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DAU. Natasha


Regia: Khrzhanovskiy Ilya Oerte Jekaterina

Cast e credits:
Sceneggiatura: Ilya Khrzhanovskiy, Jekaterina Oertel; fotografia: Jürgen Jürges; montaggio: Brand Thumim, Hoping Chen; scenografia: Denis Shibanov; costumi: Irina Tsvetkova, Lyubov Mingazitinova, Elena Bekritskaya, Olga Bekritskaya; suono: Maksym Demydenko, Borys Peter, Stefan Smith; interpreti: Natalia Berezhnaya (Natasha), Vladimir Azhippo (Investigatore), Olga Shkabarnya (Olga), Luc Bigé (Luc), Alexey Blinov (Prof. Blinov), Anatoliy Sidko (Palych); produzione: Phenomen Film; distribuzione: Teodora Film (2021); origine: Gran Bretagna, Germania, Ucraina, Russia, 2020; durata: 135'.

Trama:Il primo film nato dal leggendario progetto DAU racconta le storture e le violenze del regime sovietico dal punto di vista di Natasha, umile cameriera nella mensa dell'istituto scientifico DAU. Dopo una festa in cui scorrono fiumi di alcool, Natasha si abbandona a una notte di passione con uno scienziato francese, Luc. Convinta all'inizio di aver trovato l'amore, la donna si ritrova presto sola e in grave pericolo: venuto a conoscenza dei suoi rapporti con uno straniero, un funzionario del KGB la
convoca per un interrogatorio...

Critica (1):È stato girato nel corso di tre anni, senza sceneggiatura e con attori non professionisti. Alla fine ci si chiede se DAU. Natasha non sia il vero scandalo di questa Berlinale. Il film del regista russo Iljá Chrschanowski, realizzato con la collega Jekaterina Oertel, è stato preceduto da gossip ed eccitazione.
C’è una scena in DAU: Natasha in cui a una donna nuda e legata viene inserito un oggetto nelle parti intime durante un interrogatorio. Scena non presente nella sceneggiatura, ha spiegato il regista. Un eccesso impossibile da digerire, nato, per così dire, spontaneamente, generato dalla situazione sul set. Esperimento? Pornografia? Violenza? La stampa americana ha già parlato di un trionfo del voyeurismo maschile tre anni dopo #MeToo nel pieno del concorso berlinese.
Il contesto in cui la pellicola è nata ha qualcosa di malato: un mondo parallelo di stampo stalinista ricreato alla perfezione in cui 400 persone hanno vissuto per circa tre anni. Uno scherzo? No, è il set finito fuori controllo creato dal suo iniziatore Iljá Chrschanowski. Regista o dittatore di una setta cinematografica?
Il film di debutto di Chrschanowski, 4, presentato alla Mostra del cinema di Venezia nel 2014, parlava di quattro persone che si incontravano in un bar e raccontavano bugie sul loro passato, bugie che iniziano a infiltrarsi nelle vite quotidiane. DAU. Natasha presenta invece l’idea di vite finte che diventano una realtà estrema. L’Istituto, come i registi hanno chiamato la struttura, ha visto i partecipanti vivere una vita il più fedelmente possibile a quella vissuta dai cittadini sovietici.
Quando il cast ha iniziato a lavorare al film, l’anno ricostruito all’Istituto nell’era DAU è il 1938. Chrschanowski e Oertel hanno prestato un’attenzione maniacale ai dettagli storici. Ogni tre settimane aggiornavano i costumi, le acconciature e gli oggetti, per ricreare l’ordine cronologico degli eventi. Durante i tre anni di riprese sono trascorsi 30 anni nel periodo DAU.
La cosa strana è che la maggior parte di ciò che è accaduto in quei tre anni non è stata filmata. È stata utilizzata una sola telecamera alla volta, quella in mano al cineasta tedesco Jürgen Jürges, che con la sua squadra di tre persone ha girato 700 ore di riprese nel periodo 2009-2011. Da questo materiale sono stati realizzati molti film, nonché installazioni di realtà virtuale, presentate in mostre a Parigi e Londra.
Ora la Berlinale mostra il primo film nato dal progetto. Anzi due: nella sezione Panorama c’è anche un’opera audiovisiva di sei ore in nove capitoli, chiamata DAU. Degenerazione. Non sorprende che un film realizzato senza sceneggiatura sia episodico. Ci scene di una drammaticità sorprendente, mentre gran parte della trama ha luogo fuori dallo schermo.
Sono forti le polemiche che hanno accompagnato il progetto DAU per le scene sessuali non simulate che sollevano giustamente questioni legate allo sfruttamento, sia per i personaggi stessi che per gli attori che interpretano quei ruoli. Natasha (Natalia Berezhnaya) gestisce il caffè nella mensa della struttura sovietica.
All’inizio del film si chiede perché debba abbandonare Dio per far parte del sistema. Oltre a questo, Natasha si preoccupa essenzialmente dell’invecchiamento, specialmente quando sua figlia (Olga Shkabarnya), è ormai più giovane e più bella di lei. I clienti sono gli scienziati che frequentano la mensa. Le scene di apertura delineano perfettamente il mondo che DAU vuole raccontare fin nel dettaglio e i registi mostrano un talento straordinario per le sequenze che coinvolgono lunghi dialoghi.
C’è un elemento futurista che aleggia fuori dalla locanda albergo. Ma come si può raccontare la fantascienza quando questa è successa nel passato? Chrschanowski ci riesce benissimo. Esperimenti vengono condotti mentre, nella residenza degli scienziati, Natasha si lega al fisico francese in visita (Luc Bigé).
Una relazione che la porta a farle visitare una camera delle torture, scelta narrativa e stilistica che solleva più domande che risposte. Il fisico ebreo russo e premio Nobel Lew Landau parlava di bisonti quando voleva sottolineare l’insufficienza intellettuale dei suoi simili. Stalin e la direzione del PCUS invece Landau non li definiva bisonti, ma fascisti.
Un radicale libero, fisicamente parlando, in mezzo al terrore. I suoi studenti lo chiamavano Dau. La versione originale e senza tagli di questa pellicola potrebbe essere vista per un mese senza interruzioni. Oppure essere vista in 13 film diversi o nel formato della serie. Il problema è: quasi nessuno lo ha mai visto intero.
Simone Porrovecchio, cinematografo.it

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Critica (4):
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