Gian Carlo Bertolina, Martin Scorsese, Il Castoro Cinema-L’Unità, 1995

Critica (2):

Critica (3):

Critica (4):
Martin Scorsese
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